martedì 21 dicembre 2010

E DOPO ?

Editoriale di Andrea Ermano - sabato 18 dicembre 2010

Laddove il vascello nazionale andasse a frantumarsi tra i marosi della mondializzazione, i poteri forti perderebbero una bella cuccagna di privilegi, e giustamente si preoccupano, cercando una via d’uscita. Evitare il naufragio dell’Italia risponde d’altronde anche agli interessi prevalenti del popolo lavoratore e della comunità internazionale. Di conseguenza, è ancora dato sperare che il nostro paese riesca, con un qualche misterioso guizzo di genio, a scansare lo schianto.

“Il governo mangerà il panettone, ma non la colomba”, prevede il leghista Calderoli. “Lui” invece assicura di poter arrivare a fine legislatura. “Lui” è Silvio Berlusconi che, a margine del Consiglio europeo di Bruxelles, si è definito “l’unico boss virile”, come suona l’anagramma del suo nome. Tra Bossi e il “boss virile” si preannuncia, così, un conflitto d’interessi che prima o poi potrebbe determinare il crac dell’attuale maggioranza.

Fin dai tempi antichi si sa che ogni determinazione pone fine a qualcosa, ma dà inizio a qualcosa d’altro. E, dunque, in questi istanti finali, in questo sbrindellato minutaggio di recupero nel secondo e ultimo tempo supplementare del berlusconismo, che cosa, di grazia, sta cominciando?

Può darsi che, per conservare l’unità nel centocinquantesimo dalla nascita dello stato italiano, il nostro establishment punti allo smontaggio della Lega, sempre più simile del resto a un residuato bellico inesploso. Nel Carroccio oscuramente lo intuiscono. Infatti, non chiedono altri ministeri (come pur potrebbero), ma elezioni anticipate, onde mettere in sicurezza il capitale di consensi prima della tempesta.

Se il cedimento strutturale del governo avvenisse non subito, ma tra un paio di mesi, potrebbero mancare i margini per elezioni anticipate prima dell’autunno prossimo. Una continuazione della legislatura con altro premier favorirebbe a quel punto il parto di un governo di “responsabilità nazionale”. Parto lieto ad alcuni, ma doloroso ad altri, perché ogni nuova maggioranza – inevitabilmente imperniata sui terzopolisti di Fini, Casini e Rutelli – innescherebbe una serie di spaccature sia nel campo del PDL, sia in quello del PD, incluse le file padane e dipietriste: i moderati di ogni schieramento convergerebbero verso il centro.

Ci stiamo avvicinando al bivio. Il tentativo gattopardesco di scaricare l’intera crisi di sistema sulla politica, affinché l’assetto di potere rimanesse immutato, dovrà lasciare il posto a riforme vere. E qui sorgono le preoccupazioni più serie, perché riforme vere presupporrebbero, diciamo così, una “decrescita” dei poteri forti, una loro capacità di autoriforma, per la quale non si ravvisano moltissimi precedenti storici.

Le gerarchie vaticane preferirebbero tirare a campare, almeno per un po’, senz'ancora uscire dal berlusconismo. E dopo?

Che le necessarie riforme possano realizzarsi grazie a una nuova maggioranza di responsabilità nazionale imperniata sul neo-centrismo è ipotesi tutta da verificare. L’abitudine storica delle corporazioni di delegare ad altri ogni sforzo e rinuncia lascia temere l’insorgere di gravi tensioni sociali. Forse è proprio questo ciò che si attende da parte di lor signori per scatenare poi una reazione d’ordine. Non sarebbe la prima volta.

E a sinistra? Che si fa? Quando gli ultimi neo-centristi avranno abbandonato la sinistra al suo destino per non morire socialisti, resterebbe una possibilità: iniziare ora, adesso, subito, a lavorare per una solida alternativa politica. Occorre un'alleanza neo-frontista, sul genere di quella stipulata tra Pietro Nenni e Palmiro Togliatti. Si dirà che fu l’Errore degli Errori perché, all'inizio della guerra fredda, consegnò il popolo di sinistra a un lungo destino di opposizione. Vero, ma la guerra fredda non c’è più.

Una sinistra capace di candidarsi domani al governo del Paese, anche se ciò oggi non si annuncia come un obiettivo immediato, andrebbe a costituire una preziosissima riserva di democrazia, soprattutto quando il disegno neo-centrista, emergente dietro la fine dell’era berlusconiana, esaurisse (prevedibilmente) la propria spinta propulsiva lungo i tornanti di una turbolenza globale che, questa sì, non guarda in faccia a nessuno.

(18.12.2010)

Il problema si sposta ora a sinistra

Editoriale di Andrea Ermano - sabato 11 dicembre 2010
Un anno fa, in qualsiasi città europea, ci prendevano in giro per via del “lettone di Putin”, le escort, le minorenni ecc. Ma nei dodici mesi trascorsi l'establishment italiano ha compiuto notevoli progressi sul solco della sua perversione.

Tariffe parlamentari. E voti di fiducia.
Brindisi vaticani alla salute di Silvio il Munifico, che Iddio ce lo conservi. E miliardi di euro al clero.
Mutui. Promesse. Candidature. Sottosegretariati. E deputati migranti da gruppi di parvenu a gruppi di parvenu.
Notizie che fanno due o tre giri del mondo.
Quando la “sindrome weimariana” giunge alla fase dello scatenamento cinico, i furbi cancellano ogni tributo (ormai inutile, pensano loro) del vizio alla virtù.

Oggi, in qualsiasi città europea, appena apprendono che sei italiano, gli vedi calare una velatura sugli occhi. Hai come l’impressione che si vergognino per noi.

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Esca o meno confortata da fragili basi parlamentari, e a quale prezzo, la reputazione dell’attuale premier è pari solo alla coesione del centro-destra. Un’anatra zoppa.

Il problema si sposta, ora, nel campo della sinistra, la cui strategia non può che consistere nel perseguimento di una sua minima unità, sia pure nell’orizzonte plurale dei soggetti socialisti, ecologisti e liberaldemocratici che vogliono concorrere al governo del Paese.

Per fare questo, occorre imprimere una decisa spinta neo-frontista alle dinamiche politiche della sinistra italiana.
Le grandi mobilitazioni popolari che continuamente si sono succedute in questo lungo autunno (e che fortunatamente si susseguono mentre scriviamo: oggi è il giorno di Bersani) costituiscono il bandolo dell'intricata matassa.

Se questo ciclo di mobilitazioni continuerà e se saprà rimanere dentro la logica pacifica che finora è sostanzialmente prevalsa – e a tal fine bisogna guardarsi da ogni violenza, foss’anche soltanto verbale – allora in Italia matureranno le condizioni per quell’alternativa di sinistra che attendiamo da una vita e che è assolutamente necessaria alla salute della nostra democrazia. (11.12.2010)

Ad agio

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 dicembre 2010

Motus in fine velocior. Non lo dico io. Lo dice l’adagio. E c’è del vero. Ricordate quell’esilarante ricostruzione che un sommo scienziato (Gerd Binnig?) fornì una volta a Scientific American circa l’accelerazione gravitazionale? La caduta di un “grave” veniva descritta in chiave parodistica come una tresca di animali selvatici in fregola nella stagione degli accoppiamenti. A conclusione della tresca, invece di accoppiarsi, il proietto, soggetto a forza di gravità, si spiaccicava per terra.

Nelle storie di catastrofi politiche, quando la memoria retrocedente s’applica a ricomporre ciò che fu, o non fu, sempre finisce per focalizzarsi un fenomeno accelerativo: “Credemmo di avere più tempo a disposizione”, dicono i reduci per descrivere la dinamica di un appuntamento, mancato, con la storia.

Per esempio? Pensate alla caduta del Muro di Berlino. Che colse quelli della mia generazione tutti impreparati. Pensammo che Gorbaciov e l’impero sovietico non potevano liquefarsi in quattro e quattr’otto.

Come invece fu.
Nacque allora la Seconda Repubblica.
Ma nacque davvero? Massimo Cacciari ci propone di espungere dal lessico quest’infausta espressione dal sapore di porcata.

L’ordinalità di una repubblica (prima, o seconda, o terza che sia) presupporrebbe qualche efficacia costituente, che restò a noi preclusa per l’inanità di un’intera classe dirigente (cioè di noi stessi).

Noi disfacemmo un sistema politico per farne un altro, e migliore. A parole. Ma poi, in realtà? Dov’è la Seconda Repubblica?

Il nostro naufragio somiglia a quella commedia musicale di Daniel Rohr, ispirata ai Pink Floyd, con quattro astronauti dispersi nello spazio.

Molto indignati.
Uno di loro, a un certo punto, mentre schizza via con una velocità di ventimila chilometri al secondo, declama con voce stentorea: “Ma devono venire a prenderci! Non possono mica lasciarci qui!”

Come no.
Qui dove?
Ammesso e non concesso che uno volesse fare la propria parte per salvare la patria nei centocinquant’anni della sua esistenza – esistenza un po’ garibaldina, un po’ brigantesca, un po’ pilatesca, ma anche un bel po’ pretesca e alquanto cannibalesca – ammesso e non concesso: fatto sta che la navicella della res publica è stata frantumata da un piccolo meteorite staccatosi dalla Costellazione del Muro nel novembre dell'Ottantanove.

Noi – vivi grazie alle nostre tute pressurizzate di fabbricazione cino-americana – stiamo sfrecciando, senza scopo né costrutto, verso l'infinito.

Ma, ecco di laggiù, nel nulla interstellare, ecco che inizia a brillare una lucina. Durante il corso della narrazione apprenderemo trattarsi dell’astronave CEI, comandata dal card. Ruini, abilissimo ammiraglio dello spazio, fermamente deciso a soccorrere la sua Italia, quella stessa Italia che aveva contribuito a radere al suolo.

Che farà?
Accudirà Berlusconi come una brava genitrice? O gli scatenerà addosso la lupa famelica?
Forse neppure Dio lo sa, sempre che esista e s’interessi del nostro Paese troppo lungo.
Verosimilmente, anche a questo giro di boa della storia, più di qualcuno avrà sbagliato i suoi calcoli. Tanto più che le dinamiche spesso non consentono di essere calcolate, e quelle politiche men che meno. Perciò, faccia ora ciascuno quel che deve. E succeda quel che può. (3.12.2010)

giovedì 2 dicembre 2010

Punire Welby, vivo o morto

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 26 novembre 2010
È di queste settimane la notizia secondo cui Papa Benedetto XVI ha costituito un nuovo dipartimento vaticano finalizzato alla rievangelizzazione dell’Europa. A capo c’è, fresco di nomina, monsignor Fisichella, già presidente della Pontificia Accademia della Vita.

Un primo saggio di rievangelizzazione a favore della “Vita” ci è stato fornito dal quotidiano Avvenire sul caso di Mina Welby, rea di avere ricordato suo marito, Piergiorgio, con Roberto Saviano e Fabio Fazio alla trasmissione televisiva “Vieni via con me”.

Chi era Piergiorgio Welby? Un uomo completamente paralizzato dalla distrofia muscolare progressiva, costretto a vivere con una perforazione della trachea dove gli era fatta passare l’intubazione di collegamento al respiratore automatico, giorno e notte, giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Mai e poi mai Piergiorgio aveva desiderato ritrovarsi in questo stato. E, in base alla Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario” (Art. 32), chiedeva che gli si “staccasse la spina”. Ci furono aspre polemiche, da parte delle gerarchie cattoliche: "Diabolico inganno!", tuonò il Consiglio episcopale permanente.

Il malato fece recapitare una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano e, dopo molte peripezie, il 20 dicembre del 2006, oltre nove anni di accanimento terapeutico alle spalle, prese congedo dai suoi parenti e amici. Chiese da ultimo di ascoltare una canzone di Bob Dylan. Poi fu sottoposto a narcosi, secondo la sua volontà. Il respiratore venne staccato. E Piergiorgio Welby, dopo alcuni minuti, si spense.

Non si spensero, però, le polemiche vaticane. Al punto tale che il Vicariato di Roma vietò alla famiglia le esequie in chiesa. E ora bisogna rincarare la dose, visto che Mina ha raccontato la sua storia in tv. Il giornale dei vescovi italiani chiede che, nella stessa trasmissione, sia data la parola anche alla “cultura della vita”, dopo che la si era concessa alla “cultura della morte”.

Tutti gli osservatori si stupiscono della presenza straripante della Chiesa nella tivù italiana, ma in effetti è possibile che ce ne sia ancora troppo poca, date le condizioni in cui versa il Paese non ostante cotanto magistero morale.

Evidentemente, c’è ancora chi ritiene di dover bucare l’esofago alle persone distrofiche, anche se dissenzienti, onde tenerle attaccate a dei respiratori artificiali per anni.

Domanda: E se uno dissente in nome della sua libertà personale?
Risposta: Niente funerale.
Ma, scusate, seppellire i morti non era la "settima opera di misericordia corporale"?
Certo, ma ormai questo è lo stato della nazione. Come nella famosa scena nel Dottor Stranamore di Kubrik, la scena con il saluto romano che emerge con prepotenza compulsiva dal braccio artificiale, così nel catechismo dell'Italia rievangelizzata di oggi s'è aggiunta un'ottava opera: "Punire Welby, vivo o morto".

Evoluzione più benigna ?

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 settembre 2010
L'Italia non solo avrebbe necessità di superare il “porcellum”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese. Ecco perché.

La traiettoria assunta dal conflitto d’interessi nel corso delle note violenze mediatiche estive guidate dal presidente del Consiglio contro il presidente della Camera evoca per certi versi quella celebre Locomotiva di Guccini, “lanciata a bomba” contro la terza carica dello Stato. Con tragicomica confusione dei ruoli, però, dato che qui, nelle vesti dell’attentatore suicida, entra in scena non un macchinista proletario, ma uno zar miliardario.

A evitare la deflagrazione istituzionale finale è soccorso a mezza estate il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, garante dei residui equilibri tra poteri dello Stato. E contro di lui, in nome di una legge elettorale nota nella letteratura politologica sotto il nome di “porcellum”, il premier ha rivendicato la facoltà di porre fine alla legislatura quando il suo esecutivo finisse sfiduciato.

Ora, il “porcellum” prevede soltanto che le coalizioni candidatesi al governo del Paese depositino un programma e il nome di un leader. Nello spazio logico del Cavaliere questo significa però che, qualora egli perdesse la maggioranza in Parlamento, ciò comporterebbe il divieto alle forze politiche di formare una nuova maggioranza e, soprattutto, l’obbligo per Napolitano di chiudere la legislatura indicendo elezioni anticipate.

Che ne è del presidente della Repubblica e dei suoi poteri (tra cui quello d'indire o meno nuove elezioni)?
Nello spazio logico del Cavaliere, le prerogative del Capo dello Stato vengono liquidate alla stregua di meri “formalismi costituzionali”. Nello spazio logico del Cavaliere, il “porcellum” – che è una legge ordinaria – vale quanto e più di una riforma costituzionale poiché pretende di revocare una delle principali attribuzioni del Capo dello Stato. Eppure su questo argomento il “porcellum” stesso recita così: “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica” (Art. 3).

Tenendo fermo quest'ultimo punto, si capisce che è la coalizione vincolata al suo leader e, viceversa, il leader vincolato alla sua coalizione, ma il presidente della Repubblica resta il presidente della Repubblica.

Se, per esempio, i finiani uscissero dalla maggioranza e mettessero in minoranza Berlusconi, la coalizione in quanto tale non esisterebbe più. E il leader, vincolato a essa, avrebbe il dovere di farsi da parte. Perché il vincolo del “porcellum” pertiene al leader e alla sua coalizione. Mentre non impegna, né può in nessun caso impegnare, il Capo dello Stato. E non impegna nemmeno le due Camere in quanto ogni parlamentare, per la Costituzione, rappresenta la nazione “senza vincolo di mandato”.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o quelle delle due Camere o dei parlamentari in esse) occorre modificare la Costituzione. Per farlo, senza dover sottoporre poi il nuovo testo a verifica referendaria, non bastano le maggioranze semplici e quindi non bastano né i numeri del centro-destra attualmente al governo né quelli del centro-destra al governo nel 2005, anno in cui fu approvato il “porcellum”. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le varie maggioranze di centro-sinistra guidate da Prodi, D’Alema, Amato e poi ancora da Prodi. E identicamente varrebbe per Bersani se fosse lui a portare il nuovo Ulivo al governo.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o delle due Camere o dei parlamentari in esse) l’Art. 138 della Legge fondamentale esige una maggioranza qualificata dei due terzi.

Il “porcellum” – ben lungi dal possedere questo grado di legittimazione – è solo una legge ordinaria, approvata da una maggioranza semplice che a sua volta è espressione di una coalizione uscita vincente dalle urne dopo avere semplicemente raccolto più voti di altre liste o coalizioni: una “maggioranza relativa”. Ma una “maggioranza relativa” che, in forza di meccanismi elettorali, sia stata trasformata in “maggioranza assoluta” nel Parlamento, resta non di meno minoranza nel Paese. Ha sì titolo per governare, ma certo non per cambiare la forma e i principi dello Stato.

Da quanto detto consegue, a fil di logica, non solo la necessità di superare il “porcellum”, che come ebbe a dire il suo stesso autore è una vera “porcata”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese capaci di suscitare il consenso dei due terzi del Parlamento intorno a una nuova legge elettorale.

È questa la strada che l’Italia imboccherà, come spera Napolitano, “verso un’evoluzione più benigna” della vicenda politica? Sembra quasi impossibile. Eppure, un governo di larghissime intese, impegnato su una legge elettorale equa e adeguatamente condivisa, rappresenterebbe un bel passo avanti nel cammino delle riforme necessarie al Paese. (3.9.2010)

Alcuni ircocervi stanno galoppando

Editoriale di Andrea Ermano - Venerdì 9 luglio 2010
Si accumulano in Italia i segnali di una discontinuità politica lungamente preannunciata. Se essa avverrà per davvero e in che modo, se essa ci condurrà a un governo di responsabilità nazionale o a elezioni anticipate oppure a un temibile vuoto di potere, nessuno lo sa.

Tanto vale occuparsi allora di questioni fondamentali. Perciò questa settimana tratteremo di verità: serenamente, pacatamente.

A modesto parere di chi scrive la nozione di verità si suddivide in quattro concetti. Eccoli.
Se, in primo luogo, affermiamo per esempio: "alcuni capricervi stanno galoppando", questo è vero a due condizioni: che ci siano effettivamente degli animali chiamati "capricervi" e che, laddove esistano, ce ne siano alcuni effettivamente al galoppo.

Invece, dire "due capricervi al galoppo più due capricervi al galoppo fanno in tutto quattro capricervi al galoppo", è vero a prescindere dal fatto che esistano i capricervi. E francamente non interessa nemmeno se i quattro animali, reali o immaginari che siano, stiano effettivamente galoppando. Basta che siano quattro. In questo caso facciamo dipendere la verità da certe regole matematiche.

"È impossibile che in questo preciso istante il mio capricervo stia galoppando e contemporaneamente non stia galoppando". Questo è vero di per sé, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, purché le parole usate abbiano ciascuna un significato definito e univoco.

I tre concetti di verità fin qui esemplificati sono noti anche sotto il nome di: 1) "corrispondenza", 2) "coerenza" e 3) "evidenza". Ne manca uno.

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Ai tre concetti di verità cui abbiamo accennato se ne aggiunge un quarto, che possiamo chiamare "consenso" e che svolge un ruolo molto importante nelle vicende umane, perché il consenso è fondamentale quando ad esempio si attribuisce un nome alle cose e un significato alle parole.

Per esempio, il binomio ideale "Giustizia e Libertà" è stato definito da Benedetto Croce un "capricervo". Il filosofo, che era un dotto professore liberale, potrebbe avere utilizzato con i suoi assistenti anche l'espressione latina "hircocervus", che a sua volta proviene dal greco "tragelaphos", termine coniato da Aristotele all'inizio del suo scritto sull'arte della traduzione.

Italiano, greco o latino che sia, il senso di queste espressioni (affini in tutte le lingue in cui è stato tradotto lo scritto aristotelico cui accennavamo) implica sempre lo stesso concetto: una specie di animale tra il capro e il cervo.

Aristotele aveva coniato questa parola, per esemplificare un'espressione dotata di un senso trasparente: chiunque nell'Atene dell'epoca capiva che "tragelaphos" allude a una specie di animale tra il capro e il cervo. Ma nessuno sapeva dire se questa espressione indicasse un animale che esiste realmente.

Ma, insomma, il capricervo, ircocervo o tragelafo che dir si voglia esiste o non esiste?
Per rispondere bene a questa importantissima domanda, bisogna aggiungere che Aristotele dubitava dell'esistenza dei tragelafi tanto quanto Benedetto Croce denegava la possibilità stessa di un socialismo democratico europeo fondato sul binomio ideale della Giustizia e della Libertà.

Per il liberale Croce non si poteva nemmeno lontanamente concepire una comparazione della Giustizia con Libertà. Eppure alcuni giovani, e non i peggiori, compararono. Eccome se compararono. Così, per l'accademico Aristotele i tragelafi esistevano solo nella fantasia africana di certi tessitori di tappeti, sempreché gli Africani tessessero.

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Oggi siamo portati a ritenere che gli Africani tessessero. E che tessessero il vero. Dato che l'Africa subsahariana pullula di diverse specie bovine simili ad antilopi, cioè capri dotati di corporatura simile a quella dei cervi. E infatti gli zoologi hanno battezzato "Tragelaphus" un sottogenere di antilopi.

Tutto questo implica due importanti conseguenze:
1) Che il tempo è galantuomo dato che alla fine si è ammessa l'esistenza dei capricervi e che di conseguenza il celeberrimo intellettuale post-crociano Massimo D'Alema è diventato il presidente della Fondazione Europea di Sudi Progressisti, primo esemplare della specie Hircocervus Democraticus Europaeus avvistato anche in Italia.

Al neo-presidente D'Alema i nostri auguri più fervidi e sinceri di buon lavoro.
2) La seconda implicazione è una cosa che dobbiamo esserci dimenticata. Ma, tant'è, il tempo causa un affievolimento della memoria. Attenua ogni ogni vulnus dell'anima: l'umiliazione degli sconfitti, l'arroganza dei vincitori, l'inespugnabilità di un enigma.

Buona estate a tutte le nostre lettrici e a tutti i nostri lettori. (9.7.2010)

martedì 5 ottobre 2010

La parola "mobilitarsi"

Editoriale di lunedì 20 settembre 2010
Il Vaticano e la Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del mondo del lavoro.

Giunti al punto in cui siamo, l’ultima cosa di cui si sentiva l’esigenza era il deflagrare delle contraddizioni interne al PD. Contraddizioni che vengono da lontano. Grosse, crasse, evidenti. Ma meglio sarebbe se non esplodessero adesso.

E invece è proprio ciò che si è temuto con la ridiscesa in campo di Veltroni. Che ora nega di avere detto al suo partito che ci vuole “un papa straniero”, con buona pace delle primarie e degli statuti secondo cui il leader è Bersani in quanto segretario nazionale emerso da un vasta consultazione.

Veltroni ha raccolto stavolta una ben scarsa degnazione. Gli hanno voltato le spalle persino la “sua” direttrice dell’Unità, Concita de Gregorio, e il vecchio mentore, Reichlin, che – “sorpreso, preoccupato, allibito” – ha stigmatizzato “la vanità e l'inconcludenza… delle polemiche che lacerano la sinistra”.

Autorevoli osservatori vedono in questa frattura un sintomo terminale della crisi che attanaglia il maggior partito d’opposizione. Ognun capisce che, se il centro-sinistra non riprendesse quota ora che l’astro di Berlusconi tramonta, il PD potrebbe sfarinarsi, completamente. La destra coglierebbe un’insperata vittoria nella prospettiva (probabile sebbene non immediata) di elezioni anticipate.

Qui si nasconde l’insidia più grande per il popolo di sinistra, popolo molto paziente, che, dopo tre lustri di sueño che avanza, rischia ora di risvegliarsi in uno scenario nel quale le destre potrebbero varcare il Rubicone della maggioranza qualificata puntando dritte sulla Costituzione della Repubblica.

L’insidia non nasce dalla possibilità (già di per sé inquietante) che alla prossima tornata elettorale Berlusconi (o chi per lui) raccolga un’altra volta consensi maggiori a quelli del PD e quindi grazie al “porcellum” si aggiudichi la dotazione del 55% dei seggi “per la governabilità”.

Non è questa l' insidia più grande. Il rischio vero è che, insieme al predetto 55% dei seggi, la destra possa disporre di uno zoccolo aggiuntivo intorno al 10%, nel torbido gioco delle parti che già vediamo delinearsi tra Lega Nord e Partito del Sud. Se la destra, nelle sue ambigue articolazioni, riuscisse ad attestarsi sulla soglia dei due terzi dei seggi parlamentari, le si spalancherebbe la possibilità di stravolgere la Costituzione.

Il gruppo dirigente del PCI-PDS-DS-PD porta su di sé gravi responsabilità per questa situazione politica incresciosa. Che cosa può fare per rimediare? Anzitutto dovrebbe abbandonare la pazza pazza idea di dare sintesi, dentro a un partito unico dell’eccezione italiana, al tradizionalismo cattolico, al mercatismo capitalista e alle aspirazioni del movimento operaio. Una sintesi di questo genere può realizzarsi in una coalizione di partiti secondo il ritmo delle stagioni politiche, degli accordi di governo, delle legislature. Ma non è mai avvenuta dentro a un unico partito, e men che meno in un partito di sinistra.

Fatta ovvia astrazione dalla questione ambientale, che è trasversale, pare che un partito di sinistra possa (e quindi debba) portare a sintesi due interessi: il laborismo sociale e la laicità dello Stato. Il luogo di questa sintesi s’identifica, storicamente, con il socialismo democratico europeo. Nulla vieta ai tradizionalisti cristiani di osteggiare una visione secolarizzata dello stato e impegnarsi solo in una qualche forma di solidarismo o di carità. Così, nessuno impedisce ai fautori della libera impresa di sostenere un sano laicismo opponendosi sull'altro versante a ogni rivendicazione sociale. Ma non è un caso se, intorno a queste costellazioni, si sono formate, nel corso del tempo, tre grandi famiglie politiche europee: la famiglia socialdemocratica, quella popolare e quella liberale.

Il PCI-PDS-DS-PD, che trae la stragrande parte dei propri consensi dal popolo di sinistra nel quale il valori laico-laboristi risultano largamente egemoni, farebbe un gran bel piacere a se stesso qualora si ponesse stabilmente sotto l’egida del socialismo democratico europeo. E bisogna dare atto qui a Bersani di avere seguito un serio percorso di ritorno alla ragione dopo l’avventura veltroniana; avventura disastrosissima quant'altre mai, essendo costata la caduta del governo Prodi, la lacerazione dell’intero tessuto del centro-sinistra italiano, la sconfitta alle elezioni politiche, il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi, le sconfitte a Roma, in Sardegna ecc., il crollo dei consensi dello stesso PD dal 33% al 23%. Bisogna dare atto a Bersani di avere iniziato a recuperare consensi e credibilità lungo una linea moderatamente socialdemocratica.

Vaticano e Confindustria non apprezzano nulla di tutto questo, ovviamente. E, quindi, si capisce che Bersani non trovi grandi sponde nel sistema dei mass media italiani, che dai “poteri forti” dipendono.

Vaticano e Confindustria pongono, e non certo da oggi, vuoi sulla laicità, vuoi sul laborismo, i loro veti incrociati, che poi non sono neanche dei veri e propri “veti”, ma solo come dire degli “sconsigli”, e però hanno lo stesso effetto di un veto, nel diffuso clima di conformismo e ipocrisia. Non per caso, dopo la scissione di Livorno e l’avvento del fascismo, l’Italia non ha più avuto una grande e solida forza riformista.

Vaticano e Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del laborismo, anche perché la famiglia socialdemocratica europea presenta caratteristiche di autonomia incompatibili con i pizzi e i pizzini del Gattopardo nazionale.

I veti incrociati di Vaticano e di Confindustria hanno una loro logica, rispondono alla gelida autoreferenzialità dei “poteri forti” italiani. Ma la gelida logica del potere comporta ormai un serio pericolo per gli equilibri democratici nel Paese.

Se la tenuta del centro-sinistra diventa l’ultima vera garanzia per la tenuta dell’assetto istituzionale nato con la Costituzione del 1947, è giunto allora il momento d’iniziare a mobilitarsi.

Con animo tranquillo, ma fermo, iniziamo a ripetere questa parola: mobilitarsi, mobilitarsi, mobilitarsi.

venerdì 24 settembre 2010

Chi nichilizza?

Editoriale di venerdì 10 settembre 2010
L’autore dei Fiori del male, Charles Baudelaire, l’avrebbe forse chiamato “razzo”. Per il codice penale è, invece, un “oggetto pericoloso”. Stiamo parlando del fumogeno lanciato durante la Festa Democratica di Torino addosso al segretario generale della CISL, Raffaele Bonanni, al quale l’oggetto ha incendiato il giubbotto. Le giovanotte e i giovanotti del Centro sociale Askatasuna (di cui fa parte Rubina Affronte, l’autrice ventiquattrenne del “lancio”) hanno commentato: «Di giacche Bonanni se ne può comprare altre, un fumogeno non ha mai ucciso nessuno. Non piangiamo certo per un pezzo di stoffa. Contestare qualcuno è legittimo. Se poi quel qualcuno è Bonanni è giusto persino impedirgli di parlare».

E se invece di finire sul giubbotto, il fumogeno avesse colpito il leader sindacale alla tempia? Nella seconda metà degli anni Settanta, ci furono delle giovanotte e dei giovanotti che presero a sparare per strada nelle città italiane, creando un clima di disfida terrorista tra bande armate, più o meno infiltrate, più o meno deviate. Ancora non sappiamo che cosa sia successo esattamente nel tratto di storia nazionale che separa Piazza Fontana dalla Stazione di Bologna.

Anche perciò ci preoccupa leggere che le giovanotte e i giovanotti di oggi liquidino la loro aggressione a Bonanni con tanta nonchalance: «Chi semina vento raccoglie tempesta. E a Mirafiori e all'Iveco, gli operai oggi in cuor loro ridevano».

Negli anni di piombo gli operai non giravano armati, ma spaventati; non parteciparono a quel training di violenza e di arbitrarietà. Così, oggi, dubitiamo che a Mirafiori e all’Iveco “in cuor loro” ridessero.

A proposito di cuore, il ministro Brunetta, accusando di "squadrismo" gli uomini del PD per aver consentito le aggressioni di questi giorni, ha dichiarato contestualmente si continuare a sentirsi un socialista, anzi come dice lui un “socialista del PDL”. Ora, il PDL aderisce al PPE, forza politica europea d'ispirazione democristiana e principale avversaria del Partito del Socialismo Europeo (PSE). Ne consegue che l’autodefinizione del ministro contraddice la realtà, ma Brunetta potrà ovviamente continuare a dirsi “socialista”, per il godimento suo e dei mass media italiani i quali amano scaricare sui socialisti ogni possibile bizzarria. Resta un fatto, tuttavia: non basta dirsi socialisti per esserlo. Anche in politica occorre un minimo sindacale di coerenza e di pudore, e visto che ormai solo i pochissimi sembrano ricordarlo, ci permettiamo sommessamente di sottolinearne l’esigenza – dalle colonne di questa testata, che nel socialismo italiano, europeo e internazionale conduce ininterrottamente il proprio impegno da un secolo e più.

In modo particolare, poiché il socialismo italiano (e con esso i nostri predecessori alla guida de L’Avvenire dei lavoratori) ha pagato “un alto tributo di sangue” per riportare la democrazia in Italia, noi disconosciamo apertamente ogni legittima possibilità di definirsi socialista da parte di chi, dopo aver giurato in quanto ministro fedeltà alla Costituzione, pronuncia, circa il primo articolo della medesima, queste inaccettabili parole: «Stabilire che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla».

Chi afferma questo non può credibilmente proclamarsi socialista. Dopodiché, è pur possibile che il ministro abbia ragione nel sostenere la presenza all’interno del PD di qualche elemento un po’ “squadrista”, se così vogliamo definire coloro che commettono delle violenze volte ad azzittire l’avversario. Il gruppo dirigente del PD non può non sapere che il ripetersi d’intimidazioni nei confronti degli ospiti della Festa Democratica ricade sotto la diretta responsabilità dei padroni di casa. Perché qui non si tratta più di un fatto isolato. Quando la violenza incomincia a diventare consuetudine, allora qualcosa che non funziona c’è.

E c’è, infatti, l’antico e mai sopito odio massimalista nei confronti dei riformisti. Come pure c’è, in aggiunta, un’ambigua condiscendenza nei riguardi dell’improperio antipolitico, che naviga sotto la costellazione della violenza verbale, ma che poi immancabilmente preme (quanto meno nella mente di alcuni) per approdare dalle parole ai fatti. Questa tendenza va contrastata prima che traligni.

Chiunque abbia un po’ di sale in zucca vede, però, al di là del gioco delle parti, una situazione di migliaia e migliaia di giovani, scaricati in mezzo alla giungla di un egoismo sociale estremo, fatto di precariato, disoccupazione e carnevalizzazione dell’esistenza. In questo contesto, le giovanotte e i giovanotti torinesi non hanno solo torto, nel rammentarci minacciosamente che chi semina vento raccoglie tempesta. Hanno anche un grano di ragione.

E allora, per ridurre lo spargimento di venti tempestosi e per evitare che i tempi verso i quali muoviamo imbocchino la strada sbagliata, sarebbe consigliabile pagare un costo pur di far spazio ai giovani e sollecitarli a conquistarsi il loro futuro nella società, con l’unico strumento universalmente lecito: il lavoro.

Perché questa, a ogni appuntamento della nostra storia, è la questione politica fondamentale: su quale architrave morale potrà mai strutturarsi una pacifica convivenza tra gli italiani se non sul consenso del popolo lavoratore? Chi nichilizza il lavoro, semina vento.

martedì 14 settembre 2010

Evoluzione più benigna ?

Editoriale di venerdì 3 settembre 2010

L'Italia non solo avrebbe necessità di superare il “porcellum”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese. Ecco perché.


La traiettoria assunta dal conflitto d’interessi nel corso delle note violenze mediatiche estive guidate dal presidente del Consiglio contro il presidente della Camera evoca per certi versi quella celebre Locomotiva di Guccini, “lanciata a bomba” contro la terza carica dello Stato. Con tragicomica confusione dei ruoli, però, dato che qui, nelle vesti dell’attentatore suicida, entra in scena non un macchinista proletario, ma uno zar miliardario.

A evitare la deflagrazione istituzionale finale è soccorso a mezza estate il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, garante dei residui equilibri tra poteri dello Stato. E contro di lui, in nome di una legge elettorale nota nella letteratura politologica sotto il nome di “porcellum”, il premier ha rivendicato la facoltà di porre fine alla legislatura quando il suo esecutivo finisse sfiduciato.

Ora, il “porcellum” prevede soltanto che le coalizioni candidatesi al governo del Paese depositino un programma e il nome di un leader. Nello spazio logico del Cavaliere questo significa però che, qualora egli perdesse la maggioranza in Parlamento, ciò comporterebbe il divieto alle forze politiche di formare una nuova maggioranza e, soprattutto, l’obbligo per Napolitano di chiudere la legislatura indicendo elezioni anticipate.

Che ne è del presidente della Repubblica e dei suoi poteri (tra cui quello d'indire o meno nuove elezioni)?
Nello spazio logico del Cavaliere, le prerogative del Capo dello Stato vengono liquidate alla stregua di meri “formalismi costituzionali”. Nello spazio logico del Cavaliere, il “porcellum” – che è una legge ordinaria – vale quanto e più di una riforma costituzionale poiché pretende di revocare una delle principali attribuzioni del Capo dello Stato. Eppure su questo argomento il “porcellum” stesso recita così: “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica” (Art. 3).

Tenendo fermo quest'ultimo punto, si capisce che è la coalizione vincolata al suo leader e, viceversa, il leader vincolato alla sua coalizione, ma il presidente della Repubblica resta il presidente della Repubblica.

Se, per esempio, se i finiani uscissero dalla maggioranza e mettessero in minoranza Berlusconi, la coalizione in quanto tale non esisterebbe più. E il leader, vincolato a essa, avrebbe il dovere di farsi da parte. Perché il vincolo del “porcellum” pertiene al leader e alla sua coalizione. Mentre non impegna, né può in nessun caso impegnare, il Capo dello Stato. E non impegna nemmeno le due Camere in quanto ogni parlamentare, per la Costituzione, rappresenta la nazione “senza vincolo di mandato”.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o quelle delle due Camere o dei parlamentari in esse) occorre modificare la Costituzione. Per farlo, senza dover sottoporre poi il nuovo testo a verifica referendaria, non bastano le maggioranze semplici e quindi non bastano né i numeri del centro-destra attualmente al governo né quelli del centro-destra al governo nel 2005, anno in cui fu approvato il “porcellum”. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le varie maggioranze di centro-sinistra guidate da Prodi, D’Alema, Amato e poi ancora da Prodi. E identicamente varrebbe per Bersani se fosse lui a portare il nuovo Ulivo al governo.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o delle due Camere o dei parlamentari in esse) l’Art. 138 della Legge fondamentale esige una maggioranza qualificata dei due terzi.

Il “porcellum” – ben lungi dal possedere questo grado di legittimazione – è solo una legge ordinaria, approvata da una maggioranza semplice che a sua volta è espressione di una coalizione uscita vincente dalle urne dopo avere semplicemente raccolto più voti di altre liste o coalizioni: una “maggioranza relativa”. Ma una “maggioranza relativa” che, in forza di meccanismi elettorali, sia stata trasformata in “maggioranza assoluta” nel Parlamento, resta non di meno minoranza nel Paese. Ha sì titolo per governare, ma certo non per cambiare la forma e i principi dello Stato.

Da quanto detto consegue, a fil di logica, non solo la necessità di superare il “porcellum”, che come ebbe a dire il suo stesso autore è una vera “porcata”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese capaci di suscitare il consenso dei due terzi del Parlamento intorno a una nuova legge elettorale.

È questa la strada che l’Italia imboccherà, come spera Napolitano, “verso un’evoluzione più benigna” della vicenda politica? Sembra quasi impossibile. Eppure, un governo di larghissime intese, impegnato su una legge elettorale equa e adeguatamente condivisa, rappresenterebbe un bel passo avanti nel cammino delle riforme necessarie al Paese.

venerdì 9 luglio 2010

Alcuni ircocervi stanno galoppando 

Si accumulano in Italia i segnali di una discontinuità politica lungamente preannunciata. Se essa avverrà per davvero e in che modo, se essa ci condurrà a un governo di responsabilità nazionale o a elezioni anticipate oppure a un temibile vuoto di potere, nessuno lo sa.

    Tanto vale occuparsi allora di questioni fondamentali. Perciò questa settimana tratteremo di verità: serenamente, pacatamente.

    A modesto parere di chi scrive la nozione di verità si suddivide in quattro concetti. Eccoli.
    Se, in primo luogo, affermiamo per esempio: "alcuni capricervi stanno galoppando", questo è vero a due condizioni: che ci siano effettivamente degli animali chiamati "capricervi" e che, laddove esistano, ce ne siano alcuni effettivamente al galoppo.

    Invece, dire "due capricervi al galoppo più due capricervi al galoppo fanno in tutto quattro capricervi al galoppo", è vero a prescindere dal fatto che esistano i capricervi. E francamente non interessa nemmeno se i quattro animali, reali o immaginari che siano, stiano effettivamente galoppando. Basta che siano quattro. In questo caso facciamo dipendere la verità da certe regole matematiche.

    "È impossibile che in questo preciso istante il mio capricervo stia galoppando e contemporaneamente non stia galoppando". Questo è vero di per sé, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, purché le parole usate abbiano ciascuna un significato definito e univoco.

    I tre concetti di verità fin qui esemplificati sono noti anche sotto il nome di: 1) "corrispondenza", 2) "coerenza" e 3) "evidenza".  Ne manca uno.

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Ai tre concetti di verità cui abbiamo accennato se ne aggiunge un quarto, che possiamo chiamare "consenso" e che svolge un ruolo molto importante nelle vicende umane, perché il consenso è fondamentale quando ad esempio si attribuisce un nome alle cose e un significato alle parole.

    Per esempio, il binomio ideale "Giustizia e Libertà" è stato definito da Benedetto Croce un "capricervo". Il filosofo, che era un dotto professore liberale, potrebbe avere utilizzato con i suoi assistenti anche l'espressione latina "hircocervus", che a sua volta proviene dal greco "tragelaphos", termine coniato da Aristotele all'inizio del suo scritto sull'arte della traduzione.

    Italiano, greco o latino che sia, il senso di queste espressioni (affini in tutte le lingue in cui è stato tradotto lo scritto aristotelico cui accennavamo) implica sempre lo stesso concetto: una specie di animale tra il capro e il cervo.

     Aristotele aveva coniato questa parola, per esemplificare un'espressione dotata di un senso trasparente: chiunque nell'Atene dell'epoca capiva che "tragelaphos" allude a una specie di animale tra il capro e il cervo. Ma nessuno sapeva dire se questa espressione indicasse un animale che esiste realmente.

    Ma, insomma, il capricervo, ircocervo o tragelafo che dir si voglia esiste o non esiste?
    Per rispondere bene a questa importantissima domanda, bisogna aggiungere che Aristotele dubitava dell'esistenza dei tragelafi tanto quanto Benedetto Croce denegava la possibilità stessa di un socialismo democratico europeo fondato sul binomio ideale della Giustizia e della Libertà.

    Per il liberale Croce non si poteva nemmeno lontanamente concepire una comparazione della Giustizia con Libertà. Eppure alcuni giovani, e non i peggiori, compararono. Eccome se compararono. Così, per l'accademico Aristotele i tragelafi esistevano solo nella fantasia africana di certi tessitori di tappeti, sempreché gli Africani tessessero.

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Oggi siamo portati a ritenere che gli Africani tessessero. E che tessessero il vero. Dato che l'Africa subsahariana pullula di diverse specie bovine simili ad antilopi, cioè capri dotati di corporatura simile a quella dei cervi. E infatti gli zoologi hanno battezzato "Tragelaphus" un sottogenere di antilopi.

    Tutto questo implica due importanti conseguenze:
    1) Che il tempo è galantuomo dato che alla fine si è ammessa l'esistenza dei capricervi e che di conseguenza il celeberrimo intellettuale post-crociano Massimo D'Alema è diventato il presidente della Fondazione Europea di Sudi Progressisti, primo esemplare della specie Hircocervus Democraticus Europaeus avvistato anche in Italia. 

    Al neo-presidente D'Alema i nostri auguri più fervidi e sinceri di buon lavoro.
    2) La seconda implicazione è una cosa che dobbiamo esserci dimenticata. Ma, tant'è, il tempo causa un affievolimento della memoria. Attenua ogni ogni vulnus dell'anima: l'umiliazione degli sconfitti, l'arroganza dei vincitori, l'inespugnabilità di un enigma.

    Buona estate a tutte le nostre lettrici e a tutti i nostri lettori.
       

martedì 22 giugno 2010

Cara bambina di Pomigliano d'Arco

EDITORIALE 

di Andrea Ermano 
 
Cara bambina di Pomigliano, che mi poni le tue ingenue domande circa questa nostra Repubblica fondata sulla "Futura Panda", non è facile trovare le risposte giuste, ma, insomma, vediamo.

Anzitutto, piccola mia, devi sapere che in un mondo nel quale tutti gli indicatori hanno iniziato a oscillare paurosamente, l’establishment italiano (e non solo italiano) tenta di correre ai ripari.

    Così, la Fiat abbandona la Polonia e riapproda a Pomigliano d'Arco che aveva abbondonato molti mesi or sono. E tu chiedi perché? Già, perché la Fiat, adesso, trova utile posizionarsi nella la tua città?

    Probabilmente perché vuol muovere alla conquista di quella che si preannuncia la nuova grande area emergente nell’economia mondiale globalizzata, l’area del “Mediterraneo allargato”. Si dice che verosimilmente per questa ragione la Fiat abbia firmato l’accordo, nonostante il “no” della Fiom.

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L’area campana rappresenta il luogo più adatto a proiettarsi nella nuova sfida dell’export automobilistico. La Fiat vuole ricollocarsi nell’area campana in quanto questa riunisce almeno quattro vantaggi e non da poco: a) i salari più bassi dell’Europa occidentale, b) il know-how automobilistico italiano, c) la grande infrastruttura portuale napoletana, d) l’estrema prossimità con il “Mediterraneo allargato”.

    Parafrasando Hans Ruh, potremmo chiederci perché Berlusconi e Marchionne non propongano ai governanti maghrebini di celebrare presso i loro popoli qualche referendum tramite il quale sapere se i predetti popoli desiderino davvero andare a vivere anche loro in un futuro fatto di sviluppo fondato sulla Panda.

    Referendum inutili e paradossali, ovviamente, perché la Panda è un destino.
    Non si sfugge al destino, mia cara. Così il destino della mia generazione è stato lo smog, mentre alle generazioni più giovani si è riservata la monnezza. E chissà che cosa ti aspetta quando sarai grande tu, cara bambina di Pomigliano.

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Pomigliano val bene una messa... Una “messa in quel posto agli operai”, si sarebbe detto un tempo, ma l’espressione suonerebbe oggi troppo greve e volgare, e quindi non la si usa non più. Io ne ho fatto menzione per ragioni puramente storico-documentarie.

    In cambio della “messa” di Pomigliano, la Fiat ha chiesto un bel po’ di contropartite, sapendo perfettamente che andranno poi ricontrattate in corso d’opera. Almeno sul piano salariale. O almeno lo speriamo. Ma intanto hanno trovato le parole per confessare l'inconfessabile.

    Ma tu non stupirti, cara bambina, e impara ad accettare la realtà finché sei piccola. Era assolutamente necessario che gli imprenditori padani chiedessero, chiedessero e chiedessero.

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Questo "chiedere per non dare" era necessario affinché a voi meridionali non vengano in mente strane idee circa il vantaggio di posizione che vi attende proprio lì, dietro a questo "Tornante della Storia", come il nostro Ministro dell’Economia e della Retorica ama definire il rischio di bancarotta cui l'Occidente è esposto dopo un ventennio di liberismo selvaggio.

    La destra padana porta a casa un evidente vantaggio perché l’asse del dibattito si sposta “a destra della Costituzione”, che viene contrapposta (non senza ricatto) alle desiderio di lavoro degli operai di Pomigliano. La Cgil subisce una frattura non trascurabile.

    Un alto esponente della destra ha dichiarato che anche gli operai trarranno un grande vantaggio morale dall’accordo, datosi che ricominceranno finalmente a guadagnarsi il salario con il sudore della fronte dopo avere approfittato per anni della Cassa integrazione mentre lavoravano in nero, magari per organizzazioni camorristiche o giù di lì. Così ha parlato un alto esponente della destra.

    Ma tu non offenderti, cara bambina, e impara ad accettare il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo.

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Immagino che tu ti sia domandata, nella tua testolina, che cosa significa “Mediterraneo allargato”. No, non occorrerà allargalo per far spazio al Ponte sullo Stretto di Messina. No, non mi devi andare a pensare che il Piano Grani Eventi e Grandi Opere preveda lo spostamento a est del Bosforo o a ovest delle Colonne d’Ercole.

    Quando parlano di “Mediterraneo allargato” loro si riferiscono in sostanza all’antico territorio dell’impero romano che si estendeva per tutta l’Africa settentrionale e per il Medioriente, fino all’Iraq. È soprattutto lì che la globalizzazione produrrà, sembra, nuove efflorescenze d’urbanesimo ed è lì che le masse di inurbati avranno “bisogno”, sembra, delle nostre automobili.

    Lo so, tu che sei piccina, dirai ora che tuo nonno ha bofonchiato qualcosa sull'imperialismo straccione. Be', in fin dei conti il plot fondamentale della cultura politica italiana è quella lì. E sempre lì si torna, almeno finché il nostro Paese non rifletterà seriamente sul proprio passato.

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Nell’auto-interpretazione nazionale, come imparate a scuola, il Novecento si compone del Piave che mormorava al passaggio degli Alpini il 24 maggio. Poi è arrivato il "duce" un omone che non era poi così cattivo. Dopo un po' è arrivato Bruno Vespa e – oplà – ecco sbarcare gli Americani. All’epoca dello Sbarco loro, a forza di navigare in su e giù per l'Atlantico, sono finiti dentro al Mediterraneo, detto Mar Nostrum, e quindi inevitabilmente dalle nostre parti.

    Infine, i soldati di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalirono disordinatamente le valli che altri avevano disceso con orgogliosa sicurezza, e salendo sempre più su distribuendo stecche di sigarette, cioccolate e preservativi sono arrivati in Europa.

    È perciò che anche noi guardavamo all'Europa. Lì c'erano gli Americani. Stavano in Europa per tenere d'occhio l'Atlantico, dove avevano un Patto. Adesso invece gli Americani guardano più al Pacifico che all’Atlantico.

    E quindi anche noi guardiamo più al Mar Nostrum che all’Europa.
    Grazie al Mar Nostrum, abbiamo già risolto il problema degli sbarchi a Lampedusa.
    Migliaia di individui indesiderati in procinto di delinquere in quanto aspiranti immigrati clandestini. Pare che costoro, grazie al governo di Tripoli, vengano trattenuti in appositi campi di trattenimento, in attesa di ricevere il sacramento del battesimo cattolico dalle mani del card. Biffi e una 850 coupé da quelle del dott. Marchionne.

    Ignori i nostri programmi umanitari? Questa materia non è ancora in programma a scuola? Vedrai che la Gelmini ce la mette, magari affidandola agli insegnanti di religione.

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Vuoi sapere quel che penso io di tutto questo? Io, cara la mia bambina di Pomigliano, penso che alti guai attendano la nostra povera Italia, se ora si tuffa nel “Mediterraneo allargato”, fuori da una seria concertazione europea, in eventuale dissidio con la politica estera occidentale e magari fidando sul sostegno degli amici Putin e Gheddafi.

    Diceva una volta un vecchio: “Occorre aggrapparsi all’Europa”. Aggiungo io: in Europa occorrerebbe aggrapparsi a un serio dibattito sull’uso che i popoli potrebbero fare dell’Unione a favore di una Governance politica globale.

    Non capisci la parola “Governance”? Uhm, vediamo. “Governance” significa che ciascuno contribuisce a evitare il caos, il panico e le guerre. Come? Facendo ciascuno la propria parte per favorire un ragionevole contenimento dell’anarchia capitalistica, delle guerre di religione e dei disastri ambientali.

    Su questo “uso dell’Europa” occorrerebbe, bambina mia, sollecitare una grande discussione collettiva in ogni sezione di partito.

    Peccato che non ci siano più né le sezioni né i partiti.
    Di tutta la “vecchia politica” finita sotto i cingoli del "nuovo che avanza" una cosa hanno salvato. Una sola. Porta anch'essa un nome in odore di "coniche". Ma non erano le "sezioni".   

lunedì 7 giugno 2010

Sbatti la cornetta in prima pagina 

di Andrea Ermano 

La fuga dalla tivù non è altrettanto precipitosa quanto l’astensionismo in politica o la restrizione del credito nella finanza, ma è un fatto che non ci si appassioni più ai talk show come ai tempi del berlusconismo ascendente.

    Forse, un giorno gli storici definiranno questi nostri anni come l’epoca del berlusconismo discendente, un’epoca che potrebbe protrarsi per qualche tempo e, a occhio e croce, riservarci anche qualche brutta sorpresa. Ma non sembra più suscettibile di spettacolari vitalità.

    Dopo la rovinosa causa di divorzio accompagnata al noto “gossip delle escort” si è manifestata una tendenza allo sfilacciamento del berlusconismo politico. Di essa la frattura tra finiani e Lega rappresenta solo un riflesso.

    In questi ultimi giorni abbiamo assistito a una sequenza di accadimenti, tra i quali si segnala un episodio assai sintomatico: il caso della telefonata “di protesta” che Berlusconi ha fatto in diretta alla trasmissione “Ballarò” e che si è conclusa con la cornetta riappesa dal premier in malo modo. In altri tempi, sarebbe stato inimmaginabile che un presidente del Consiglio potesse chiamare una trasmissione e poi buttare giù il telefono di fronte a milioni di telespettatori. Ma così è la “diretta”.

    Per quanto mi concerne, non possedendo un televisore, ho letto la notizia sui giornali. E poi, siccome anche la “diretta” è entrata nell’era della sua riproducibilità tecnica, sono andato a guardarmi l’ultima puntata del programma di Giovanni Floris su internet (vai al video).

    La scortese telefonata di Silvio Berlusconi si può riassumere così: mentre in studio stanno discutendo di riforme economiche, il premier chiama e contesta sia l’attendibilità di un sondaggio secondo cui i suoi indici di gradimento sarebbero scesi, sia il benché minimo lassismo da parte sua in materia di tasse. Il vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, che aveva criticato l’etica fiscale del Cavaliere (chiamiamola così), viene accusato di "menzogna assoluta". Berlusconi si autoproclama il primo contribuente d’Italia, giura di non avere mai in alcun modo legittimato l’evasione fiscale e, con voce udibilmente indignata, stigmatizza la “televisione di Stato, pagata con i nostri soldi” al servizio della menzogna. Dopodiché buonanotte. Il telefono viene riagganciato (vai al video della telefonata).

    Il conduttore replica che in una televisione di Stato si dovrebbe dialogare, cioè accettare una replica, e non buttare giù il telefono. Il sondaggista Pagnoncelli si lamenta della "accusa molto grave" e fa presente che, nei sondaggi, quote di consenso troppo elevate mal si accorderebbero con gli alti tassi di astensionismo che regolarmente registriamo all'uscita dalle urne. Giannini esorta il leader del “partito dell'amore” (in absentia) ad ascoltare democraticamente le altrui critiche, e richiama varie dichiarazioni anti-tasse pronunciate dal premier nel corso del tempo. A fine trasmissione Floris legge anche un dispaccio d’agenzia di qualche anno fa dal quale si desume che, secondo il presidente del Consiglio, ogni cittadino può sentirsi “moralmente autorizzato a evadere” se la pressione fiscale supera un certo livello.

    Queste parole erano state pronunciate da Berlusconi ad esempio il 17 febbraio 2004 durante una conferenza stampa tenutasi a Palazzo Chigi: il video è disponibile su internet (vai al video). Per il nostro attuale premier le tasse, si sa, sono una specie di ladrocinio di Stato: “Noi non vogliamo mettere le mani nelle tasche degli italiani”, ha ripetuto anche in questi giorni (e da quali tasche dovrebbero provenire, allora, i danari necessari a risanare la nostra finanza pubblica? Da quelle dei guatemaltechi? Dei papuani?).

    In trasmissione, il ministro Tremonti ha difeso il presidente del Consiglio dipingendolo come il propugnatore di posizioni classicamente liberali. Insomma è il popolo italiano, evidentemente, che a causa della propria incultura ha frainteso le parole del primo ministro prendendo per rozzo lassismo fiscale un discorso su secoli e secoli di pensiero economico europeo.

    Ciò premesso, è tuttavia evidente che non è stato Berlusconi a inventare la frode fiscale, né è stato lui quello che (diciamo anche questa, visto che ci siamo) può aver commissionato le cosiddette “stragi di mafia”. Nel conflitto tra evasori e fisco, come in quello tra la mafia e stato, o tra pezzi di “ancien regime” e la gioiosa macchina della transizione, il Cavaliere ha voluto sempre cercare di rappresentare, almeno in cuor suo, un punto di equilibrio e d’intersezione. Con i Cavalieri della Gran Croce ma anche con la Loggia P2, insieme a Craxi ma anche ad Andreotti, con i giustizialisti ma anche con i garantisti, sostenitore di Pannella ma anche di Di Pietro (che avrebbe voluto ministro), schierato dalla parte del clericalismo cattolico ma anche della secolarizzazione più selvaggia, alleato della Lega ma anche fautore dell’unità nazionale, sinceramente preoccupato per i terremotati aquilani ma anche, non meno sinceramente, del cinico show-biz che intorno al sisma abruzzese è stato imbastito, senza contare quei gentiluomini di Palazzo che alla notizia del terremoto “ridevano” (ridevano!) pregustando grandi affari, grandi eventi ecc. ecc.

    L'elencazione potrebbe continuare, ma c’è un sipario lassù che ci attende, che incombe e che va a calare, imperturbabile. Sui giusti e sugli iniqui. Perché un’altra fase della storia repubblicana è giunta a un punto d’instabilità, e questo processo ciclico si addiziona a un sistema dinamico globale il cui equilibrio è costantemente esposto al battito d'ali di una farfalla.    

giovedì 27 maggio 2010

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mercoledì 26 maggio 2010

Dirigente sempre, comunista mai ?

Considerate i celebri versi iniziali dell’Inferno dantesco: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”. Confrontateli con l’apertura del Purgatorio: “Per correr migliori acque alza le vele / ormai la navicella del mio ingegno”.

Se a degli esami (i quali, come diceva Eduardo, non finiscono mai) vi chiedessero a chi associate questa giustapposizione poetica, non escluderemmo che vi venga in mente un giornalista, scrittore e uomo politico italiano che non è mai stato comunista, noto al secolo con il nome di Walter Veltroni.

Noi qui lo chiameremo più brevemente “il Veltro”.
Or dunque, il Veltro, già dirigente della Fgci, del Pci, del Pds e dei Ds (fino alla carica di segretario nazionale), ma anche vicepremier di Prodi e sindaco di Roma dopo Rutelli, assumeva trionfalmente la segreteria nazionale del Pd nel 2007 presentandosi come candidato premier alle elezioni politiche del 2008, quando decideva di correre “da solo”, in pacata competizione con “il maggior esponente dello schieramento avverso”, che lo sconfiggeva due volte inducendolo a dimettersi da ogni responsabilità e a chiedere “scusa” ai suoi sostenitori ed elettori in una celebre conferenza stampa che si teneva il 17 febbraio di un anno fa.

È tornato alla ribalta, nell’assemblea di Area democratica tenutasi questa settimana a Cortona. E in quanto ex leader del Pci-Pds-Ds-Pd ha di fatto preannunciato la propria aspirazione a una seconda nomination come candidato premier del centro-sinistra alle prossime elezioni politiche. Queste dovrebbero tenersi fra tre anni, ma potrebbero venire anticipate nel caso in cui lo scontro Fini-Berlusconi si combinasse con il crollo del Governo, che poggia su molte faglie destinate probabilmente a lacerarsi.

Stefano Menichini, direttore del quotidiano “Europa”, che è uno dei due organi del Pd, ha osservato come il principale ostacolo per un rilancio di codesta leadership stia nella “diffidenza del suo stesso partito”, all’interno del quale pesano ancora, e non poco, le conseguenze di un tragico abbaglio, “l’errore di aver troppo legato un’avventura collettiva a una singola persona, alle sue sorti, ai suoi limiti”.

Quali limiti ha, il Veltro?
A nostro modesto parere, uno dei suoi difetti più gravi sta nel non essere mai stato comunista. Noi riteniamo il non-comunismo assai più grave del ben noto antisocialismo, che ci appare in qualche modo secondario e comunque ovvio. È ovvio, infatti, che il Veltro debba continuare a proclamare morto e ri-morto il socialismo europeo. Soltanto in tal caso il Pd potrà continuare ad apparirci indispensabile. Ed è indispensabile che il popolo di centro-sinistra pensi di avere avuto assolutamente bisogno del Pd, perché altrimenti la spallata al Governo Prodi, la sconfitta alle politiche, la perdita del Comune di Roma, della Regione Sardegna e tutto il resto apparirebbero un’assurdità totale, un prezzo pazzesco pagato per realizzare l’astrazione ideologica più dirompente e suicida che la storia della sinistra italiana ricordi dall’Aventino ai giorni nostri.

Perciò, noi capiamo il Veltro quando impiega parte importante dei suoi magistrali discorsi allo scopo di dimostrare ancora una volta per la prima volta il decesso irreversibile e definitivo di ogni socialismo europeo, decesso che stavolta deriverebbe dalla sconfitta di Gordon Brown. Certo, Brown ha lasciato Downing Street, per inciso sorridendo ai fotografi, la moglie e i bambini al fianco, tra due ali di folla, accompagnato da una solenne copertura mediatica intercontinentale. Crollo strutturale finale totale della socialdemocrazia europea? Non si direbbe. Parrebbe piuttosto la dignitosa, e ordinata, uscita di scena di un importante leader politico occidentale che seppe dire al mondo in quale maniera affrontare lo tsunami finanziario di due estati fa.

Poco ne cala qui se il Labour ha stravinto le elezioni comunali britanniche, tenutesi in parallelo alle politiche. E poco ne cala che i conservatori abbiano mietuto a Buckingham Palace la classica vittoria di Pirro. Tutti, comunque, sanno che il Labour prima o poi tornerà a governare. E così la SPD: ogni tanto viene sconfitta, ma dopo qualche anno ritorna a vincere. Lo stesso vale per il PSF, il PASOK, il PSOE, il PSP e le altre formazioni storiche del socialismo europeo, che è sopravvissuto a un secolo e mezzo di requiem praticamente quotidiani, superando le inevitabili eclissi della storia, ma dimostrando sempre di saper navigare in quelle “migliori acque” del Purgatorio da cui siamo partiti.

Tra l’Inferno e il Purgatorio Dante pone una fondamentale differenza che, notoriamente, non sta nel “dolore” (il dolore pervade entrambe le cantiche senza risparmio), ma piuttosto nella “speranza”, che illumina il Purgatorio e che invece manca totalmente nella selva oscura.

Fuor di metafora, il rischio dissoluzione politico-organizzativa non sembra incombere tanto sul socialismo europeo, quanto sul Pd italiano. Rischio esplicitamente evocato dall'ing. De Benedetti, editore di riferimento e "tessera n° 1" del partito; rischio rilanciato a Cortona dal capo della minoranza, Franceschini. Tant’è che l’ex leader del Pci-Pds-Ds-Pd, con la buona volontà a lui propria, ha dovuto respingere più volte l’ipotesi di una “scissione”. Apprezziamo l’etica della buona volontà, ma ci chiediamo se possa bastare.

Ora, a parte che per le sue competenze economiche l’attuale leader del Pd, Pierluigi Bersani, parrebbe essere miglior candidato a governare l’Italia, in contrapposizione a Tremonti, nell’eventuale crisi del berlusconismo, a parte questo, non sapremmo però davvero come definire una minaccia di scissione di fatto reinvestita nelle trattative per la leadership di una coalizione distrutta da un giornalista, scrittore e uomo politico italiano che non è mai stato comunista.

Beninteso, avrà straordinarie virtù e talenti, e sarà pure un’amabilissima persona, e magari verrà financo il giorno in cui egli libererà l’Italia dai suoi antichi mali, realizzando la profezia dantesca, ma anche sorprendendoci un po', il Veltro, “e sua nazion sarà tra feltro e feltro”.

Ma se sei la sinistra italiana, perché mai ti dovresti fidare di un leader che non è mai stato comunista?
Quasi tutti gli italiani di sinistra, nel dopoguerra, lo sono stati, almeno per un istante, almeno da ragazzi. Lui no. Non lui, che pure fu un dirigente del Pci.

Dirigente sempre, comunista mai?

lunedì 10 maggio 2010

Impossibile da smarrire

In questi mesi mi torna spesso in mente il mio vecchio amico Erdoes, che credeva a un Principio Speranza impossibile da smarrire.

di Andrea Ermano
"Non sono mai stati così scatenati", mi disse una volta il mio vecchio amico, Ernst Erdoes, ammiccando ai piani alti delle banche con un guizzo negli occhi.

Girando per Zurigo durante la pausa di mezzogiorno, eravamo finiti a Paradeplatz, la piazzetta affari della capitale economica elvetica, piazzetta lastricata, sotto il porfido, d'immani forzieri.

Sarà stato l'inizio dell'estate del 1993 e fu quello l'unico guizzo negli occhi di Ernst Erdoes che io ricordi. Del Novecento europeo aveva visto, nel bene e nel male, quel che c'era da vedere. Era cugino del grande matematico Paul Erdoes. Era discepolo del filosofo spartachista Karl Korsch. Era nato a Vienna nel 1919. Era riparato in Svizzera nel 1938 dopo l'annessione hitleriana dell'Austria. Nel 1944 la madre Olga, rimasta a Vienna, era stata deportata ad Auschwitz, e lì gassata. Lui aveva 25 anni.

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Non ricordo alcuna questione politica, storica, letteraria o scientifica di un certo rilievo, cui Ernst Erdoes non si fosse dedicato in modo men che approfondito.

Le nostre ricerche di allora vertevano spesso intorno al concetto di "schiavitù" in Aristotele. E persino in quell'ambito, di cui io mi occupavo in modo specialistico, lui dimostrava conoscenze fuori dal comune.

"Non sono mai stati così scatenati", sottolineò con forza, sempre riferendosi ai ragazzi della finanza che nel frattempo avevano iniziato ad affollare la piazzetta degli affari con le loro giacche firmate e le facce ancora "acqua e sapone", ma già un poco improsciuttite.

Alle mie rimostranze lui si oppose fermamente. E disse parole perentorie, parole che, dopo il crollo del comunismo sovietico, assumevano per me un sapore d'inattualità totale. Roba da "giovani turchi" psiuppini degli ultimi anni Quaranta, pensavo. O giù di lì.

Per trovare un acquietamento sul tema e poter riprendere il filo del nostro discorso aristotelico, tentai pazientemente di spiegargli che, dopo la caduta del Muro, un ridispiegamento della sinistra democratica europea poteva ormai avere luogo soltanto su posizioni "liberal soft" (oggi si direbbe "democratico-moderate").

No!
Fu inesorabile, inamovibile, tetragono. Mi si piazzò lì, immobile come un mulo del quarto reggimento alpini, davanti a una delle maggiori cattedrali creditizie svizzere. E con sguardo iniettato di autentica incazzatura ebraico-socialista-mitteleuropea, scandì, lento, a voce bassa, in tono definitivo: "Mi creda, non sono mai stati così scatenati".

Fissazione narcisista di un vecchio bastian contrario? O prime avvisaglie di arteriosclerosi?

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Qualche anno dopo, il 6 marzo del 1998, Ernst Erdoes si spense quasi ottuagenario, a causa di una crisi cardiaca. Se ne andò nel sonno e senza sofferenze, dissero i medici. Pochi giorni prima aveva finito di scrivere la sua dissertazione dottorale, che apparirà negli Scritti postumi ("Schriften aus dem Nachlass") raccolti e pubblicati da Leopold Kohn e Peter A. Schmid con una prefazione di Helmut Holzhey.

Il volume è uscito a Basilea nel 2004, e contiene alcuni saggi preziosi e molto intriganti (per i cultori di filosofia eccone i temi: la proprietà e il lavoro nel pensiero illuminista e in Kant, la filosofia hegeliana del diritto, la schiavitù e la democrazia in Aristotele, l'ebraismo in Spinoza, la questione del male radicale nel giudaismo e nella gnosi, la kabbalah secondo Gerschom Scholem).

Leopold Kohn, in epigrafe al suo Ernst Erdoes - un breve compendio biografico, ha avuto la bontà di citare uno spezzone di colloquio tra Ernst e me apparso da qualche parte all'epoca dei discorsi di cui dicevo sopra.

Sul Principio Speranza Erdoes aveva detto: "Il principio soggettivo della Speranza sta nella coscienza morale dell'uomo per cui la sua destinazione non è lasciarsi prendere a calci. Un principio impossibile da smarrire".

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Penso molto a Ernst Erdoes in questi mesi. C'era e c'è effettivamente molto scatenamento sotto il sole, come dimostra l'atteggiamento cinico secondo cui alcuni paesi mediterranei a rischio d'insolvenza finanziaria possono essere spinti alla bancarotta.

A questi paesi mediterranei (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) i brockers si riferiscono con l'acronimo "P.I.G.S.", che in inglese significa "porci" o "maiali". L'espressione vi sembra arrogante? Ma via. Si tratta della parola d'ordine di una operazione speculativa, ad alta energia criminale secondo alcuni, perfettamente legittima secondo altri.

Essa consisterebbe nel giocare sui mercati finanziari internazionali contro i predetti paesi. Che non stanno peggio di tanti altri, ma vengono azzannati allo scopo di indurne il crac, nell'intendimento abbastanza esplicito di provocare un "effetto domino" e quindi in ultima analisi il crollo della moneta unica. Cioè la fine dell'Eurozona. Ossia una crisi geopolitica di vastissime proporzioni.

Inutile dire che, dal caos preannunciato in seguito a tutto ciò, qualcuno si attende di lucrare enormi guadagni in termini sia di danaro sia di potere.

Sui giornali, taluni commentatori economici condannano un tanto al chilo "l'ipocrisia" di chi si lamenta del pensiero unico capitalistico o dell'arroganza di certe oligarchie finanziarie. Non sia mai detto... la colpa è sempre degli altri, e in questo caso ricade su intere popolazioni che sarebbero dedite al vizio, Pigre, Indolenti, Gaudenti, Spendaccione: P.I.G.S.

Allucinante?
Il mio vecchio amico Ernst Erdoes aveva già visto cose analoghe negli anni Trenta.
E me lo disse pure.
Mi disse che con i nostri flebili riformismi democratico-moderati non saremmo arrivati da nessuna parte. E infatti, in vent'anni di "Weimar al rallentatore", siamo approdati al nulla virgola zero.

Secondo il mio vecchio amico Ernst Erdoes ci voleva invece un riformismo rivoluzionario, ci sarebbe voluto quel socialismo che il gran padre Turati definiva "rivoluzionario perché riformista e riformista perché rivoluzionario".


lunedì 3 maggio 2010

La bolla secessionista e il vantaggio competitivo

L’unità del Paese rappresenta un dato e un valore irrinunciabili, soprattutto in un'epoca nella quale le dinamiche europee e globali ridiventano radicalmente incalcolabili.


Un convergere passeggero dei fari, o un lampeggiamento trattenuto, evidenzia in scena la presenza di una maschera della quale avevamo sentito bisbigliare fin dall’inizio della rappresentazione, in un crescendo di suspense, senz’averne tuttavia potuto scorgere i veri tratti. Adesso, invece, dopo tanto parlarne, eccola lì, la figura misteriosa, un po’ discosta dalla ribalta, ma ben visibile in platea per un lungo istante, prima che si dilegui tra i fondali.

 

Ieri sul Corriere il professor Giavazzi ha avvertito che “Atene non rimborserà i propri debiti anche se un aiuto europeo potrebbe spostare in là il default”. Gli speculatori di tutto il mondo l’avevano compresa da tempo, questa situazione, come notava il giorno prima sulla Repubblica Massimo Giannini: “Azzannano come una muta di cani gli esemplari più deboli”. Ma se e quando la muta affamata raggiungesse Roma e Madrid aggredendo cioè la terza e la quarta economia europea, allora la geo-politica del continente, l’Eurozona come lo conosciamo dal 1998, apparterrebbe al passato.

 

"Se non ci sarà un’azione estremamente forte e immediata, l’anno prossimo l’euro non esisterà più”, ha fatto presente ieri l’economista francese Jacques Attali, rientrando dagli Stati Uniti. Qualche ora dopo le agenzie battevano la notizia di un importante colloquio telefonico tra Angela Merkel e il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che pare sia riuscito a vincere le resistenze di Berlino circa il salvataggio della Grecia, se salvataggio sarà.

 

Resta l’impressione che il nord dell’Europa si senta ormai attratto da un’idea “altra” dell’Eurozona: “Non più un’Unione allargata a 16 Paesi”, chiosava Giannini, “ma un’Unione ristretta solo a quei Paesi che accettano norme comuni sul rigore contabile e il controllo dell’inflazione”. Ne conseguirebbe la divisione dell’Eurozona in due parti, l’una di serie A, l’altra di serie B: “Inutile dire”, conclude Giannini, “dove finirebbe l’Italia, a sua volta spaccata tra una ricca Padania e un depresso Mezzogiorno”.

 

Eccolo lì, dunque, tra sciabolate di luce protese a scandagliare un teatro di macerie, eccolo il rischio secessione, che come un carro armato arranca minacciosamente da dietro l’orizzonte del proscenio, verso un epilogo, ormai dato per imminente. E il deus ex machina tarda a calarsi dalla gru.

Forse però stavolta l’irruzione sulla scena della parola “secessione”, benché addobbata di una sua logica epocale, non significa veramente “secessione”, ma solo che è finita ogni scorta di soluzioni dilatorie indolori. E la secessione stessa non parrebbe prospettarsi né come una soluzione né come una cosa indolore. Ma tant’è, tramite questo dolore i secessionisti sognano di poter raddrizzare le sorti economiche padane.

 

La preoccupazione più grande degli economisti è la mancanza di crescita, “perché senza crescita è impossibile ripagare i debiti”. Lo ha scritto il professor Giavazzi, ma non è certo il solo a pensarla così, chiedendosi che cosa si debba fare per rilanciare, appunto, la crescita. “La risposta è semplice: non andare in pensione a 60 anni, non proteggere le rendite di qualche corporazione potente che opprime i cittadini, aprire i mercati alla concorrenza”, eccetera, eccetera.

Risposta semplice, a parole. Prendiamo per esempio i lavoratori dell’edilizia, che arrivano all’età pensionabile dopo le decimazioni per infortunio sui cantieri. Possono essere collocati sullo stesso piano di “qualche corporazione potente”? Prima di far questo, si dovrebbero almeno chiamare le corporazioni potenti con il loro nome e se ne dovrebbero colpire i privilegi non solo a prole. Ma nulla di tutto ciò sarebbe indolore.

 

Nessuna terapia sarà indolore. Ma la terapia più inutilmente dolorosa di tutte ci sembra proprio quella della “crescita”. In assenza di massicce fonti energetiche alternative, l’unica “crescita” alla nostra portata sarebbe quella del buon senso. E buon senso vorrebbe che l’agenda politica sia dettata dalla politica, dall’interesse generale cioè, e non da orde di giovani brokers elegantemente assatanati.

 

"Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni”, ammonì una volta il grande John Maynard Keynes, avvertendo per altro che “quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un Casinò, è probabile che le cose vadano male." Ormai, l’accumulazione di bolle immaginarie, puramente speculative, è divenuta un multiplo del prodotto globale lordo.

 

Paul McCulley, uno tra i massimi esperti mondiali di fondi d’investimento, ha descritto la “tempesta perfetta” del 2008 come l’esito esplosivo di “un gigantesco party alcolico senza regole”, un Botellón straripante di minorenni ubriachi “fatti entrare dalle agenzie di rating che all’ingresso distribuivano carte d'identità false”. Vedete voi l’autogoverno del mercato se le agenzie di rating (come ricorda oggi Massimo Gaggi sul Corriere) possono continuare a dare voti sull’affidabilità dei soggetti economici, e persino degli stati, avendo sbagliato regolarmente e continuando a sbagliare ogni valutazione, anche dopo avere portato l’intero sistema creditizio globale sull’orlo del crac. In realtà, le agenzie di rating sono delle aziende dedite come altre aziende alla massimizzazione del profitto, e proprio perciò implicate in un inestricabile conflitto d’interessi.

 

Se questo è il sistema globale, allora forse non ha tutti i torti Serge Latouche, studioso emerito di antropologia economica dell’Università di Parigi, quando ritiene che l’umanità, tutt’intera, sia affetta da una gigantesca forma di tossicodipendenza economico-energetico-finanziaria.

Quale crescita, dunque? C’è chi pensa, per esempio nel Belpaese, che si possa realizzare in tempi ragionevoli un forte incremento produttivo, e magari mietere anche un’ondata entusiastica di aumento della domanda di made in Italy? Gli anni Cinquanta sono passati da un po’, e noi viviamo in un mondo in cui occorrerebbe ridurre sensibilmente le emissioni di carbonio, con tutto quel che ne consegue in termini di decrescita.

 

Per concludere, dato che la voga secessionista è stata concomitante per un intero ventennio con la

voga neoliberista, vale la pena aggiungere che un secessionismo determinato dalla “crescita” sarebbe probabilmente tanto stupido quanto una rottura padana dell'Unità nazionale volta stare in Europa con l’Austria invece che con l’Abruzzo. E questo perché sia la crescita che l'Europa o sono grandezze solidali o non sono.

 

Un popolo maturo può ben comprendere che, giunti al punto in cui siamo, l’unità del Paese rappresenta un dato e un valore irrinunciabili, anche e soprattutto perché occorre mettere in preventivo un periodo di vacche magre nel quale le dinamiche europee e globali ridiventano radicalmente imprevedibili.

Comprenderlo sarebbe, questo sì, un bel vantaggio competitivo.

 

 

domenica 2 maggio 2010

Ma che cos’è quest’Italia ?

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di Andrea Ermano

Dopo Marx, aprile, si diceva una volta. Quest'anno il mese d’aprile sembra dominato da una ricapitolazione vertiginosa del nostro Novecento nazionale.

    Le giornate della politica italiana sono scandite dai fantasmi di Giolitti, Mussolini e Alberto Sordi. La cosiddetta seconda repubblica si configura ormai come un mix di notabili (in sostituzione di correnti e partiti), di gesti arbitrari (in sostituzione di regole e procedure) e di auto-parodie (di chiara marca sordiana, appunto).

    C’era una volta (qualche giorno fa) una Costituzione che non permetteva al premier di governare, risolvere i problemi della gente, guarire le malattie.

    E allora il premier ordinò a Calderoli (sempre qualche giorno fa) di fare le riforme, assolutamente, anche a colpi di maggioranza.

    Ma fin dalle prime interlocuzioni un gran dissidio scoppiò tra il premier stesso e il Presidente della Camera, perché a quest'ultimo non è chiaro se l'unità nazionale rientra o meno nelle aspettative di vincita del Paese mentre per il premier non è chiaro se il Paese sia compatibile con le leggi ad personam.

    Prontamente, il premier ha ripreso a minacciare e vellicare il presidente dissidente, ma avendo contemporaneamente cura di raccontare delle simpatiche barzellette al pubblico. Il senso politico è stato esplicato così: le riforme non sono poi così importanti; l’importante è lasciare che il governo governi.

    Un popolo, a questo punto, sarebbe portato a concludere che governare si può, si poteva e si sarebbe potuto.

    Stacco musicale.

    Fiumi azzurri e colline e praterie. Dove scorrono dolcissime le mie malinconie. L'universo trova spazio dentro me. Che anno è, che giorno è? 

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"Il pubblico ludibrio di un bipolarismo in fase terminale", titola un quotidiano oggi. E Massimo Cacciari avrà le sue buone ragioni giolittiane nell’augurarsi che adesso Berlusconi non precipiti troppo precipitevolmente, perché allora sì che il marasma sarebbe totale.

    Dobbiamo per questo rallegrarci del forte sostegno vaticano a Tremonti e, persino, allo spirito della Lega, nel nome del padre e del figlio? Mentre i “sacri palazzi” ospitano una vera e propria ridda di udienze e incontri, in parte segreti, in parte riservati, in parte sbandierati, sul versante legislativo il presidente della Camera, Gianfranco Fini, descrive gli effetti del debordare leghista sul centrodestra, il Governo e il Paese.

    “Si dà corso, per compiacere alla Lega, a ipotesi secondo cui il bambino che è figlio di un immigrato che perde il posto di lavoro, e che quindi diventa ‘clandestino’, è cacciato dalle scuole esattamente come se si trattasse di un bambino di serie B. Il rispetto per la dignità della persona! E non potete dire che non è vero!”, ha denunciato ieri il Presidente della Camera in un mirabile discorso politico di fronte alla direzione del suo partito: “Sento dire che bisogna che i medici facciano la spia e, se un immigrato clandestino va in un ospedale, bisogna che i medici lo denuncino!”.

   Sì, dov'è rimasta la dignità della persona se il Vaticano benedice la Lega?

    Be’ certo, come potrebbe il Santo Padre rinunziare al suo “cortile di casa”? E certo l'Italia val bene un po' di acqua santa per quell’ottusa trota che odia tutti i “centocinquantatré grossi pesci” di cui parla il Vangelo.

    Ne viene fuori una bella dose d’ironia della storia. L’ex leader del MSI è oggi il maggior campione della resistenza istituzionale alla xenofobia, mentre sul pontefice tedesco, che benedice Bossi e Berlusconi per motivi non puri e non belli, aleggia la smorfia dell’Albertone nazionale, il più sgangherato auto-sghignazzo che il genio italico sia riuscito a produrre nella seconda metà del secolo scorso.

    Ma, poi, che cos’è quest’Italia, che ai clerical-padani mai piacque, se non un’equazione geo-politica con troppe, troppe, troppe incognite, formulata per celia, in modo inestricabilmente enigmatico, da una qualche arcaico dio pitagorico, priva di soluzioni reali?

    Chissà. Ora vedremo se l’Italia è ancora un paese capace di virtù repubblicane, e se magari ci siano donne e uomini che -- attivi nel mondo delle istituzioni, del lavoro, dell'economia e delle idee -- si preoccupano dell’interesse generale, prima che sia troppo tardi, senza lasciarsi vellicare dagli allettamenti del potere, senza lasciarsi impressionare da ricatti e minacce. Questo è il nostro augurio più fervido e sincero.