martedì 7 luglio 2009

La metafora delle riforme

 

 

L'Italia somiglia, metaforicamente parlando, a un immane campo di combattimento nel quale due ali di cavalleria tentino il classico attacco a tenaglia. Un attacco teso alla distruzione dei comparti avversari. In questa operazione d'annientamento culminano quindici orribili anni di vicenda politica nazionale, caratterizzati da una reazione che ancora una volta par in procinto di sbaragliare il campo riformista, riportando indietro, e non di poco, l'orologio della storia patria.


di Andrea Ermano

 


"Riformisti" si dicono coloro che vogliano trasformare la società rinunciando però alla violenza. Le cavallerie avversarie vestiranno, perciò, i panni conservatori quando si oppongano ai contenuti della trasformazione e quelli rivoluzionari quando invece intendano porsi in antitesi al metodo non-violento. Queste le posizioni tattiche cui allude in senso traslato la morsa mortale delle due cavallerie.

   Per rimanere in metafora, diremo che i cavalieri avversari della prima posizione recano un Gattopardo sugli scudi, simbolo araldico che sta per poteri antichissimi e apparentemente inamovibili. Di essi narra Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo celeberrimo romanzo postumo. L'azione si svolge in Sicilia, ai tempi di Garibaldi. Tancredi cerca di volgere a proprio vantaggio il tumulto degli eventi, proclamandosi fautore, lui, rampollo dell'aristocrazia borbonica, dell'insurrezione antiborbonica, arruolandosi nelle file garibaldine, tentando anzi di mettersene alla testa. Il suo vero scopo, ovviamente, non è quello di sostenere i Mille: "Se vogliamo che tutto rimanga come è", dice Tancredi allo zio principe, "bisogna che tutto cambi!"

    Sul filo delle nostre ardite metafore, possiamo aggiungere ora che sugli altri scudi dei cavalieri controriformisti campeggia l'emblema di un Caimano, un piccolo drago che sta per immobilismi di altro genere: una lenta masticazione, una lagrimevole attività digestiva. Ogni cosa il Caimano assimila tramite i suoi enzimi gastrici: l'opinione pubblica e la mentalità popolare, i giudici e i tribunali, i poteri e i contropoteri, i valori e i disvalori, i vizi privati e le pubbliche virtù: ogni cosa sotto il sole d'Italia è fagocitata dall'egemonia gutturale del Grande Budello caimanico.

E se, in quest'araldica mostruoseggiante, il Gattopardo ciclicamente si ripresenta nei parventi scafati di Gran levriero, non più rivoluzionario, ma riformista, mai stato rivoluzionario, mai stato comunista; ebbene il Caimano non disdegna invece un approccio anche rudemente eversivo alla conservazione, nella misura che gli serve.

    I contorcimenti cinici del sistema ricordano la "Sindrome weimariana" di cui trattava Peter Sloterdijk nella sua ormai classica opera prima. Ed è forse proprio per la Sindrome weimariana che nel vastissimo polverone sollevato da quelli del Gattopardo e del Caimano al galoppo, molti cavalieri controriformisti agitino i vessilli di un loro vero o presunto passato riformismo. A parole. Di fatto (e certamente si tratta di un effetto involontario nei più) nel Paese pare ormai eclissarsi, obliterarsi, vietarsi, autoammazzarsi e autosotterrarsi ogni residua velleità di trasformazione.

    Il professor Franco Cavalli, ticinese, gran luminare della medicina, amico dei Clinton, già capogruppo socialista al Parlamento di Berna, intervenendo qualche anno fa a un convegno del Coopi di Zurigo per i cento anni della nostra editrice, ebbe a dire: "Vedete, vi ripetono: bisogna fare le riforme... le riforme! E non la rivoluzione! Poi però mica le fanno, le riforme".

    Be', oggi hanno smesso anche di ripeterlo. Anzi, ci sono ambienti confindustriali che ormai criticano apertamente la tendenza del PD a brandire in modo "arrischiato" il riformismo come una "clava da abbattere contro questa o quella corporazione". Povere corporazioni. E, come diceva il cantante, povero anche il cavallo. Sul Corriere s'ode l'eco di un opinionista che ci ammonisce tutti: le riforme "potrebbero destabilizzare la democrazia italiana e, persino, mettere a rischio la stessa unità del Paese".

    Insomma, l'Italia senza le riforme è un paese a rischio, ma anche con le riforme, e forse ancor di più. È il Nuovo che avanza, baby.

 

mercoledì 1 luglio 2009

Vittima di una emozione interrotta

Torna Veltroni. E lamenta un "impedimento" che avrebbe bloccato la transizione del PD verso il 40 per cento dei consensi...

di Andrea Ermano

Lui è fatto così. Se il messaggio viaggia sul filo di una bella emozione, l'autorevolezza del mezzo lo farà parere vero. O comunque non completamente falso.

    Walter Veltroni aveva piantato la segreteria quattro mesi or sono. "Per amore del PD". Adesso torna con un'intervista. Non si trovava bene dov'era? Si trovava benissimo. Ma ugualmente è tornato perché doveva farci sapere che lui è uno statista in quiescenza, "come Prodi", dice. Ma è meglio se gli gira alla larga, a Prodi.

    Veltroni è tornato per assicurarci che non è tornato e che non torna. Lui non c'entra. Non appoggia. Non partecipa. Non parla. Almeno per ora. Poi, certo, più in avanti, le sue idee, le dirà anche lui: "con assoluta nettezza".

    Ed ecco un netto assaggio di queste idee: "Il Pd doveva nascere dieci anni prima", anticipa Walter Veltroni, "ma l'hanno impedito perché era un'idea troppo americana, poco in linea con la tradizione socialista europea".

    Maledetti socialisti tradizionalisti antiamericani che impedirono l'avanzare del Nuovo che avanza.
    Avvenne oltre dieci anni fa. Correva l'epoca allora in cui l'Italia irradiava civiltà politica sull'intero pianeta. Era l'epoca dell'Ulivo Mondiale... Nel frattempo però il Partito del Congresso Indiano, il Partito del Lavoro Brasiliano e varie altre organizzazioni hanno stretto un patto associativo con l'Internazionale socialista. Lo stesso ha fatto la fondazione Bill Clinton. E per finire i democrats statunitensi hanno intrapreso una rivalutazione della socialdemocrazia continentale in seguito anche alla catastrofe del liberismo selvaggio.

    Detta così, il "Grande Impedimento" di cui si lamenta Veltroni sembrerebbe riconducibile ai Gandhi, ai Lula e agli Obama. Ma non può essere. In realtà, Veltroni (come Berlusconi) è vittima di un'emozione che tende a essere bruscamente interrotta, come i sogni ad occhi aperti.

    "Ora che il socialismo europeo è ridotto com'è ridotto", prosegue Veltroni, "gli stessi profeti di allora annunciano che bisogna buttare a mare l'idea stessa di una grande forza riformista del 33-35 per cento, che avevamo realizzato in un solo anno di lavoro, per tornare all'armata Brancaleone, ai vertici con dodici leader".

    A parte che "i dodici leader" tenevano in scacco il Cavaliere, il 33% vantato dall'ex sindaco di Roma non è stato "realizzato in un anno di lavoro", ma si potrebbe piuttosto definire un dato sociologico della sinistra italiana. Basti pensare che già nel lontanissimo 1919 troviamo il PSI al 32,3%, mentre il Fronte Popolare veleggiava nel pur disastroso 1948 intorno al 31%. E poi ancora il PCI da solo conquistò il 34.3% dei consensi nel 1976, mentre i Progressisti di Occhetto si attestarono nel 1994 al 34,34%.

    Senza contare che il Centrosinistra di Prodi vince le elezioni nel 1996 con il 45,9%, l'Ulivo di Rutelli le perde nel 2001 nonostante un non disprezzabile 43,7% e nel 2006 di nuovo le vince Prodi con il 48.96%.

    Insomma, il 33% veltroniano del 2008 non può dirsi un risultato "realizzato in un solo anno di lavoro"... A meno che per "lavoro" non s'intenda la demolizione del governo Prodi e la disarticolazione dell'intero centrosinistra italiano travolti entrambi da un'ondata di catastrofi.

    Resterebbe infine da discutere sul "voto utile" dettato anche dall'apporto di organizzazioni di base, appartenenti al movimento sindacale, cooperativistico e associativo che operano nel nostro Paese da molti decenni e che hanno sostenuto il PD di Veltroni a naso turato.

    Certo, il socialismo democratico europeo e internazionale, dopo essere stato dato per morto e ri-morto parecchie volte, non versa neanche adesso nelle migliori condizioni. Per parafrasare un famoso detto, questo socialismo democratico europeo e internazionale è la posizione politica globale peggio messa, fatta eccezione per tutte le altre.

    La sua crisi attuale è anzitutto legata alla crisi di un ciclo liberista, e quindi non difforme dalla crisi dello stesso PD italiano (che, per inciso, in un anno ha perso quattro milioni di elettori).

    Tanto per il PD italiano quanto per il socialismo europeo la crisi viene da un moderatismo di stampo blairiano che, dinanzi al disastro della globalizzazione finanziaria, cui sta facendo seguito una seria recessione dell'economia reale, appare ormai privo di strumenti, financo teorici.

    Ma il socialismo democratico europeo e internazionale non finisce con la fine del blairismo e continua invece ad avere un suo vasto seguito che si fonda su una lunga storia e, soprattutto, su un'idea che non muore.

    Il PD (25.13%) non sta meglio per esempio del PSOE (38.51%) in Spagna o del PASOK (36.65%) in Grecia, e per di più non ha ancora chiarito le sue contraddizioni interne più eclatanti: quella tra sindacalisti e confindustriali per esempio, quella tra laici e integralisti, o quella tra ex democristiani ed ex comunisti. E come diceva Emanuele Macaluso sembra che non riesca sciogliere queste sue contraddizioni senza rischiare di sciogliere se stesso.

     Nonostante ciò Veltroni rimane "dell'idea che un vero Pd può essere fra il 35 il 40% e che solo così si potrà aprire in Italia un ciclo riformista".

    Sul teleschermo della "bella politica" vanno in onda le immagini oniriche di un Pd al 33-35 per cento... Come se lui ce l'avesse...  Forse non è ancora arrivata la notizia che Veltroni non ha più il Pd né il Pd il 33 per cento.

    E se il PD ha mai avuto il 33 per cento (vedi alla voce "voto utile"), il 35 per cento comunque non esiste, non c'è mai stato, nemmeno ai tempi in cui Berta filava.

    Eppure... eppure, eppure veniamo trasportati come d'incanto verso il 40 per cento... Questo, per Veltroni, è il "vero" Partito Democratico. Che dire? Siamo alla neo-lingua... "Vero", ma anche "falso".

    Nella realtà (quella vera ma anche vera) Veltroni se n'è andato da qualche mese, si diceva. Se n'è andato dopo aver fatto saltare Prodi, perso le politiche, il Comune di Roma, la Sardegna e aver causato una mezza dozzina di altre sciagure. Se n'è andato "per amore del Pd". E se lo dice lui sarà pur "vero". Ma se n'è andato senza rispondere alle domande dei giornalisti e men che meno alle domande dei delegati congressuali del suo Pd, che lui così ama.

     Ora torna agitando lo "spirito del Lingotto" e il "nuovo che avanza". Spirito che non gl'impedì la fuga, per ben due volte, la prima delle quali, ricordiamolo, si ebbe nel 1999 quando Walter Veltroni abbandonò la segreteria dei DS per fare il sindaco dell'Urbe.

    Non se la sono data a gambe, però, le domande rimaste inevase. Quelle domande stanno lì, attendono Veltroni come tre convitati di pietra. Eccole: 1) Se l'Europa è il nostro orizzonte, in Europa con chi sta il "partito dei riformisti italiani"? 2) Quale valore vogliamo attribuire alla laicità delle istituzioni? 3) Quale rapporto si deve coltivare con il movimento operaio in generale e con la Cgil in particolare?

    Se Veltroni, o chi sta per lui, non risponde credibilmente a queste tre domande, il suo "vero PD" non sarà mai in grado di raggiungere, anche nella realtà oltre che nel sogno interrotto, quei consensi maggioritari che il popolo italiano serba forse ancora in dote, ma che ben si guarda dall'affidare a gruppi dirigenti giudicati eccessivamente furboidi.