venerdì 24 settembre 2010

Chi nichilizza?

Editoriale di venerdì 10 settembre 2010
L’autore dei Fiori del male, Charles Baudelaire, l’avrebbe forse chiamato “razzo”. Per il codice penale è, invece, un “oggetto pericoloso”. Stiamo parlando del fumogeno lanciato durante la Festa Democratica di Torino addosso al segretario generale della CISL, Raffaele Bonanni, al quale l’oggetto ha incendiato il giubbotto. Le giovanotte e i giovanotti del Centro sociale Askatasuna (di cui fa parte Rubina Affronte, l’autrice ventiquattrenne del “lancio”) hanno commentato: «Di giacche Bonanni se ne può comprare altre, un fumogeno non ha mai ucciso nessuno. Non piangiamo certo per un pezzo di stoffa. Contestare qualcuno è legittimo. Se poi quel qualcuno è Bonanni è giusto persino impedirgli di parlare».

E se invece di finire sul giubbotto, il fumogeno avesse colpito il leader sindacale alla tempia? Nella seconda metà degli anni Settanta, ci furono delle giovanotte e dei giovanotti che presero a sparare per strada nelle città italiane, creando un clima di disfida terrorista tra bande armate, più o meno infiltrate, più o meno deviate. Ancora non sappiamo che cosa sia successo esattamente nel tratto di storia nazionale che separa Piazza Fontana dalla Stazione di Bologna.

Anche perciò ci preoccupa leggere che le giovanotte e i giovanotti di oggi liquidino la loro aggressione a Bonanni con tanta nonchalance: «Chi semina vento raccoglie tempesta. E a Mirafiori e all'Iveco, gli operai oggi in cuor loro ridevano».

Negli anni di piombo gli operai non giravano armati, ma spaventati; non parteciparono a quel training di violenza e di arbitrarietà. Così, oggi, dubitiamo che a Mirafiori e all’Iveco “in cuor loro” ridessero.

A proposito di cuore, il ministro Brunetta, accusando di "squadrismo" gli uomini del PD per aver consentito le aggressioni di questi giorni, ha dichiarato contestualmente si continuare a sentirsi un socialista, anzi come dice lui un “socialista del PDL”. Ora, il PDL aderisce al PPE, forza politica europea d'ispirazione democristiana e principale avversaria del Partito del Socialismo Europeo (PSE). Ne consegue che l’autodefinizione del ministro contraddice la realtà, ma Brunetta potrà ovviamente continuare a dirsi “socialista”, per il godimento suo e dei mass media italiani i quali amano scaricare sui socialisti ogni possibile bizzarria. Resta un fatto, tuttavia: non basta dirsi socialisti per esserlo. Anche in politica occorre un minimo sindacale di coerenza e di pudore, e visto che ormai solo i pochissimi sembrano ricordarlo, ci permettiamo sommessamente di sottolinearne l’esigenza – dalle colonne di questa testata, che nel socialismo italiano, europeo e internazionale conduce ininterrottamente il proprio impegno da un secolo e più.

In modo particolare, poiché il socialismo italiano (e con esso i nostri predecessori alla guida de L’Avvenire dei lavoratori) ha pagato “un alto tributo di sangue” per riportare la democrazia in Italia, noi disconosciamo apertamente ogni legittima possibilità di definirsi socialista da parte di chi, dopo aver giurato in quanto ministro fedeltà alla Costituzione, pronuncia, circa il primo articolo della medesima, queste inaccettabili parole: «Stabilire che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla».

Chi afferma questo non può credibilmente proclamarsi socialista. Dopodiché, è pur possibile che il ministro abbia ragione nel sostenere la presenza all’interno del PD di qualche elemento un po’ “squadrista”, se così vogliamo definire coloro che commettono delle violenze volte ad azzittire l’avversario. Il gruppo dirigente del PD non può non sapere che il ripetersi d’intimidazioni nei confronti degli ospiti della Festa Democratica ricade sotto la diretta responsabilità dei padroni di casa. Perché qui non si tratta più di un fatto isolato. Quando la violenza incomincia a diventare consuetudine, allora qualcosa che non funziona c’è.

E c’è, infatti, l’antico e mai sopito odio massimalista nei confronti dei riformisti. Come pure c’è, in aggiunta, un’ambigua condiscendenza nei riguardi dell’improperio antipolitico, che naviga sotto la costellazione della violenza verbale, ma che poi immancabilmente preme (quanto meno nella mente di alcuni) per approdare dalle parole ai fatti. Questa tendenza va contrastata prima che traligni.

Chiunque abbia un po’ di sale in zucca vede, però, al di là del gioco delle parti, una situazione di migliaia e migliaia di giovani, scaricati in mezzo alla giungla di un egoismo sociale estremo, fatto di precariato, disoccupazione e carnevalizzazione dell’esistenza. In questo contesto, le giovanotte e i giovanotti torinesi non hanno solo torto, nel rammentarci minacciosamente che chi semina vento raccoglie tempesta. Hanno anche un grano di ragione.

E allora, per ridurre lo spargimento di venti tempestosi e per evitare che i tempi verso i quali muoviamo imbocchino la strada sbagliata, sarebbe consigliabile pagare un costo pur di far spazio ai giovani e sollecitarli a conquistarsi il loro futuro nella società, con l’unico strumento universalmente lecito: il lavoro.

Perché questa, a ogni appuntamento della nostra storia, è la questione politica fondamentale: su quale architrave morale potrà mai strutturarsi una pacifica convivenza tra gli italiani se non sul consenso del popolo lavoratore? Chi nichilizza il lavoro, semina vento.

martedì 14 settembre 2010

Evoluzione più benigna ?

Editoriale di venerdì 3 settembre 2010

L'Italia non solo avrebbe necessità di superare il “porcellum”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese. Ecco perché.


La traiettoria assunta dal conflitto d’interessi nel corso delle note violenze mediatiche estive guidate dal presidente del Consiglio contro il presidente della Camera evoca per certi versi quella celebre Locomotiva di Guccini, “lanciata a bomba” contro la terza carica dello Stato. Con tragicomica confusione dei ruoli, però, dato che qui, nelle vesti dell’attentatore suicida, entra in scena non un macchinista proletario, ma uno zar miliardario.

A evitare la deflagrazione istituzionale finale è soccorso a mezza estate il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, garante dei residui equilibri tra poteri dello Stato. E contro di lui, in nome di una legge elettorale nota nella letteratura politologica sotto il nome di “porcellum”, il premier ha rivendicato la facoltà di porre fine alla legislatura quando il suo esecutivo finisse sfiduciato.

Ora, il “porcellum” prevede soltanto che le coalizioni candidatesi al governo del Paese depositino un programma e il nome di un leader. Nello spazio logico del Cavaliere questo significa però che, qualora egli perdesse la maggioranza in Parlamento, ciò comporterebbe il divieto alle forze politiche di formare una nuova maggioranza e, soprattutto, l’obbligo per Napolitano di chiudere la legislatura indicendo elezioni anticipate.

Che ne è del presidente della Repubblica e dei suoi poteri (tra cui quello d'indire o meno nuove elezioni)?
Nello spazio logico del Cavaliere, le prerogative del Capo dello Stato vengono liquidate alla stregua di meri “formalismi costituzionali”. Nello spazio logico del Cavaliere, il “porcellum” – che è una legge ordinaria – vale quanto e più di una riforma costituzionale poiché pretende di revocare una delle principali attribuzioni del Capo dello Stato. Eppure su questo argomento il “porcellum” stesso recita così: “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica” (Art. 3).

Tenendo fermo quest'ultimo punto, si capisce che è la coalizione vincolata al suo leader e, viceversa, il leader vincolato alla sua coalizione, ma il presidente della Repubblica resta il presidente della Repubblica.

Se, per esempio, se i finiani uscissero dalla maggioranza e mettessero in minoranza Berlusconi, la coalizione in quanto tale non esisterebbe più. E il leader, vincolato a essa, avrebbe il dovere di farsi da parte. Perché il vincolo del “porcellum” pertiene al leader e alla sua coalizione. Mentre non impegna, né può in nessun caso impegnare, il Capo dello Stato. E non impegna nemmeno le due Camere in quanto ogni parlamentare, per la Costituzione, rappresenta la nazione “senza vincolo di mandato”.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o quelle delle due Camere o dei parlamentari in esse) occorre modificare la Costituzione. Per farlo, senza dover sottoporre poi il nuovo testo a verifica referendaria, non bastano le maggioranze semplici e quindi non bastano né i numeri del centro-destra attualmente al governo né quelli del centro-destra al governo nel 2005, anno in cui fu approvato il “porcellum”. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le varie maggioranze di centro-sinistra guidate da Prodi, D’Alema, Amato e poi ancora da Prodi. E identicamente varrebbe per Bersani se fosse lui a portare il nuovo Ulivo al governo.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o delle due Camere o dei parlamentari in esse) l’Art. 138 della Legge fondamentale esige una maggioranza qualificata dei due terzi.

Il “porcellum” – ben lungi dal possedere questo grado di legittimazione – è solo una legge ordinaria, approvata da una maggioranza semplice che a sua volta è espressione di una coalizione uscita vincente dalle urne dopo avere semplicemente raccolto più voti di altre liste o coalizioni: una “maggioranza relativa”. Ma una “maggioranza relativa” che, in forza di meccanismi elettorali, sia stata trasformata in “maggioranza assoluta” nel Parlamento, resta non di meno minoranza nel Paese. Ha sì titolo per governare, ma certo non per cambiare la forma e i principi dello Stato.

Da quanto detto consegue, a fil di logica, non solo la necessità di superare il “porcellum”, che come ebbe a dire il suo stesso autore è una vera “porcata”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese capaci di suscitare il consenso dei due terzi del Parlamento intorno a una nuova legge elettorale.

È questa la strada che l’Italia imboccherà, come spera Napolitano, “verso un’evoluzione più benigna” della vicenda politica? Sembra quasi impossibile. Eppure, un governo di larghissime intese, impegnato su una legge elettorale equa e adeguatamente condivisa, rappresenterebbe un bel passo avanti nel cammino delle riforme necessarie al Paese.