mercoledì 24 marzo 2010

IL COOPERATIVO COMPIE 105 ANNI

18 MARZO 1905 - 18 MARZO 2010

Armuzzi, Biagini, Dezza, Lezzi e Malpeli lo fondarono come sede de "L'Avvenire dei lavoratori" e come luogo d'incontro tra intellettuali e immigrati impegnati nelle nascenti organizzazioni operaie. Dalla nascita del sindacato di lingua italiana all'opposizione contro la guerra, dalla lunga lotta contro il fascismo alle battaglie, che continua, contro la xenofobia -- un secolo e un lustro di storia socialista italiana della quale il leggendario centro zurighese è stato testimone: fedele a un'Idea che non muore.

Le riforme e la Riforma

Urgenti negli anni Sessanta, impellenti negli anni Ottanta, irrimandabili negli anni Zero. Come potrà, il nostro Paese, adattarsi ai mutamenti globali in corso, senza riforme?  Ma il problema delle riforme sta e cade con il problema della Riforma, quella con la “erre” maiuscola, che interpella, non solo le leggi da fare, mutare o abrogare, ma anche l'etica e il rigore di un popolo e la sua mentalità.

di Andrea Ermano

Se tutte le suore e tutti i preti d’Italia un giorno scioperassero, il Paese subirebbe un collasso. Questa considerazione, formulata da un giovane sacerdote, contiene forti dosi di realtà.

    Considerazioni analoghe si potrebbero svolgere intorno a quegli straordinari monumenti d’arte che sono gli edifici religiosi. Che cosa succederebbe se chiudessero i battenti? Il patrimonio culturale umano ne uscirebbe seriamente mutilato.

    Né possiamo dimenticare, sul piano della solidarietà sociale, le tantissime persone impegnate al servizio degli altri (familiari, vicini o estranei) e animate da convinzioni religiose vissute senza fronzoli e senza alibi, quotidianamente.

    L’Italia del cattolicesimo reale è anche questo: un paese ricco d’umanità e di bellezza. Un paese nel quale, come disse una volta Pietro Scoppola, il peso della Chiesa di Roma ha i tratti della “forza maggiore”. Ma proprio perciò nessuna mente ragionevole lo riterrebbe un paese normale. Perché, nonostante tutte le erogazioni di bontà e bellezza, le cose da noi non sembrano procedere per il verso giusto, tant'è che il card. Bagnasco, presidente della CEI, lancia l'ennesimo drammatico appello a "rinnovare la politica".

    Il nostro problema nazionale sta in un sistema di consenso paralizzato e incapace di sfociare in un qualche disegno di riforma.

    Ora, si dirà, è mezzo secolo che sentiamo parlare di riforme. Realizzare le riforme era stato il chiodo fisso del primo centro-sinistra, fin dagli anni Sessanta. Ma quelle riforme (le celebri "riforme di struttura", come le chiamavano per sottolinearne la valenza sistemica) non si fecero mai, e scattarono invece: il “rumore di sciabole”, la strategia della tensione, lo stragismo, il piduismo e infine il terrorismo.

    Si andò avanti a tirar la fune sanguinante fino agli anni Ottanta, quando Bettino Craxi tentò di giocare un’altra mano nel gran poker nazionale. Intanto, però, mutavano le coordinate internazionali su cui la Prima Repubblica si fondava, e anche Craxi finì "funzionalizzato" dal sistema, da cui fu infine travolto, pagando di più per le ragioni che non per i torti.

    Da allora la corruzione è dilagata ulteriormente, nella patria del cattolicesimo reale, e la lunga transizione iniziata con la nascita della Seconda Repubblica sta durando talmente tanto che le coordinate internazionali sono mutate un’altra volta.

    Il baricentro del mondo va ora verso la Cina e l’India dove vive d’altronde un terzo circa del genere umano. I due colossi asiatici, paesi di antichissima civiltà, stanno attivando sistemi economici giganteschi, travolgenti. Hanno indotto una traslazione di potere globale paragonabile solo a quella avvenuta dopo la “scoperta” dell’America. Ma i massicci cambiamenti inaugurati all’epoca di Cristoforo Colombo si dispiegarono in due secoli. I nostri sono accaduti in vent’anni o poco più.

    E, dunque, ancora niente riforme di struttura? Urgenti negli anni Sessanta, impellenti negli anni Ottanta, irrimandabili negli anni Zero. Come potrà, il nostro Paese, adattarsi ai mutamenti globali in corso, senza riforme?

    E allora occorre parlarsi con sincerità: il problema delle riforme politiche in Italia sta e cade con il problema della Riforma, quella con la “erre” maiuscola, che investe la Chiesa. Perché il destino politico-istituzionale del nostro Paese (cioè, a occhio e croce, le sue chances di tenuta unitaria) non è disgiungibile da un'evoluzione della forma culturale egemone, che (ci piaccia o meno) è il cattolicesimo italiano.

    La Chiesa è troppo forte per essere governata dall’Italia. Ed è però anche troppo debole per governare l’Italia. Con questa semplice e non nuova considerazione si spiega sostanzialmente lo stallo nazionale, alla base delle nostre ricorrenti crisi di sistema.

    Le due entità, la Chiesa e l'Italia, sono con-crete, cioè letteralmente "cresciute insieme", ma nel tempo sono divenute anche troppo eterogenee. Il problema della loro reciproca libertà passa dunque per il superamento di questa loro eterogeneità esorbitante. Perché non può esserci una libera Chiesa in un libero Stato, se la Chiesa non è libera in se stessa, cioè organizzata nel rispetto della libertà delle persone che la compongono e che dovrebbero ottenere in essa pari dignità.

    Quanto detto, a meno che non si pensi in senso opposto a un rovesciamento dell’ordine costituzionale liberal-democratico, comporta quel che segue: affinché lo stato di diritto possa dispiegarsi nel nostro Paese (e questa è la base di legalità costituzionale necessaria all'avvio di una normalità riformista) in Italia deve avere luogo una reale democratizzazione della vita politica, economica e culturale, anche dentro la Chiesa cattolica.

    Ergo, serve un'autoriforma del cattolicesimo reale proporzionata a quella dignità della persona umana che la Genesi enuncia per altro in forma solenne: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (1, 27).

    Il personalismo – punto d'equilibrio fondamentale tra umanesimo religioso e umanesimo filosofico – è inscritto dal 10 dicembre del 1948 nella “Dichiarazione universale dei diritti umani”, firmata a Parigi dopo gli orrori assoluti della Seconda guerra mondiale.

    Il costituzionalismo ha recepito questi valori. La nuova Italia repubblicana ha recepito questi valori. Ma che ne è di essi dentro alla Chiesa cattolica?

    Non sempre i diritti dell’uomo vengono riconosciuti dalla dottrina e praticati dalla gerarchia.
    È evidente per esempio che l’esclusione delle donne dal sacerdozio, o l’imposizione del celibato ai religiosi o anche una demarcazione sacramentale troppo “forte” tra il clero e il laicato costituiscono pratiche lesive della dignità delle persone.

    Il Concilio Vaticano II aveva imboccato la strada riformatrice. Ma il fallimento dell’autoriforma ecclesiastica si è scandito in perfetta sincronia con le sanguinose sconfitte dei riformisti nell’agone politico.

    Quindi, dobbiamo ormai cancellare le riforme dalle reali possibilità di vincita del Belpaese?  Dobbiamo rassegnarci ad assistere a un torbido spettacolo, di disagio antipolitico e di decadenza morale, foriero di crisi ancor più serie?

     Non è detto. L’Italia può forse ancora coltivare ottimismo e speranza. Perché intorno al principio della “dignità personale” sussiste un consenso sufficientemente vasto e profondo, ben distribuito tra credenti e non credenti, a destra quanto a sinistra, al Nord come al Sud.

    Ma l’ora è tarda. E perciò è necessario che adesso il popolo cattolico ponga anche in Italia, com’è già avvenuto negli altri paesi europei, la questione dell’autoriforma. Se non ora, quando?

    In caso contrario temiamo che la devozione popolare italiana sia destinata a seguire le amare sorti toccate già alla virtù civica comunista. I militanti del PCI furono capaci di testimoniare, spesso fino al sacrificio, la loro dedizione al partito come progetto di un’umanità nuova. E però il loro PCI venne, in fin dei conti, inghiottito dalla balena, tutt’intero. L’Italia apparteneva al blocco atlantico e l’allocazione egemonica dell’opposizione dentro alla primato del PCI, pur eroicamente conquistato, condusse di fatto e per lunghi decenni al blocco di ogni alternativa, e infine alla crisi della Prima Repubblica, madre di una transizione tuttora irrisolta.  

lunedì 15 marzo 2010

Il Milan battuto a Manchester

Niente di nuovo dal paese normale,questa settimana. E allora parliamo di calcio. 

di Andrea Ermano

Mio padre era un gran tifoso. Una volta andammo a vedere la Juve a Vicenza. Rincasando nottetempo una lepre, ipnotizzata dai fari della macchina, ci si piazzò lì, in mezzo alla lunga strada di campagna.

    Mio padre tentò di schivare l'animale, che però all'ultimo momento spiccò un balzo battendo violentemente contro il parafango. Simulò un'impossibile piroetta e ricadde sull'asfalto.  Ci dispiacque alquanto, ma ormai non si poteva più fare niente.

    Raccogliemmo quel corpo esanime, non sanguinava da nessuna parte, lo ricomponemmo, lo avvolgemmo nel Tuttosport e lo custodimmo nel cofano lungo tutto il tragitto di ritorno. 

    Giunti a casa, la lepre fu scuoiata e messa a marinare nell’aceto e nel vino, a tocchetti, per il salmì.
    La polenta venne preparata con la farina di granturco bianco di montagna.
    Tutto molto, molto buono. 
    Invece, il tifo, i berci bestiali e le urla belluine, che boiata pazzesca, pensavo, masticando quietamente.
    Ma qui mi sbagliavo di grosso, perché da un punto di vista culturale molte cose ed eccellenti ha donato il tifo all’Italia. Ci ha aiutati, come popolo, a canalizzare una pervicace vocazione fratricida  risalente ai tempi remoti dei figli della Lupa, Romolo e Remo.

    Quanto più bella sarebbe la nostra non breve storia patria se la si potesse riassumere in una schedina! Orazi-Curiazi tre a due, Patrizi-Plebei uno a zero, Cristiani-Pagani tre a tre, Barbari-Gentili cinque a zero, Guelfi-Ghibellini due a zero...  Streghe-Inquisitori... Ebrei-Repubblichini...

    Fine della partita, fine dell’odio. Mai più persecuzioni. Mai più leggi razziali. E via tutti a cazzeggiare ancora un po’ al bar dello sport.

    Bello sarebbe.
    Senonché i tifosi, evasi ormai dagli stadi e dai loro bar, hanno conquistato il potere, i partiti, il Parlamento e persino il Governo del Paese, che assomiglia sempre di più a una curva sud schierata con gavette e bivacchi ai piedi dell'insepugnato Quirinale.

    In realtà, sembra che l'anima della Lupa si stia riappropriando di noi.  Vibra nell'aria l’antica vocazione fratricida in libera uscita dal mondo calcistico.

    L'altrieri, per dire, si è tenuta una conferenza stampa in cui il Capo del Governo (che è anche un tycoon e un uomo di calcio) ha denunciato la squadra avversaria che in combutta con gli arbitri vorrebbe tenere chiusi negli spogliatoi i suoi giocatori.

    Al che la tifoseria ha giustamente provato un moto di sdegno profondo: Lasciateli giocare! Aprite quegli spogliatoi!

    Solo un signore, sicuramente un intruso, continuava a parlare d'altro, ripetendo delle domande, un po' astratte, sulla corruzione, le regole ecc.

    Ma che ci faceva lì, a disturbare quella conferenza stampa riservata ai giornalisti accreditati? A un certo punto il ministro della Difesa s'è proprio stufato ("prima che ministro io sono un militante"). Ha acchiappato l'intruso per la collottola, strattonandolo e intimandogli di starsene zitto.

    "Zitto tu", ha esclamato il ministro-militante.
    "Giù le mani, picchiatore fascista", gli ha risposto l'intruso, mettendo con facile ruggito in fuga il ministro-militante.  Ma anche un po' codardo, mi sembra di poter dire a ragion veduta.

    Perché poi, in serata, l'abbiamo ricevuta la notizia, a quel punto inevitabile, che il Milan era stato pesantemente sconfitto a Manchester.

    Ovvio, dico io. Se gli arbitri impediscono agli undici campioni rossoneri di uscire dagli spogliatoi...
    Insomma, che cosa intende fare il Capo del Governo, al di là delle vuote formule da conferenza stampa riservata ai giornalisti accreditati, per mettere fine a questi continui sequestri arbitrali di poveri calciatori, poveri in senso traslato? 

venerdì 5 marzo 2010

Ma sai che novità

La legalità non esiste. Ma non è facile riformare la patria della Controriforma.
di Andrea Ermano
Incredibile Italia! Il titolare del Ministero della Difesa vorrebbe scendere in piazza a menare le mani contro se stesso, o per meglio dire contro le conseguenze d’irregolarità commesse dai suoi compagni di partito e per fortuna bloccate dai Carabinieri, che dipendono per altro dal ministero medesimo.

Il Ministro dell’Economia dichiara che “quando incontri un assessore, non ti è chiaro se è un assessore o un camorrista”.

Il Senato plaude a un senatore appena dimessosi sotto l’accusa di collusione con la ‘ndrangheta.
Il presidente della Repubblica, in visita di Stato a Bruxelles, si trova costretto ad annullare il consueto ricevimento in ambasciata perché l’ambasciatore stesso pare aver favorito con intrallazzi la candidatura dell’ex senatore di cui sopra.

E, come diceva Ungaretti, potremmo continuare.
Insomma, a diciott’anni da Tangentopoli riecco la corruzione e l’illegalità in Italia. A quanto pare, il tasso di malcostume, secondo la percezione dei cittadini, sarebbe più che raddoppiato. Lo dicono recenti inchieste sociologiche e demoscopiche. E lo dicono anche le inchieste giudiziarie.

È inutile girarci intorno: la legalità da noi non esiste. E siccome Craxi è morto da dieci anni non si può più nemmeno dire che c’è un problema di “socialismo reale”. Forse, piuttosto, c’è un problema di “cattolicesimo reale”, del quale tutti gli altri problemi rappresentano solo una comparte.

Ma sai che novità.
Qualcuno, forse, ricorderà ancora dal ginnasio che il termine “Riforma” è legato a una battaglia contro le “indulgenze”, che erano delle dazioni atte a favorire i propri cari estinti. Si credeva, infatti, in un’epoca lontana, che i peccatori, dopo la morte, venissero condannati al Purgatorio per un certo periodo di tempo, e che questo tempo potesse essere accorciato grazie alle “indulgenze”. Queste “indulgenze” venivano concesse su autorizzazione del pontefice in cambio di denaro. Un giorno, un giovane teologo, un frate agostiniano, un certo Martin Lutero, si chiese la ragione di quella credenza. Non avendo trovato un solo passo del Vangelo nel quale Gesù predichi la raccolta di tangenti, iniziò a protestare il proprio dissenso.

La questione era nata nel 1514 con la nomina papale del principe Alberto di Brandeburgo a “commissario delle indulgenze”. Il principe puntava alla carica di arcivescovo. E l’ottenne nel 1516 versando diecimila ducati ottenuti da una banca privata, denaro che sarebbe stato poi ampiamente recuperato grazie ai redditi generati appunto dalla vendita delle indulgenze. È passato mezzo millennio, ma l’analogia con i percorsi di candidature, carriere e cariche politiche, di sanità pubblica, di lavori pubblici ecc. nell’Italia contemporanea appare davvero strabiliante. Se cinquecento anni fa ci fosse stato il settimanale L’espresso, avrebbe potuto titolare: “Paradiso corrotto, nazione infetta”.

Cinque secoli dopo, la successora di Lutero, la teologa evangelica Margot Kaessmann, presidente della conferenza delle chiese protestanti tedesche, che raccolgono 27 milioni di fedeli, si è dimessa per avere violato il codice della strada. Per un’infrazione automobilistica. Che lei stessa ha definito un “grave errore” perché: “Il mio ministero e la mia autorevolezza come vescova e come presidente delle Chiese evangeliche tedesche sono danneggiate. In futuro non avrei più la stessa libertà di parlare di sfide etiche e politiche come ho fatto finora”.

Al nostro Giulio Andreotti non sarebbe mai successo, lui così misurato al volante. E infatti è sempre lì, senatore a vita, con tutte le accuse cadute in prescrizione. Il grande Giulio! Grandi gli avvocati difensori. Grandi le risorse finanziarie. Ma tutto il mondo sa che questo grande esponente politico cattolico italiano fece (e fece fare) cose non buone e non belle, utilizzando la Banca Vaticana, la P2, i servizi deviati, le aderenze mafiose.

La differenza di etica pubblica tra la vescova Kaessmann e il divo Giulio salta agli occhi. Ma quando batto nome e sostantivo “vescova Kaessmann”, il programma me li sottolinea in rosso, trattasi di espressione bizzarra se non erronea (eppure nel mondo ci sono centinaia di “vescove”), mentre “divo Giulio” suona bene.

È inutile girarci intorno: i maschi sono uomini più sacri delle femmine, i sacerdoti sono per definitionem più sacri dei laici, i vescovi più dei semplici preti e i cardinali più dei vescovi. Per non parlare del Papa-Re, ultima figura di sovrano legibus solutus, totalmente al di sopra della legge. Quindi è abbastanza logico che il Vaticano osteggi la Bonino “iperabortista” (che chiede il rispetto della legalità) e sostenga invece i legiferatori ad personam, ad aziendam, ad listam e, per farla breve, ad quel-che-mi-parem.

Per strutturare un organigramma gerarchico funzionante sarà magari anche meglio, come sistema, del Partito Comunista Cinese. Ma non lo direi conforme al dettato della nostra Costituzione repubblicana fondata sull’uguaglianza dei cittadini “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (Art. 3).

Ora, se si disattende il fondamento della legge, anche la legge andrà in malora, un po’ come il treno carico di lattuga ne La valle dell’Eden di Elia Kazan.

Senza legge qualsiasi tentativo di riforma diventa impraticabile.
Di qui le crisi sussultorie di sistema, ormai al ritmo di una ogni tre o quattro lustri.
Due crisi fa, prima dell’assassinio di Aldo Moro, ricordo un tempo, il tempo della mia gioventù, in cui i commentatori politici parlavano ancora di scosse “di assestamento”. Fu Moro ad avvertire, prima di morire, che sugli ammazzamenti poco si assesta e molto si dissesta.