venerdì 5 giugno 2020

Quale avvenire per il lavoro umano dopo la pandemia?

È vero che la produzione di "cose" – informatizzata, automatizzata e robo­tiz­zata – tende a migrare nel post-umano, ma le dinamiche in atto aprono anche una finestra di possibilità verso la democratizzazione, la de-mercificazione e l'impiego partecipato del lavoro umano. Solo una vera e propria rivoluzione mondiale della dignità umana nel lavoro ci permetterà di assicurare un equo trattamento a tutte/i, e anche di riunire le forze collettive oggi necessarie...

 

di Andrea Ermano

 

Venticinque anni fa, nel centenario della fondazione de L'Avvenire dei lavoratori, discutevamo insieme a Peter A. Schmid (Università di Lucerna) dell'idea di pubblicare una raccolta di saggi sull'"avvenire del lavoro". L'impresa ci apparve allora oltremodo ambiziosa, azzardosa e complessa sul piano scientifico a causa delle impetuose dinamiche in atto. In generale, è difficile prevedere il futuro, soprattutto se ancora non lo si conosce, ci dicemmo... Dopodiché ci impegnammo in percorsi di ricerca più settoriali e modesti. Ma la questione che a fine anni Novanta discutevamo con tanta passione resta più attuale che mai.

    Oggi in tema di "avvenire del lavoro" la situazione per certi versi è divenuta ancora più drammaticamente caotica. Ma per altri versi si va delineando qualche (sempre provvisorio) elemento di chiarezza. Si tratta di fenomeni che, per quanto mi concerne, non avevo allora neppure il coraggio di pensare, come la questione del "post-umano". Nel frattempo l'influente teorica del femminismo della differenza Rosi Braidotti(Università di Utrecht) ha scritto libri su libri in merito, con evoluzioni di pensiero anche scanzonate e spericolate, che possono aiutarci a "prenderla con filosofia", come si suol dire. 

    Ma per limitarci qui e ora al tema del lavoro, e per farla breve, diciamo che si stanno delineando queste due tendenze di fondo: 

    1) la produzione di "cose", come i beni di consumo, tende a essere informatizzata, guidata da algoritmi, automatizzata, robotizzata e insomma potrebbe effettivamente emigrare in una dimensione produttiva post-umana; 

    2) l'apporto umano non appare invece sostituibile nelle attività volte all'accudimento delle persone, alla tutela dell'ambiente inteso come il contesto socioculturale, le forme di vita e (non da ultimo) l'habitatnaturale.

    Ovviamente, il passaggio d'epoca nella produzione delle "cose" (1) non è concluso e forse mai lo sarà completamente. Quindi, per esempio, non ha torto Pier Luigi Bersani a ricordare nel suo recente discorso alla Camera (vai al video su RR, minutaggio 16:43) che per adesso sussiste e continuerà comunque a sussistere ancora per un bel po' l'interesse nazionale (ed europeo) alla produzione dell'acciaio, affinché le nostre industrie non debbano dipendere dai capricci altrui, con il rischio che ti consegnino le lamiere che ti servono come vogliono al prezzo che gli pare e non si sa bene quando. 

    Nondimeno, è sostanzialmente l'apporto umano nel settore dei "servizi" (2) il punto archimedeo sul quale fanno leva i tremila intellettuali di fama mondiale firmatari dell'Appello per il futuro del lavoro dopo la pandemia (democratizing work) al quale abbiamo aderito e che abbiamo pubblicato sull'ADL della scorsa settimana, insieme a decine e decine di altre testate in tutto il mondo.

    Oggi, opportunamente, ritorna a parlare di questi temi Giorgio Fazio (vai al sito de "il manifesto") in un'intervista alla filosofa Rahel Jaeggi, ordinaria alla Humboldt di Berlino ed esponente della "Teoria critica" di ascendenza ador­niana, giunta alla sua terza generazione:

    «La crisi del coronavirus ha reso evidenti, come una lente di focalizzazione, tutti i problemi del nostro mondo del lavoro contemporaneo e della nostra con­cezione del lavoro», afferma Rahel Jaeggi, che è insieme a Nancy Fraser una delle prime firmatarie dell'Appello, e prosegue così: «Questi problemi non sono nuovi. Ma il Manifesto utilizza questo momento di crisi, in cui è pressante l'esi­gen­za di una nuova valorizzazione del lavoro, come una finestra di possibilità».

    Le richieste di cui parla l'Appello (o Manifesto) dei Tremila attengono ai compiti di democratizzare la produzione, de-mercificare il lavoro e risanare l'ambiente (vai al sito di RaiRadioTre con il servizio "Democratizzazione del lavoro" di Vittorio Giacopini dedicato a Rahel Jaeggi). 

    Una delle questioni più dibattute in questo momento riguarda il futuro del lavoro dopo la crisi pandemica in corso e su ciò la filosofa osserva che: «Una crisi di questa portata può prendere molte direzioni. Può condurre a trasformazioni, buone o cattive, ma anche ricondurci allo status quo precedente. Al momento non credo si possa prevedere». D'altra parte, aggiunge Jaeggi, «i processi di apprendimento collettivi sono sempre messi in moto, in primo luogo, da questi momenti di crisi: da slittamenti nella struttura delle istituzioni e delle pratiche esistenti. Assistiamo ora ad una grande incertezza. Notiamo come i modelli vigenti di organizzazione sociale ed economica, probabilmente, non sono sufficienti ad affrontare la crisi. Concezioni acquisite – come l'ideologia del mercato in generale – sembrano ormai giunte al capolinea. Si apre quindi forse una speranza».

    Speranza per molti. Ma forse anche paura per altri. Per via della ricchezza e del potere di cui la transizione in atto modificherà fatalmente la distribuzione e gli equilibri. 

    Chi ha guidato il mondo negli ultimi tre decenni oggi si preoccupa dell'invadenza dello stato, paventa la ricaduta in una sorta di "socialcomunismo da pandemia" (horribile visu!), e reclama il ritorno all'ordine precedente, nel quale tutti i ruoli erano stati mirabilmente assegnati, e solo ai privati toccava portare avanti tutte le attività economiche. Di qui l'interminabile orgia di privatizzazioni, delocalizzazioni, deregolamentazioni alla quale abbiamo assistito, con compagnie di rating newyorkesi giunte a chiedere financo la modifica della Costituzione repubblicana italiana ("troppo socialista"). E guai se lo Stato (la "politica"!) ardiva intromettersi nelle attività imprenditoriali.

    Purtroppo, però, il libero mercato che si regola da sé non appare minimamente in grado di produrre le scelte di governo globale che via via si renderanno necessarie alla sopravvivenza della vita umana sulla Terra.

    Chiedo venia per quest'ultima espressione – la "sopravvivenza della vita umana sulla Terra" – che molti (e io tra questi) potrebbero percepirecome alquanto esagerata. Ma è pur di questo, proprio di questo, che parlano appunto i tremila importanti studiosi di fama mondiale firmatari dell'Appello (o Manifesto), quando ci esortano a confrontarci con il rischio del collasso ambientale. Di fronte a ciò, secondo i Tremila (ma anche secondo Al Gore, papa Francesco, Slavoj Žižek, Greta Thunberg e tanti altri), noi umani dobbiamo fare in modo non solo «di assicurare la dignità di tutti i cittadini ma anche di riunire le forze collettive necessarie per poter preservare la vita sul nostro pianeta» (corsivo mio).

    Insomma, ancora possiamo farcela. Disponiamo delle capacità tecniche necessarie a realizzare la grande ristrutturazione ambientale ed ecologica necessaria, purché s'incominci. Grazie alle ricerche del Dipartimento di Ingegneria dell'Università di Cambridge (vai al PDF di "Reducing energy demand: what are the practical limits?") sappiamo che "cambiamenti di progettazione realizzabili" possono ridurre il consumo di energia del 73% su scala globale! 

    Ma dobbiamo essere consapevoli dell'enorme quantità di lavoro necessaria a un compimento di queste dimensioni globali, perché «questi cambiamenti richiedono l'impiego di molta forza lavoro e per metterli in atto sono necessarie scelte che nell'immediato risultano costose». 

    Quindi il vero problema sta nel fatto che stavolta il vecchio sistema fondato sull'autodichia finanziaria del libero mercato non può essere sanato dagli stati, come è accaduto dopo la crisi del 2007-2008, perché gli stati non sono singolarmente in grado di governare il mondo. E perché il mondo non potrà essere appunto governato senza molto, moltissimo lavoro. 

    Ed è precisamente qui, lungo la linea destinale dell'"avvenire del lavoro", che la questione della "politica" può e deve trasformarsi nella questione cosmopolitica. Richiamando l'articolo 23 dellaDichiarazione Universale dei Diritti Umani nel quale si afferma che ogni persona ha diritto al lavoro. l'Appello (o Manifesto) prospetta come ipotesi di soluzione una "Garanzia di Impiego" (Job Guarantee):

    «Una Job Guarantee permetterebbe ai governi, in collaborazione con le comunità locali, di creare lavoro degno e al contempo di contribuire agli sforzi per evitare il collasso ambientale», scrivono i Tremila: «Davanti alla crescita della disoccupazione in tutto il mondo, i programmi per garantire l'impiego possono giocare un ruolo fondamentale per assicurare la stabilità sociale, economica e ambientale delle nostre società democratiche».

     Tuttavia, questa prospettiva non potrà essere tradotta in opere e giorni senza riprendere riflessioni come quelle di Ernesto Rossi sull'esercito del lavoro. La sfida per i Tremila, dunque, e per tutti coloro i quali si danno pensiero circa l'"avvenire del lavoro", consiste ora nel compitodi ri-declinare quest'antica tematica nelle dimensioni della formazione, dell'accoglienza e della dignità di cui s'intesse la situazione attuale.

 

DEDICATO ALLA MEMORIA DI ANDY ROCCHELLI

(Pavia, 27 settembre 1983 – Andreevka, 24 maggio 2014)


domenica 3 maggio 2020

LA LEVA CIVILE DEL LAVORO E LA RACCOLTA DEI POMODORI

Dalla strage di operai in protesta per le otto ore nella Chicago del 1886 si sono celebrati 134 Labour Days. E quanto alla condizione di vita della classe operaia la storia d'Italia e dell'umanità hanno registrato enormi passi avanti, ma non senza fasi di ricaduta all'indietro ed epoche di vera e propria barbarie. E però un "Primo Maggio" così… 
 
di Andrea Ermano

 

È stato il più strano 1° maggio di sempre. Non di una festa del, ma di una meditazione sul lavoro si è trattato, di una lunga meditazione filtrata dalla sensibilità di grandi artisti, nell'ormai tradizionale "Concertone" di CGIL, CISL e UIL, giunto al suo trentesimo appuntamento. Una presentatrice di eccellenza, Ambra Angiolini visibilmente commossa nell'enorme vuoto di Piazza San Giovanni, ha condotto il grande evento in forma telematica, senza "assembramenti", ma seguito a casa da milioni di persone. A esso hanno preso parte star di levatura internazionale come Patti Smith, Sting, Vasco Rossi, Zucchero, Gianna Nannini e giovani talentuosi come Ermal Meta, Fabrizio Moro e tantissimi altri (vai al video su Raiplay).
    Questo è il primo "Primo Maggio" in cui – a parte qualche piccolo flash mob qua e là – non si sono viste manifestazioni pubbliche dei sindacati né nelle piazze d'Italia e nemmeno nel resto del mondo: a causa della "distanza fisica" necessaria a contrastare la diffusione del Covid-19. Su questa emergenza e anche sugli altri problemi in discussione Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, ha rilasciato al direttore del settimanale "L'Espresso", Marco Damilano, un'ampia intervista che propone al dibattito della sinistra italiana il grande tema di un "nuovo modello di sviluppo" (vai al video sul sito de L'Espresso).
    Sulla formula "nuovo modello di sviluppo" usata da Landini, non propriamente nuova, converrà ritornare. A colpire più di tutte sono state le parole del Capo dello Stato, cadute come un fulmine, non a ciel serenosolo perché la parola "sereno" poco s'addice alla situazione: 

 

«Non ci può essere Repubblica senza lavoro».

 

Il Presidente, richiamando il fondamento primo della nostra architettura istituzionale, ha sostanzialmente detto che se cede il fondamento l'intero edificio rischia di crollare. Il che ci spinge a un breve ripasso costituzionale. A partire dall'Articolo 1: 

 

«L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».

 

La Repubblica è la forma che lo Stato italiano ha assunto dopo la disfatta della dittatura mussoliniana e della monarchia sua alleata per un intero ventennio, segnato dalle persecuzioni contro gli oppositori, dall'assassinio politico contro figure quali Don Minzoni, Matteotti e i fratelli Rosselli, dalle leggi razziali contro i cittadini di religione e ascendenza ebraica, dalla tragedia conseguita al coinvolgimento nella Seconda Guerra Mondiale, coinvolgimento fortemente voluto dal duce, che programmò il sacrificio inutile di migliaia di ragazzi per potersi "sedere al tavolo dei vincitori". 
    Alla fine dell'avventura il Regno d'Italia – ormai diviso in un'area padana prona ai voleri di Hitler e in un territorio centro-meridionale liberato dagli Anglo-Americani – fu ridotto a un panorama di macerie. 
    Ricordiamolo ai nuovi e vecchi smemorati.
    L'articolo 1 della Costituzione qualifica la forma repubblicana come "democratica". Che cosa significa qui "democrazia"? Lo spiega il secondo comma dell'articolo: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Le forme e i limiti della Costituzione sono necessari in quanto e per quanto il popolo sovrano è costituito da persone dotate, ciascuna per sé, di diritti fondamentali. Tant'è che l'Italia democratica e repubblicana «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», come chiarisce l'Articolo 2. Ed è in nome di questi diritti che conseguono «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
    La concatenazione dei "principi fondamentali" della Carta approda al memorabile Articolo 3 nel quale è solennemente sancita la pari dignità sociale e l'eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». 
    Sicché è un fondamentale "compito" (compito!) della Repubblica: «Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
    Insomma, l'Italia democratico-repubblicana poggia sul basamento costituzionale del lavoro e assegna a se stessa il compito di favorire concretamente la partecipazione di cittadine e cittadini in quanto lavoratori e lavoratrici all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 
    Ma che cosa vuol dire tutto questo? Chi sono ormai i lavoratori? E ha ancora un senso la parola "lavoro" oggi o non avevano ragione certe grandi agenzie finanziarie quando proclamarono necessario "superare" queste tendenze 'socialisteggianti' della Costituzione italiana? 

 

Ricordo che, un quarto di secolo fa o poco meno, quando mi fu affidato il coordinamento editoriale de "L'Avvenire dei lavoratori", alcuni giornalisti e intellettuali mi consigliarono di cambiare la dicitura della testata e, cioè di togliervi l'espressione "lavoratori" onde svecchiarne l'immagine. E allora riflettemmo a quelle sollecitazioni, che aderivano allo spirito dei tempi, nel più selvaggio decennio egemonico della ideologia neoliberista. 
    In quella seconda metà degli anni Novanta un ex alto dirigente del PSI, uomo brillante, assunse la direzione di "MondOperaio" e, con un colpo di fantasia, decise di cambiare la storica testata di Pietro Nenni ribattezzandola in "Mondo-Opera-Io". 
    Non sapendo più che farsene dell'"Operaio" lo si scisse in due parole: "Opera" e "Io". 
    Che genio. Ma c'era un ma. In che modo avremmo potuto riformulare noi "L'Avvenire dei lavoratori", ottenendo una pirotecnia di pari livello? 
    La nostra testata, l'aveva già modificata Ignazio Silone, riformulando l'originario al singolare "L'Avvenire del Lavoratore" (1897) in "L'Avvenire dei lavoratori" al plurale (1944). 
    Dopo qualche bottiglia di cognac, ci venne quest'idea. 
    Dato che – al pari dell'"Io" in "Mondo-Opera-Io" – anche la parola "Re" in "Lavorato-Re" è in fondo sussumibile al concetto genere della soggettività sovrana, si sarebbe potuto ricorrere a esortazioni ingegnose, del tipo: "Vedi qua" (=To'), "popolo sovrano" (=Re), ché ci hai un compito da svolgere (=Lavora!).
     "Lavora! To'! Re!". Per una notte ad alto tasso alcolometrico parve una soluzione veramente azzeccata. E un giornalista – appellandosi alla sostanziale analogia tra il popolo sovrano e il popolo lavoratore – propose persino la variante in anagramma: "To', il Re Lavora!".

 

Che sbornia. E che mal di testa il giorno dopo. Scherzi a parte, torniamo al monito del presidente Mattarella: «Non ci può essere Repubblica senza lavoro».
    Dato però che il coronavirus sta provocando una grave recessione, e quindi un'ondata di "senza lavoro", ci si deve chiedere in tutta serietà quali misure saranno possibili per assorbire tutta questa disoccupazione. 
    Francesco Mutti, che guida l'industria di conserve alimentari "Mutti", azienda di famiglia fondata a Parma nel 1899 e oggi leader nel settore del pomodoro, ha anche lui un'idea: «Mancano i braccianti? Si arruoli chi ha il reddito di cittadinanza». Perché non parlarne? L'idea è interessante, anche se apre a una lunga serie di domande. Ci permettiamo qui di formularne due: 
    1. Come mai quest'anno, guarda caso, mancano i braccianti? 
    2. Se lo Stato paga gli "arruolati" da reddito di cittadinanza, l'industria Mutti Spa pagherà poi lo Stato, affinché questi possa estendere il reddito di cittadinanza, come pure sarà necessario vista l'emergenza Covid-19?
    Riguardo alla prima domanda, sulla mancanza di "braccianti", è chiaro che ci si riferisce alla mancanza di "immigrati" e quindi si pone con immediata drammaticità un problema di "accoglienza" che gli apprendisti stregoni non hanno ancora ben metabolizzato: noi, l'italia, siamo un paese di vecchi. Ma, in assenza di una lungimirante politica di accoglienza, saranno gli immigrati a evitare il Belpaese. E a quel punto i raccolti (ma anche molto altro) dovranno andare a farseli – giocoforza – i nonni. 
    Ciò premesso, siamo assolutamente convinti – e non da oggi – che: 
    a) Il reddito di cittadinanza deve essere rafforzato e anzi esteso agli innumerevoli casi di emergenza non inquadrabili nell'istituto della Cassa Integrazione. 
    b) Il reddito di cittadinanza deve accompagnarsi a una progressiva obbligatorietà della leva civile – in sostituzione di quella militare sospesa vent'anni fa – volta alla costruzione di un massiccio Servizio Civile Universale. 
    c) Il Servizio Civile Universale deve progressivamente diventare un potente strumento democratico del popolo sovrano in termini di partecipazione alla vita economica, sociale e politica del Paese, incluse le emergenze ambientali e infrastrutturali o anche quelle connesse all'accoglienza nonché alla formazione permanente ecc.
    d) La partecipazione diretta, responsabile e parzialmente autogestionaria dei cittadini alla vita economica, sociale e politica del Paese deve articolarsi – come scriveva Ernesto Rossi – in una pluralità molto agile e dinamica di modi e forme. 
    e) La partecipazione diretta deve rafforzare (non indebolire!) anche nei contenuti la dimensione politico-istituzionale della "rappresentanza".

POLICRISI VIRALE E GOVERNABILITÀ

Il vaso è rotto, la trasformazione in atto. 

Chi la governerà? E come si potrà?

 

di Andrea Ermano

 

Un bravo pittore post-surrealista mi ha raccontato questa vicenda, che cerco di restituirvi parola per parola: «Un giorno sotto le feste di Natale andavo a passeggio in città lungo una strada centralissima, osservando il continuo via vai di belle signore riccamente impellicciate con i loro Doberman e Pitbull al guinzaglio», mi riferisce. 

    E prosegue così: «A un certo punto mi viene incontro un intellettuale che conosco dai tempi di Parigi e mi prende a braccetto. Finiamo su in collina, al Politecnico, nell'ampio capolinea di tram a cremagliera che sferragliano avanti e indietro, lungo un ordine abbastanza complicato di scambi e di doppi binari. L'intelò parigino ha preso a concionare animatamente, in tedesco! E più volte ci sono residui di saliva che si proiettano sulle mie labbra e guance, nonché sul mento. Adesso mi sta parlando del Papa. Io lo guardo. È un tipo magro e asciutto. Mi ricorda, non so perché, uno di quei ragazzi-apostoli pasoliniani nel Vangelo secondo Matteo. Eppure lui è molto più vecchio. Intanto, lunghissimi tram a cremagliera salgono e scendono senza soluzione di continuità. Io sempre più allarmato scopro di essere vestito del mio solo accappatoio, come dopo la doccia. E allora, allora gli urlo in faccia: "Ma, di grazia, perché non la smetti di sputacchiarmi!? Tu vuoi proprio contagiarmi con il Coronavirus!?" Ed ecco che – come nei peggiori cliché – mi sveglio in un bagno di sudore». 

    La curva epidemica, sfondate le cinte murarie dell'inconscio collettivo, sta ormai invadendo i nostri sogni. E questo è un fatto non del tutto trascurabile. In un'intervista a Repubblica osserva Rino Formica, vecchio saggio del vecchio PSI: «Mi ha colpito la paura che c'è nel Paese. Una paura che non ricordo nemmeno durante la guerra. Io durante la guerra andavo a scuola. E c'era angoscia, naturalmente, ma si sposava con la consapevolezza che prima o poi tutto sarebbe finito, con dei vincitori e dei vinti. Quindi la paura era razionale, con la pandemia prevale invece l'irrazionale».

    L'irrazionale si esprime in molti modi. I governi di mezzo mondo chiedono aiuto alle sfingi materne/paterne degli esperti, oscillando di continuo tra la rivolta e la sottomissione. Il presidente Trump minaccia di licenziare il Grande Immunologo, poi cambia idea e, precipitevolissimevolmente, finisce nelle fauci dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ma non si dà per vinto: minaccia di chiudere il Congresso e di riaprire, una dopo l'altra, tutte le popolosissime curve sud del campionato di Football americano. Qualcuno lo informa che l'inizio della stagione 2020 è stato rimandato a settembre. Un tweet tira l'altro. Intanto, i capi di stato e di governo europei nominano ciascuno la sua task force, sollecitando un ampio dibattito democratico in materia economica e sociale focalizzato sulla situazione che verrà. 

    Ma quale dibattito, per favore?! Il costituzionalista Felice Besostri rileva dalla sua clausura milanese che i Parlamenti sembrano completamente scomparsi dal panorama. Grande è il disordine sotto il cielo, ma la situazione, più che eccellente, è emergente. Ed eccoci qua, in uno stato d'eccezione globale mai verificatosi su questa scala dopo il 1945. Mentre già dilaga il linguaggio marziale, in conformità con la Seconda Legge della Prevalenza, perché c'è sempre un cretino che quando piove a catinelle invoca altra pioggia, e molta, sul già bagnato. Non stiamo scherzando, basti pensare agli innumerevoli esempi di frasi come «il nostro nemico è invisibile» oppure «dobbiamo combattere contro il mostro in prima linea» eccetera (leggi l'articolo "Guerra alla guerra" sulla Treccani).

    A proposito di guerra e virus, dice il sociologo Edgar Morin, giunto ormai alla soglia dei cento anni: «Ci sono forze autodistruttive in gioco negli individui come nelle collettività, inconsapevoli di essere suicide». Le pulsioni suicide-omicide (Thanatos) sfociano nella guerra (Polemos), ma sono contrastate dalla forza opposta, Eros, sostiene Morin: «Si tratta di "due inconciliabili ma inseparabili nemici" che agiscono nella storia umana». La guerra e le tendenze omicide della storia umana traggono slancio dall'incapacità di gestire situazioni complesse. 

    La complessità, secondo Morin, ci spinge verso l'autodistruzione. «Stiamo vivendo una tripla crisi: quella biologica di una pandemia che minaccia indistintamente le nostre vite, quella economica nata dalle misure restrittive e quella di civiltà, con il brusco passaggio da una civiltà della mobilità all'obbligo dell'immobilità. Una policrisi che dovrebbe provocare una crisi del pensiero politico e del pensiero in sé». 

    Ovviamente, non è ancora all'orizzonte alcuna consapevolezza critica di questo genere. Ma che cos'è – colta nella sua radice – una "situazione complessa"? Nel nostro caso è appunto la "policrisi" di cui parla Morin, che deriva da tre dinamiche con andamento ed esito casuale. Laddove, il minimo battito d'ali d'una farfalla in Brasile può risultare decisivo allo scatenamento di un tornado nel Texas. O anche no. Il punto decisivo sta nella non prevedibilità di questo "effetto farfalla", come lo definì il matematico e meteorologo Edward Lorenz in una leggendaria conferenza del 1972. Un altro grande matematico, Alan Turing, in un saggio del 1950, anticipava così lo stesso concetto: «Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza».

    La storia umana è piena di queste "dinamiche complesse" ed è forse perciò che, come la storia insegna, noi dalla storia non impariamo un bel nulla. La storia infatti «comporta un certo numero di determinismi, come lo sviluppo delle forze produttive o i conflitti di classe indicati da Marx, ma anche una dimensione shakespeariana, di noise and fury», la favola raccontata da un idiota piena di chiasso e furore, che non significa nulla. 

    In conclusione, secondo Morin, «la storia, dunque, ci insegna a essere vigili e a pensare che i periodi che appaiono progressisti possono essere seguiti da regressione e barbarie, e che nemmeno questa è eterna. Prima della guerra, la dominazione nazista in Europa sembrava generale e che cosa ha fatto cambiare le cose? Il Duce. Perché ha voluto attaccare la Grecia ma è stato fermato dal piccolo esercito greco, allora ha chiamato Hitler in aiuto, che ha dovuto rimandare di un mese l'attacco all'Urss previsto a maggio del '41, perché si è scontrato con la resistenza serba prima di arrivare a piantare la bandiera con la svastica sull'Acropoli. Così, arrivato alle porte di Mosca, l'esercito tedesco è stato congelato da un inverno precoce».

    Bisogna essere vigili. 

    Ma in che modo? Non tramite un mero sforzo cognitivo si potrà "vaticinare" il futuro. A questo "ignoto" occorre fare fronte sul piano dell'agire pratico: sul piano della capacità di tenuta individuale e sociale, sul piano della rilevazione dei cambiamenti via via che questi si manifestano e soprattutto sul piano delle operosità necessarie a garantire un governo quotidiano delle trasformazioni. 

    Di più: è ben probabile che noi oggi non abbiamo un'idea definita sulle misure veramente necessarie, ma anche in questo caso possiamo (dobbiamo) fare qualcosa: avviare un vasto, vastissimo percorso collettivo di formazione e di adeguamento ai compiti che si prospettano. 

    E il lavoro qui non manca, dato che il libero mercato non si preoccupa delle quisquilie senza profitto. Un breve catalogo delle quali è qui compendiato da Luigi Covatta: «Lo stress test della pandemia ci fa scoprire un sacco di cose della nostra società. Non solo che molti non possono #restareacasa perché una casa non ce l'hanno. Anche, per esempio, che le aziende agricole non funzionano senza poter disporre di manodopera in condizioni di semi schiavitù; che una cospicua porzione di forza lavoro (nel turismo, nel commercio, ma non solo) è totalmente priva di tutele; che nelle carceri sovraffollate il "distanziamento sociale" non è praticabile; che l'e-learning e lo smart working devono fare i conti, oltre che con la banda larga, con l'analfabetismo informatico di una decina di milioni di concittadini; che le residenze per anziani sono terra di nessuno: e che, sempre per parlare di anziani, l'assistenza domiciliare è relegata nella zona grigia del lavoro nero».

    In questo senso occorre riavviare una grande mobilitazione popolare e pacifica: per affrontare le emergenze che via via vengono e ancora verranno a manifestarsi, per pianificare e porre in essere le strategie degli interventi che a esse devono conseguire, per rafforzare comunque le attività certamente utili o necessarie (vedi alle voci: sanità, accudimento delle persone e del territorio, sicurezza, accoglienza ecc.), per realizzare, adeguare e focalizzare sempre e nuovamente i percorsi formativi e di riqualificazione che si riveleranno via via utili alla bisogna. 

    Secondo Covatta: «si tratta di adeguare il nostro welfare ad una società più complessa di quella che c'era nei "trent'anni gloriosi" seguiti alla seconda guerra mondiale: una società, la nostra, in cui non tutti i bisogni sono riconducibili alla dialettica capitale-lavoro, ed esigono quindi non solo risposte amministrative, come quelle meritoriamente messe in opera nel secolo scorso. Non solo, perciò, servizio sanitario universale (che Dio ce lo conservi): anche, appunto, servizio civile universale, meglio in grado di intercettare i bisogni dei "nuovi poveri"».

    E opportunamente, in questo contesto, Covatta pone in rilievo l'appello con cui un folto numero di personalità (fra i quali economisti come Michele Salvati, Stefano Zamagni, Luigino Bruni, e sociologi e politologi come Luca Ricolfi, Marco Santambrogio, Simona Colarizi, Grazia Francescato, Bianca Beccalli, Marisa Malagoli Togliatti, Lorenzo Strik Lievers) ha chiesto al governo di istituire finalmente quel Servizio civile universale che a suo tempo avrebbe dovuto sostituire il servizio militare di leva (Cost. 52).

 

 

Poscritto - Per finanziare un Servizio Civile Universale combinato con un Reddito Universale di Cittananza consiglieremmo questi quattro strumenti: a) Un po' di lotta all'evasione fiscale, b) un po' di giusta patrimoniale al di sopra dei 200'000 euro, c) un po' di fondi MES (senza nulla togliere agli Eurobond), e anche d) un po' meno armi e un po' più granai.


domenica 5 aprile 2020

THE TEMPEST


THE TEMPEST
 
La tempesta passerà, ma abiteremo in un mondo diverso…
 
di Andrea Ermano
 
Qualcuno mi presta Adulti nella stanza? È un film di Costa-Gavras di cui riesco a vedere in rete solo poche scene (vai alla clip). Parla del trattamento riservato alla Grecia dopo l'esplosione della crisi finanziaria del decennio scorso. La storia è tratta dal libro omonimo di Yanis Varoufakis, ex ministro greco delle finanze, che ha raccolto in un libro i suoi ricordi di quei mesi drammatici. Iniziò allora una "lenta catastrofe" tuttora in corso: «Molti sostenitori del Partito laburista in Inghilterra votarono poi per l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea... La vittoria del referendum sulla Brexit (51,9%) contribuì alla vittoria di Donald Trump. Il trionfo di Donald Trump diede nuovo vigore ai movimenti nazionalisti xenofobi in Europa e nel mondo».
    Questo scriveva Varoufakis nel 2017, concludendo sarcasticamente così: «Putin si starà stropicciando gli occhi incredulo nel vedere lo straordinario successo con il quale l'Occidente si sta distruggendo».Oggi, e sarà per sottile bizzarria della storia o per grossolana ironia della sorte, stiamo approdando a una crisi economica simile a quella ellenica, ma molto più grande.
     Dalla pandemia di Covid-19 usciremo. Solo che il problema è globale e la soluzione non potrà essere locale. Lo sottolinea Yuval Harari in un saggio apparso sul Financial Times del 23 marzo scorso. Alle tesi dello storico israeliano ci dedicheremo nelle considerazioni che seguono (per il testo completo vai al Financial Times. Sintesi in italiano al sito linkiesta.it).
    «L'umanità sta affrontando una crisi globale… Probabilmente, le decisioni che le persone e i governi prenderanno nelle prossime settimane daranno forma al mondo per gli anni a venire», osserva Harari: «Dobbiamo chiederci non solo come superare la minaccia immediata, ma anche in che tipo di mondo vivremo una volta che la tempesta sarà passata. Sì, la tempesta passerà, l'umanità sopravvivrà, la maggior parte di noi sarà ancora viva, ma abiteremo in un mondo diverso».
    Come in un dramma sperimentale ad esito aperto, le maschere, una dopo l'altra, fanno il loro ingresso sulla scena. Aprono il corteo un imperatore della Cina vestito in tuta stachanoviana e un Papa che vagamente ricorda Cipputi, ma in abito talare bianco. Seguono Falstaff, Trump, Capitan Fracassa, i liberi cittadini del Far West, un diciassettenne morto in California di coronavirus perché sprovvisto di assicurazione sanitaria. I soldati guidano a Bergamo carri funebri in grigioverde. Uno "scippatore della spesa" taglia di corsa il proscenio. Poi le annunciatrici televisive, belle senza belletto, con truccatrici quietamente in sciopero, e così le parrucchiere e le manicure. E pure le pedicure. In cotanto giusto ossequio della giusta distanza sociale, s'ode a destra un colpo di scena. È l'Ungheria! La nobile Ungheria... Che succede colà, di grazia, messere? 
    Un dispaccio dell'Agenzia Telegrafica Svizzera, inviatomi alcuni giorni fa da Renzo Balmelli, riassumeva così quel che tutti i sinceri democratici hanno ormai appreso non senza costernazione: «IlParlamento ungherese ha votato i pieni poteri per il premier Viktor Orban... Orban, senza limiti di tempo, può governare con decreti, chiudere il Parlamento, cambiare o sospendere leggi esistenti e ha la facoltà di bloccare le elezioni. Spetta a lui determinare quando finirà lo stato di emergenza. Chi diramerà "false notizie" rischierà da uno a cinque anni di carcere… L'opposizione ha cercato di far inserire nel testo una limitazione temporale di 90 giorni, garantendo in cambio il suo appoggio, ma Orban ha rifiutato».
    All'epoca della crisi greca – dalla quale prese innesco tutta questa "lenta catastrofe" fino all'attuale impennata nazional-sovranista di Budapest che riscuote l'approvazione delle "nostre" destre – l'ambientalista tedesco Joschka Fischer aveva esortato la Germania e l'Europa a un comportamento meno affetto da cecità. Ricordate, invece, quel severissimo ministro della Cancelliera Merkel che ai Paesi meno solidi impartiva lezioni di draconiano rigorismo ordoliberale? Ricordate le famose Hausaufgaben, i "compiti a casa"? Be', sta arrivando un bastimento carico di "compiti a casa", stavolta per tutti. E davvero avranno bisogno di eroi quei Paesi che reputino possibile salvarsi da soli. 
    In Ungheria, fino a nuovo ordine, le persone verranno sorvegliate e punite da Orban. L'analogia più degna di nota è quella cinese: «Controllando attentamente gli smartphone delle persone, utilizzando centinaia di milioni di telecamere che riconoscono il volto e obbligando le persone a rilevare e segnalare la propria temperatura corporea…, le autorità cinesi non solo possono identificare rapidamente i sospetti portatori di coronavirus, ma anche tracciare i loro movimenti e identificare chiunque sia venuto con loro a contatto», afferma Harari. 
    Naturalmente, la sorveglianza biometrica come misura temporanea durante uno stato d'emergenza sanitaria sarebbe una cosa accettabile: finita l'emergenza, finita la sorveglianza. «Senonché le misure temporanee hanno la brutta abitudine di sopravvivere alle emergenze, soprattutto perché c'è sempre una nuova emergenza in agguato all'orizzonte», argomenta lo storico. Anche quando questo contagio sarà cessato, la bulimia di dati biometrici, ormai quasi indistinguibile dalla fame di potere tout court, potrebbe continuare a necessitare di sistemi di sorveglianza, o perché si teme un ritorno epidemico di qua, o perché un nuovo ceppo virale emerge di là, eccetera. 
    Qui in gioco c'è la nostra privacy. Intorno a essa negli ultimi anni s'è combattuta una grande battaglia, ma ora «la crisi da coronavirus potrebbe essere il punto di svolta della battaglia. Perché quando alle persone viene data una scelta tra privacy e salute, di solito esse scelgono la salute». E proprio in questa falsa antitesi si cela un grave errore. Perché proteggere la vita personale e ad un tempo contrastare l'epidemia è certamente possibile: non ci servono le dittature per fare questo! Ma occorre la fiducia delle persone nella scienza e nelle istituzioni. In effetti, il coinvolgimento trasparente dei cittadini nella formazione di un consenso informato intorno alle misure da adottarsi per contrastare il Covid-19 si è rivelato decisivo in diversi paesi come la Corea del Sud e la stessa Italia. E così dev'essere in tutte le democrazie fondate sullo stato di diritto. 
    Ma quali forme potrebbe assumere la sorveglianza nelle mani di chi detiene il potere in paesi a "democrazia illiberale"? 
    Quanto a possibilità di monitoraggio e anche di manipolazione, le tecnologie si stanno sviluppando a velocità fantascientifica. Se non stiamo attenti, ammonisce Harari, l'epidemia potrebbe portarci a fenomeni di controllo totale mai visti prima. Il KGB non poteva pedinare 240 milioni di cittadini sovietici 24 ore su 24, né poteva elaborare efficacemente l'enorme massa delle informazioni raccolte, ma oggi «per la prima volta nella storia dell'umanità, la tecnologia permette di monitorare ininterrottamente tutti», constata lo storico israeliano. 
    Ma c'è di più. Ora c'è «una drammatica transizione dalla sorveglianza "sulla pelle" alla sorveglianza "sotto la pelle". Fino ad ora, quando il tuo dito toccava lo schermo dello smartphone cliccando un link, il governo poteva voler sapere che cosa quel dito stesse cliccando esattamente. E però, con il coronavirus, il punto focale degli interessi si trasla. Ora il governo può voler conoscere la temperatura del tuo dito e la pressione sanguigna sotto la sua pelle»
    Qui Harari ci propone un esperimento mentale: «Si consideri che un certo governo richieda a ogni cittadino d'indossare un braccialetto biometrico idoneo al monitoraggio di temperatura corporea e frequenza cardiaca 24 ore su 24… A quel punto gli algoritmi sapranno che sei malato prima che tu stesso te ne accorga, e sapranno anche dove sei stato e chi hai incontrato. Così, le catene di un'infezione potrebbero essere drasticamente accorciate e tranciate… Il rovescio della medaglia è, naturalmente, che si conferirebbe legittimità a un nuovo e terrificante sistema di sorveglianza. Se sai, per esempio, che ho cliccato 
un link della Fox News piuttosto che un link della CNN, questo può insegnarti qualcosa sulle mie opinioni politiche e forse anche sulla mia personalità. Ma se riesci a monitorare ciò che accade alla mia temperatura corporea, pressione sanguigna e frequenza cardiaca mentre guardo un certo video, potrai sapere che cosa mi fa ridere, piangere o imbufalire… Se le corporations e i governi iniziano a raccogliere massicciamente i nostri dati biometrici, potranno conoscerci molto meglio di quanto noi conosciamo noi stessi, e non solo prevedere i nostri sentimenti, ma anche manipolarli per propinarci tutto quel pare a loro – da un certo prodotto a un certo leader politico... Immaginate la Corea del Nord nell'anno 2030, dove ogni cittadino sia obbligato a indossare sempre il suo bel braccialetto biometrico. Se ascolterà un discorso del Grande Capo e il braccialetto rileverà indizi di collera, quella persona avrà presto finito di vivere»
    Nessuno di noi accetterebbe uno stato d'eccezione globale oltre il tempo strettamente necessario. «Ma questi non sono tempi normali», sottolinea Harari. E ora abbiamo scelte particolarmente importanti davanti a noi: «La prima è tra sorveglianza totalitaria e "empowerment"dei cittadini». 
    Questa parola inglese (vedi empowerment su Wikipedia) significa in sostanza partecipazione attiva dei cittadini. La sola capace di accrescere la consapevolezza dei problemi e delle risorse creando le condizioni di un progresso generale. Ma è del tutto evidente che – se parliamo di questioni su larga scala – sarebbe illusorio credere che una tale partecipazione possa strutturarsi utilmente in modo solo episodico e volontaristico. 
    Per questa ragione in Italia si dovrebbe avviare una riflessione sull'art. 52 della Costituzione, per altro sospeso da una ventina d'anni. Esso parla del servizio militare, ma è evidente che la "guerra" ormai in corso contro la pandemia e parallelamente in difesa della democrazia ha bisogno non di cannoni, ma di un empowerment effettivo e costante. 
    Quel che serve è l'assorbimento dell'ondata di disoccupati che verrà dopo la "tempesta". Lo si potrebbe ottenere combinando il reddito di cittadinanza e di emergenza con un certo numero di ore lavorative settimanali nell'ambito di una grande riorganizzazione democratico-partecipativa del Servizio civile in senso universale e obbligatorio, sul piano locale, nazionale ed europeo. È ciò che qui abbiamo denominato "Esercito del Lavoro", in ossequio al grande esponente radical-socialista Ernesto Rossi (1897-1967), coautore del Manifesto di Ventotene insieme ad Altiero Spinelli e a Eugenio Colorni.
    Ma, oltre al conseguimento della piena occupazione, l'Esercito del Lavoro dovrà fornire alle persone lo "strumento degli strumenti" tramite il quale tutte/i possano articolare in forma di empowerment l'enorme lavoro necessario ad affrontare la transizione sociale, economica ed ecologica iniziata e ormai manifestamente ineludibile.



domenica 22 marzo 2020

DUE FILE UN FATTO E DIVERSE DOMANDE

di Andrea Ermano

Prima di arrivare alle "due file" del titolo ci sarebbe un importante interrogativo da affrontare: «Sono i medici che decidono quando i nostri diritti possono o devono essere sospesi?», si domandava qualche giorno fa l'ex "ideologo" del M5S, Paolo Becchi. 
    La questione di cui sopra è articolata dal professor Becchi così: «A chi spetta dire se questa "emergenza" sia tale da giustificare decisioni estreme? Ridotto all'osso: emergenza reale o costruzione di uno stato di emergenza? I morti. Li contiamo tutte le sere. Quanti siano i deceduti solo a causa del virus questo però nessuno lo dice. Che ogni anno circa 8000 persone muoiano per l'influenza stagionale anche su questo è meglio sorvolare». 
    Che cosa teme il professore genovese? Che un popolo "privo di anticorpi" possa affidarsi ciecamente al solito circolo mediatico, avallando "misure via via sempre più restrittive" e finisca così per accettare tutto: «Sono bastati 8000 contagi, e la paranoia per la propria pelle alimentata in modo ossessivo dai media, a convincere gli italiani a buttare nel cesso, in un pomeriggio, tutti i loro "diritti fondamentali"», conclude Becchi, ma forse un po' troppo facilmente. 
    Perché, è ben vero in termini generali che l'Eccezione tenda storicamente a identificarsi con la Norma. Walter Benjamin nel 1939, all'indomani del Patto Molotov-Ribbentrop, scrisse nelle Tesi sul concetto di Storia, suo testamento spirituale: «La tradizione degli oppressi c'insegna che lo "stato d'eccezione", nel quale viviamo, è la regola» (Tesi VIII). 
    Non c'è dubbio che stiano accadendo, proprio ora e proprio sotto i nostri occhi, cose assai rischiose e per la democrazia e la pace nel mondo, o quel che ne resta. E però, nella specificità del Coronavirus, non ci si può limitare a parlare di 8000 morti d'influenza né di 8000 contagi.
    Ben altra la dimensione del problema! 
    Se si calcola che «il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva» (dato CNR citato da Giorgio Agamben) – questa percentuale, per quanto apparentemente bassa, proietta sul piano mondiale 200 milioni di trattamenti intensivi. Il numero di persone in stato di criticità vitale potrebbe allora salire in Europa fino a 12 milioni e in Italia fino a 1,5 milioni. Cifre ingestibili per i nostri sistemi sanitari, indeboliti dai tagli dell'età liberista. 
    Quindi, occorre rallentare la diffusione e guadagnare tempo. Questa la strategia ufficializzata all'ONU dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). 
    Insomma, fermo restando che occorre tenere gli occhi bene aperti, sarebbe assurdo voler applicare qui e ora la categoria della congiura alle strategie di contenimento dell'OMS, accolte praticamente da tutti i leader mondiali. Ciò detto, veniamo alle "due file" del titolo. 
    1) La lunga fila di camion dell'Esercito italiano a Bergamo riassume meglio di mille parole l'essenza della situazione eccezionale. 
    I quotidiani italiani riportano che (parole loro) «la colonna militare era lì per raccogliere una sessantina di bare contenenti le salme di pazienti morti a Bergamo e da trasportare ai forni crematori delle altre regioni dove alcuni Comuni si sono resi disponibili ad accettarle». 
    Ecco, su questo il professor Becchi ha ragione da vendere. C'è come un accanimento nella psicosi mediatica: "colonne militari", "bare", "forni crematori"... Scelte lessicali ossessive, che fanno correre i brividi lungo la schiena. 
    2) A fianco di quest'immagine bergamasca viene giustapposto dai media un appello della youtuber italo-statunitense, Clio Zammatteo aliasClioMakeUp: «Sono scappata da New York, ho paura: qui fanno la fila per le armi!». 
    L'accostamento della luttuosa "fila" bergamasca alla "fila" di liberi cittadini del Far West all'entrata delle armerie d'America per accaparrarsi fucili e revolver: tutto si ricombina nelle giustapposizioni allusive dei giornali e telegiornali, nelle casualità disordinate dei blog e nel caos delle nostre teste balorde.
     Siamo entrati in una situazione sociale ed economica senza molti precedenti. Sembra il copione inedito del film Da Roosevelt a Reagan. E ritorno. Il giornalista Tamburini sul quotidiano della Confindustria Il Sole 24 ORE afferma che occorre mettere in conto un grande crollo dei consumi derivante da una serie di fattori: «il blocco del turismo, la Caporetto delle compagnie aeree, la caduta verticale delle vendite di auto e moto, lo stallo generalizzato dei settori industriali (a parte eccezioni come l'alimentare e il farmaceutico)». E lo tsunami non risparmierà le banche, le quali a loro volta non potranno concedere facilmente «crediti o capitale ad aziende che... hanno soltanto costi e non ricavi». A un certo punto «le imprese inizieranno a saltare come birilli». 
    Come può l'Italia evitare un'ecatombe imprenditoriale di massa? 
    Quel che serve, conclude il giornalista sul Sole 24 Ore, è «l'equivalente di quello che è stato nel Dopoguerra il Piano Marshall per la ricostruzione».
    Come l'industria tessile viene riconvertita alla produzione di mascherine, così il "liberismo selvaggio" di ieri si tramuta oggi in "liberismo solidale e di solidarietà liberale". 
    Ecco la nuova morale, in stile libero liberale. Ieri si privatizzavano gli utili. Oggi si socializzano le perdite. Domani si vedrà.
    Si parla sui giornali di alcune migliaia di miliardi mobilitati nelle misure di politica economica. Gli USA hanno messo sul tavolo 1000 miliardi, la BCE 1100, la Germania 550, la Spagna 200, in Italia si parla di un "effetto volano" intorno ai 350 miliardi, la Francia non potrà essere da meno, mentre si attendono notizie analoghe dal Canada, dalla Gran Bretagna e dagli altri paesi occidentali. A occhio e croce si tratta di uno stanziamento pubblico pari a ca. 3500-4000 miliardi di dollari, che serviranno in parte a salvare le banche, in parte le imprese, in parte a garantire l'integrazione dei salari. 

    A chi appartengono questi soldi? 

    Non ai "mercati", non ai "benefattori", non alle multinazionali, non alle banche. Questi soldi appartengono ai contribuenti dei singoli stati, cioè ai cittadini. 

    Ergo, i tanto vilipesi "rappresentanti politici" hanno ora in mano una immensa possibilità di dare forma a ciò che verrà. Il fatto che una possibilità così improvvisa e così massiccia ora semplicemente sussista: questo fatto – se non tutto è inganno – determinerà un profondo e vasto mutamento degli equilibri in cui abbiamo vissuto. Fin qui.