mercoledì 28 gennaio 2009

Cosmopolis o della Speranza

di Andrea Ermano  
 
La civiltà ellenistica, fondata da Alessandro il Grande, sortì effetti d'immensa portata: la genesi dell'Impero romano, la nascita del Cristianesimo e alla fine dei conti l'emergere dell'Occidente come attore di una mondializzazione che iniziò, a ben vedere, ventitré secoli fa e che costituisce dunque un fenomeno non solo caratterizzato dalla scienza-tecnica moderna, ma anche venato profondamente d'implicazioni etico-giuridico-culturali oltre che economiche e politiche.
    Se i trionfi di Alessandro costituiscono un fatto assiale della storia umana, il fatto cosmopolitico più rilevante, da Alessandro ai giorni nostri, è dato in tutta verosimiglianza dall'elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti.
    Pronuncio questa tesi, che suona un po' folle al mio stesso orecchio, senza sottenderle alcunché di trionfale e men che meno di trionfalistico. Perché, se Alessandro simboleggiò l'impulso costituente della Cosmopolis, ossia di un lungo processo storico, per altro travagliatissimo, che però in modo abbastanza consapevole puntava fin dall'inizio all'unificazione sub lege dell'intero genere umano... E se quell'impulso resta ampiamente attuale nell'era contemporanea... Se questo fu e resta Alessandro nella sua gigantesca significanza, ebbene l'enorme rilievo cosmopolita della vittoria presidenziale di Barak Obama appare invece di tutt'altro segno: non trionfale, dicevo, e anzi altamente drammatico, perché legato a doppio filo all'interrogazione dell'umanità rispetto al proprio futuro, incertissimo.
    Il maestro del maestro d'Alessandro disse che dove c'è un sommo pericolo, là c'è anche una grande speranza. Quest'antica sapienza platonica fotografa il clima attuale: la nostra disperazione, e quindi la nostra speranza.
    Il significato cosmopolitico di Barack Obama appare drammaticamente unico perché proporzionale alla risonanza che quest'elezione statunitense ha incontrato nelle menti e nei cuori di miliardi di persone come noi: persone che intuiscono le sfide di fronte alle quali siamo tutti interpellati, e di fronte alle quali vediamo soprattutto convocate le generazioni dei nostri figli. 
    I nodi climatici, demografici, alimentari e strategici -- ben noti a qualunque persona mediamente informata -- risultano tematizzati in modo esplicito nel discorso d'investitura tenuto dal neopresidente il 20 gennaio ma sono implicitamente presenti nell'opinione pubblica mondiale che guarda a lui con trepidazione e attesa.
 
  Sappiamo e non possiamo fingere d'ignorare che il surriscaldamento climatico e l'incremento demografico possono scatenare gravissime crisi alimentari che indurrebbero moti migratori di inaudite dimensioni, i quali rischierebbero di produrre sul piano strategico una catena terribile di conflitti.
    Potrebbe profilarsi all'orizzonte uno stato d'eccezione globale, tema sul quale alcuni tra i più profondi pensatori contemporanei riflettono per altro da vario tempo (mentre tanta parte delle cosiddette classi dirigenti sembra persa in giochi di palazzo che a definirli frivoli sembrerebbe d'elogiarli).
    Tutti possiamo comprendere la necessità di affrontare queste emergenze governandole nella pace e nel consenso, ma non si conosce ancora chi abbia escogitato la ricetta per metter in piedi un governo buono e pacifico del mondo, e questo nel breve volgere di qualche lustro.
    Si parla, giustamente, delle tecnologie decisionali e dei percorsi politico-istituzionali sviluppati nell'Unione Europea durante il secondo dopoguerra: su questa falsariga i politologi immaginano in che modo dovrebbe evolversi un'ONU auspicabilmente in crescita sul piano dell'efficacia cosmopolita. Ma è chiaro che non basta, e che occorreranno progettazioni nuove, non ancora alle viste. E che, dettaglio non trascurabile, andrebbero tradotte in opere e giorni.
    Nondimeno ognuno è ben in grado d'intuire perché la salvezza dipenda da un'azione cosmopolitica di governo fondata sul consenso ampio e non sull'arbitrio liberista né sul fanatismo identitario o sull'attivismo militare.
    In questo quadro, preoccupava alquanto che il paese leader dell'Occidente dopo l'Undici settembre sembrasse come caduto in una nevrosi traumatica fatta di furore ideologico e di sonno della ragione, con un'inenarrabile seguito d'accuse alla "vecchia Europa", di assurdi vaniloqui marzialeggianti e di pretese gigantomachie puntualmente risoltesi in un marasma babilonese.
    Ma che si poteva escogitare senza (se non addirittura contro) gli Stati Uniti?
    Si sono così dissipati anni preziosi a seminar tempeste, laddove la potenza militare, la preminenza tecnologica e la prevaricazione economica non possono darci la Cosmopolis dalla quale pare dipendere il futuro umano.
    Ecco, è sullo sfondo di questo americanismo plumbeo e preoccupante, perché profondamente perturbato dal trauma delle Twin Towers, che può comprendersi appieno la novità: quel sentimento di "grande emozione" cui ha dato voce Giorgio Napolitano nel commentare a caldo il discorso d'investitura di Obama: "Per chi come me ha vissuto più di 50 anni nella politica e nelle istituzioni", così il Presidente della Repubblica, "è stato un segno di straordinario incoraggiamento e fiducia nell'avvenire della politica."
    Sì, Barak Obama ha evocato una grande emozione politica globale. Ha potuto farlo perché la sua ascesa alla Casa Bianca spezza l'incantesimo imposto dal terrore fondamentalista e dal contro-fondamentalismo liberista armato.
    Di fronte a una folla di due milioni di cittadini e all'opinione pubblica mondiale il presidente Obama ha ammonito la nazione americana, la sua nazione, con queste parole di verità: "Non basta il nostro potere da solo a proteggerci né esso ci concede il diritto di fare quel vogliamo".  E ha aggiunto: "Non chiediamo scusa per il nostro modello di vita né esiteremo a difenderlo… Ma quel che ci fa progredire è la gentilezza d'ospitare uno straniero nel diluvio e il sacrificio degli operai per salvare il lavoro di un loro amico".
    Ora, non si tratta di firmare cambiali in bianco, però si tratta di parole che ridanno alle donne e agli uomini di buona volontà una qualche speranza. Non è preferibile alla paura?