lunedì 21 dicembre 2009

La notizia della settimana

       
Editoriale 

La notizia della settimana
 
di Andrea Ermano

La violenta aggressione ai danni di Silvio Berlusconi è un fatto grave, non meno delle rudimentali bombe rinvenute all'Università Bocconi e a Gradisca. Fatti che rappresentano per l'Italia un doppio segnale.

    In primo luogo essi sono il segnale di un clima politico surriscaldato. Troppe "spallate", troppe ronde, troppi sgomberi xenofobi, insulti istituzionali, discorsi sulla guerra civile che rimbalzano da un palazzo all'altro. Parla di guerra civile Berlusconi, parla di guerra civile Buttiglione. E nel Palazzo probabilmente si pensa che sarebbe ora di chiudere con le allegre mascherate e le escort e le corna e il cucù e le battute stonate.

    Ma poi l'Italia è un paese un po' così, ciclotimico, con fasi carnevalesche, fasi quaresimali e fasi di crisi d'ordine, a un ritmo di tre o quattro lustri l'una dall'altra. In alternativa alla forzatura post-democratica cui visibilmente tendono alcuni pezzi della destra ci sarebbe il passo indietro del premier, come chiedono a gran voce gli oppositori del "No B Day".

    Alcuni esponenti politici moderati, come Pierferdinando Casini, temono che si scivoli verso elezioni anticipate e stravolgimenti costituzionali. Il discorso del premier a Piazza del Duomo, poco prima della folle aggressione, sembrava invece indicare piuttosto una volontà di moderazione: "Niente elezioni anticipate", "State sereni".

    Vabbe', stiamo sereni. In fondo è Natale, e non possiamo non desiderare un po' di pace per tutte le donne e tutti gli uomini di buona volontà.

    Dopodiché, il mondo non sembra appassionarsi alle italiche baruffe. Fortunatamente o sfortunatamente, a seconda dei punti di vista, la notizia della settimana viene da Copenaghen, dal summit sul clima. Al Gore avverte che l'allarme è molto serio e nessuno che ricordi dov'erano i ghiacciai trent'anni fa, dubita del referto scientifico sul surriscaldamento. Eppure il summit di Copenaghen, quanto meno nel momento in cui scriviamo, non sembra approdato a un accordo. Le agenzie titolano ormai dai ieri che si teme il nulla di fatto, a causa di interessi economici e nazionali combinati.

    Sappiamo bene che se c'è il surriscaldamento per causa delle emissioni di CO2 allora possono conseguirne effetti importanti sul pianeta sul quale abitiamo. E sappiamo bene che la "carbonizzazione" dell'atmosfera è collegata al modello economico imperante. Lo scrive anche Carlo d'Inghilterra sulla Stampa e Le Monde: "Mi pare si debba adottare un nuovo approccio, partendo dal mondo com'è davvero". Ma allora, prosegue Carlo, bisogna accettare "il fatto che l'economia dipende dalla natura e non viceversa. Dopotutto la natura costituisce il capitale su cui si fonda il capitalismo".

    Dunque, il capitalismo trasforma la natura in ricchezza, ma si fonda su una ricchezza, il capitale, che è materialmente e sostanzialmente "natura". Ah, quante volte, nelle nostre riunioni di gioventù, rossa e infuocata, ce lo siamo detti e ridetti. E chissà che cosa faceva il principe del Galles a quei tempi.

    Fa piacere trovarsi tutti d'accordo, a una certa età. Ben scavato, vecchio Carlo!
    Forse bisognerebbe aggiungere che quando si parla di capitale, ci sarebbe di mezzo non solo la natura, ma anche il lavoro, l'umanità che suda sotto il bello e il cattivo tempo.

    Insomma, esiste la natura, ma anche la storia, che è anche storia del sudore.
    Ma a parte questo dettaglio, si può dire che questa questione di cui parliamo quando parliamo di surriscaldamento climatico è una questione politica globale che ci investe non solo nelle nostre economie e nelle nostre culture, ma anche nella nostra stessa personalità e nella nostra mentalià.

     Il futuro che ci attende, e che nessuno conosce, si annuncia nel segno di una grande trasformazione, che avrà comunque luogo. Noi ci auguriamo che essa possa avvenire come prodotto benigno del nostro lavoro. In questa prospettiva ciascun soggetto – individuale, collettivo, statuale o transnazionale – avrà di che interrogarsi circa il proprio essere ed agire.

    Da noi una sola domanda: c'è in giro un folle così folle da pensare che la trasformazione cosmopolitica che verrà, se verrà, possa essere pensata e costruita senza, o contro, la maggioranza degli esseri umani, cioè senza le lavoratrici e i lavoratori?

    Workers of all countries unite!
    E anche qui non possiamo non ribadire l'auspicio di un po' di pace a tutte le donne e a tutti gli uomini di buona volontà.

Poscritto - Alcuni motivi di fondo qui sopra esposti mi si sono chiariti per la prima volta qualche tempo fa nel corso di una "due giorni" indimenticabile di conferenze e colloqui tra Lugano e Varese con

Dario Robbiani (Novazzano 1939 - Lugano 2009), un gigante del giornalismo e del socialismo di lingua italiana in Svizzera che ci ha lasciati e al quale desidero dedicare anch'io un mio personale e affettuoso pensiero, con riconoscenza.    

venerdì 11 dicembre 2009

Interlocuzioni al plastico

Cosa Nostra nel "biennio orribile" 1992-1993 ha condotto una sorta di interlocuzione al plastico volta a condizionare la transizione dalla Prima alla Seconda repubblica.

Non è dato ancora sapere quali fossero i "soggetti" e quali i "progetti"cui la catena  di efferati delitti rispondeva, ma la logica in cui s'inquadra è quella "Strategia della tensione" che ebbe inizio il 12 dicembre di quarant'anni fa con la Strage di Piazza Fontana.

di Andrea Ermano

Sentir dire che il Presidente del Consiglio della sesta o settima potenza industriale sarebbe il mandante di alcune stragi compiute nel suo stesso Paese dalla criminalità organizzata? È normale questo?

    La tesi di cui sopra viene da tempo adombrata dall'europarlamentare Giuseppe De Magistris e dal giornalista di Repubblica Giuseppe D'Avanzo. Ma non si tratta di semplici illazioni. Qualche giorno fa sono filtrate registrazioni nelle quali il Presidente della Camera riportava le cose di cui sopra, definendole "un'atomica". Poi è venuta la volta di Gaspare Spatuzza, che ha ribadito in tribunale le cose di cui sopra in qualità di pentito e testimone. Infine il vecchio giornalista Lino Jannuzzi ha ricordato come già il boss Salvatore Cancemi avesse dichiarato le cose di cui sopra un bel po' di anni fa, anch'egli di fronte ai giudici.

    Insomma, serpeggia in Italia la leggenda nera secondo cui Silvio Berlusconi e il suo fido compagno Marcello Dell'Utri sarebbero "i responsabili delle stragi" compiute dal braccio terroristico di Cosa Nostra nel biennio 1992-1993.

    Sapevamo finora che dietro alla sequela di attentati c'era una qualche mafia. Ma per quale ragione mai Cosa Nostra potrebbe aver avuto interesse a una seconda "Strategia della tensione"?

    Ecco due risposte ipotetiche.
    prima ipotesi - Una prima ipotesi consiste nel vedere l'organizzazione mafiosa come struttura tecnicamente in grado di realizzare attentati e perciò prescelta in vista di una seconda "Strategia della tensione". Manovalanza sanguinaria che serviva non a destabilizzare ma a ri-stabilizzare il sistema (in analogia con la prima "Strategia della tensione") evitando cioè che il crollo della Prima repubblica approdasse a esiti inaccettabili per il vecchio blocco di potere.

    seconda ipotesi - Una seconda ipotesi consiste nel vedere Cosa Nostra come soggetto autonomo che, nel caos di fine repubblica, decide per propria iniziativa di condizionare la politica, e ciò per regolare dei vecchi conti, ma anche affinché, nella "transizione", si evitino approdi inaccettabili in rapporto agli interessi consolidati della "borghesia mafiosa".

    La differenza tra le due ipotesi, che non si distinguono molto rispetto allo scopo finale (condizionare le dinamiche politiche della "transizione"), starebbe dunque nel "soggetto" che decide di sollecitare e fare spazio a interlocutori "ragionevoli", capaci di "salvare" il Paese dai "comunisti" ante portas.

    Nella prima ipotesi il "soggetto" coinciderebbe con un aggregato di poteri forti e deviati: una vecchia conoscenza, che fa nuovamente parlare di sé, nel quarantennale di Piazza Fontana.

    Nella seconda ipotesi il "soggetto" starebbe più semplicemente in una qualche "cupola" vittima di furore megalomane.

    Lo stato dell'arte, per quel che si sa, è da riassumersi così: 1) La "cupola corleonese" per bocca di Riina giura la propria estraneità ai fatti. 2) Alla "famiglia palermitana" dei fratelli Graviano appartiene il pentito Gaspare Spatuzza che sostanzialmente accusa Berlusconi e Dell'Utri di avere promosso delle stragi con "morti che non ci appartengono". 3) Il figlio di Ciancimino, ex sindaco Dc di Palermo, afferma che, parallelamente alle stragi, ebbe luogo una trattativa tra Stato e Cosa Nostra. 4) L'esistenza di una "trattativa" viene confermata dal procuratore nazionale Piero Grasso dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia.    

    Allo stato attuale dei fatti si sarebbe portati a ritenere attendibile la seconda ipotesi. Dell'Utri e Berlusconi avrebbero cioè lanciato in pista la loro "Forza Italia" per corrispondere a un accordo di sistema nel quale il nuovo partito doveva garantire il blocco di potere conservatore. In questo disegno politico vagamente craxiano può essersi inserito a un certo punto il mondo sommerso, ma influente, che ruotava intorno all'andreottismo e al piduismo della Prima repubblica, facendo leva sugli interessi della "borghesia mafiosa".

    Per Berlusconi "scendere in campo" coincideva con i suoi interessi di imprenditore deciso a salvarsi da una spirale che minacciava di finir come nel caso di altri uomini d'affari coinvolti in Tangentopoli. Una serie di esplosioni gli ha, se non aperto, facilitato la "discesa", ma in un quadro di coincidenze, nel quale si inseriscono i contatti tra il boss Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri.

    Cucendo i dati in una prospettiva tutto sommato verosimile, parrebbe dunque che la mafia abbia condotto una sorta di "interlocuzione al plastico" nella transizione dalla prima alla seconda repubblica. Il che confermerebbe la "seconda ipotesi". E nella "seconda ipotesi" si muove il giornalista di Repubblica Giuseppe D'Avanzo quando scrive che le stragi e le bombe "sono tappe di una lucida e mirata progressione terroristica" volta a creare "un sistema politico più poroso agli interessi di Cosa Nostra, umiliata e sconfitta con la sentenza della Cassazione (1992) che rende definitive le condanne del primo grande processo alla mafia".

    Come credere allora alla "prima ipotesi", e cioè che Dell'Utri e Berlusconi si fossero messi invece a ordire stragi, loro stessi in veste di mandanti? 

    D'Avanzo prende le mosse dai socialisti che con Claudio Martelli "molto promisero e nulla mantennero". Sono loro l'obiettivo "che conduce a Roma, nel 1991, la créme dell'Anonima Assassini di Cosa Nostra. Nella Capitale sono Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori. Hanno armi leggere. Devono uccidere Claudio Martelli (ministro di Giustizia), Giovanni Falcone (direttore degli Affari Penali), Maurizio Costanzo".
    Ma il disegno omicida ad armi leggere viene revocato, per essere riproposto in grande stile un anno dopo, con tecnica dirompente.

    Perché?
    Gaspare Spatuzza ritiene che, in quel momento, sia accaduto qualcosa: "Muta il progetto. Appaiono nuovi soggetti. Non sono ancora un partito politico, ma presto lo diventeranno", chiosa D'Avanzo.

    Quali "soggetti nuovi"? Quale "progetto mutato"? D'Avanzo considera "ingenuo" ritenere che Forza Italia nasca come "partito della mafia". Perché l'esistenza di punti di contatto tra la macchina politica e la macchina mafiosa non equivale a un'identità tra le due macchine. Del pari "ingenuo" sarebbe credere che la nascita di un nuovo partito "incubi in un vuoto" cioè semplicemente nell'avvitamento della Prima Repubblica.

    In realtà, l'avvitamento della Prima repubblica nasce dal simultaneo sfarinamento della DC e del PCI in atto a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta. Questo sfarinamento rischia di favorire l'unica classe dirigente alternativa disponibile sul mercato politico italiano, che era quella craxiana dei Martelli, Formica, Spini e De Michelis, sotto la leadership intellettuale di Giuliano Amato.

    L'opzione alternativa finisce sotto le macerie di Tangentopoli.
    Ma intanto s'avanza la "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto, trionfatore alle amministrative del 1993 con Sansa eletto sindaco a Genova, Cacciari a Venezia, Illy a Trieste, Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Orlando a Palermo.

    Sarebbe questo lo scenario rispetto al quale erano state revocate le "armi leggere" nella logica di un "progetto mutato"? Ma, allora, qual è l'ipotesi da seguire?

    In conclusione, restano per ora opache le ragioni non solo di ciò che avvenne in quell'epoca di cosiddetta transizione, ma anche i motivi di quel che sta succedendo adesso, sotto i nostri occhi. E però senza dubbio non accade spesso di sentir dire che il Presidente del Consiglio del tuo Paese sarebbe un mandante di stragi "terroristico-mafiose". Nel quarantesimo anniversario dalla Strage di Piazza Fontana.  

Interlocuzioni al plastico

Cosa Nostra nel "biennio orribile" 1992-1993 ha condotto una sorta di interlocuzione al plastico volta a condizionare la transizione dalla Prima alla Seconda repubblica.

Non è dato ancora sapere quali fossero i "soggetti" e quali i "progetti"cui la catena  di efferati delitti rispondeva, ma la logica in cui s'inquadra è quella "Strategia della tensione" che ebbe inizio il 12 dicembre di quarant'anni fa con la Strage di Piazza Fontana.

di Andrea Ermano

Sentir dire che il Presidente del Consiglio della sesta o settima potenza industriale sarebbe il mandante di alcune stragi compiute nel suo stesso Paese dalla criminalità organizzata? È normale questo?

    La tesi di cui sopra viene da tempo adombrata dall'europarlamentare Giuseppe De Magistris e dal giornalista di Repubblica Giuseppe D'Avanzo. Ma non si tratta di semplici illazioni. Qualche giorno fa sono filtrate registrazioni nelle quali il Presidente della Camera riportava le cose di cui sopra, definendole "un'atomica". Poi è venuta la volta di Gaspare Spatuzza, che ha ribadito in tribunale le cose di cui sopra in qualità di pentito e testimone. Infine il vecchio giornalista Lino Jannuzzi ha ricordato come già il boss Salvatore Cancemi avesse dichiarato le cose di cui sopra un bel po' di anni fa, anch'egli di fronte ai giudici.

    Insomma, serpeggia in Italia la leggenda nera secondo cui Silvio Berlusconi e il suo fido compagno Marcello Dell'Utri sarebbero "i responsabili delle stragi" compiute dal braccio terroristico di Cosa Nostra nel biennio 1992-1993.

    Sapevamo finora che dietro alla sequela di attentati c'era una qualche mafia. Ma per quale ragione mai Cosa Nostra potrebbe aver avuto interesse a una seconda "Strategia della tensione"?

    Ecco due risposte ipotetiche.
    prima ipotesi - Una prima ipotesi consiste nel vedere l'organizzazione mafiosa come struttura tecnicamente in grado di realizzare attentati e perciò prescelta in vista di una seconda "Strategia della tensione". Manovalanza sanguinaria che serviva non a destabilizzare ma a ri-stabilizzare il sistema (in analogia con la prima "Strategia della tensione") evitando cioè che il crollo della Prima repubblica approdasse a esiti inaccettabili per il vecchio blocco di potere.

    seconda ipotesi - Una seconda ipotesi consiste nel vedere Cosa Nostra come soggetto autonomo che, nel caos di fine repubblica, decide per propria iniziativa di condizionare la politica, e ciò per regolare dei vecchi conti, ma anche affinché, nella "transizione", si evitino approdi inaccettabili in rapporto agli interessi consolidati della "borghesia mafiosa".

    La differenza tra le due ipotesi, che non si distinguono molto rispetto allo scopo finale (condizionare le dinamiche politiche della "transizione"), starebbe dunque nel "soggetto" che decide di sollecitare e fare spazio a interlocutori "ragionevoli", capaci di "salvare" il Paese dai "comunisti" ante portas.

    Nella prima ipotesi il "soggetto" coinciderebbe con un aggregato di poteri forti e deviati: una vecchia conoscenza, che fa nuovamente parlare di sé, nel quarantennale di Piazza Fontana.

    Nella seconda ipotesi il "soggetto" starebbe più semplicemente in una qualche "cupola" vittima di furore megalomane.

    Lo stato dell'arte, per quel che si sa, è da riassumersi così: 1) La "cupola corleonese" per bocca di Riina giura la propria estraneità ai fatti. 2) Alla "famiglia palermitana" dei fratelli Graviano appartiene il pentito Gaspare Spatuzza che sostanzialmente accusa Berlusconi e Dell'Utri di avere promosso delle stragi con "morti che non ci appartengono". 3) Il figlio di Ciancimino, ex sindaco Dc di Palermo, afferma che, parallelamente alle stragi, ebbe luogo una trattativa tra Stato e Cosa Nostra. 4) L'esistenza di una "trattativa" viene confermata dal procuratore nazionale Piero Grasso dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia.    

    Allo stato attuale dei fatti si sarebbe portati a ritenere attendibile la seconda ipotesi. Dell'Utri e Berlusconi avrebbero cioè lanciato in pista la loro "Forza Italia" per corrispondere a un accordo di sistema nel quale il nuovo partito doveva garantire il blocco di potere conservatore. In questo disegno politico vagamente craxiano può essersi inserito a un certo punto il mondo sommerso, ma influente, che ruotava intorno all'andreottismo e al piduismo della Prima repubblica, facendo leva sugli interessi della "borghesia mafiosa".

    Per Berlusconi "scendere in campo" coincideva con i suoi interessi di imprenditore deciso a salvarsi da una spirale che minacciava di finir come nel caso di altri uomini d'affari coinvolti in Tangentopoli. Una serie di esplosioni gli ha, se non aperto, facilitato la "discesa", ma in un quadro di coincidenze, nel quale si inseriscono i contatti tra il boss Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri.

    Cucendo i dati in una prospettiva tutto sommato verosimile, parrebbe dunque che la mafia abbia condotto una sorta di "interlocuzione al plastico" nella transizione dalla prima alla seconda repubblica. Il che confermerebbe la "seconda ipotesi". E nella "seconda ipotesi" si muove il giornalista di Repubblica Giuseppe D'Avanzo quando scrive che le stragi e le bombe "sono tappe di una lucida e mirata progressione terroristica" volta a creare "un sistema politico più poroso agli interessi di Cosa Nostra, umiliata e sconfitta con la sentenza della Cassazione (1992) che rende definitive le condanne del primo grande processo alla mafia".

    Come credere allora alla "prima ipotesi", e cioè che Dell'Utri e Berlusconi si fossero messi invece a ordire stragi, loro stessi in veste di mandanti? 

    D'Avanzo prende le mosse dai socialisti che con Claudio Martelli "molto promisero e nulla mantennero". Sono loro l'obiettivo "che conduce a Roma, nel 1991, la créme dell'Anonima Assassini di Cosa Nostra. Nella Capitale sono Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori. Hanno armi leggere. Devono uccidere Claudio Martelli (ministro di Giustizia), Giovanni Falcone (direttore degli Affari Penali), Maurizio Costanzo".
    Ma il disegno omicida ad armi leggere viene revocato, per essere riproposto in grande stile un anno dopo, con tecnica dirompente.

    Perché?
    Gaspare Spatuzza ritiene che, in quel momento, sia accaduto qualcosa: "Muta il progetto. Appaiono nuovi soggetti. Non sono ancora un partito politico, ma presto lo diventeranno", chiosa D'Avanzo.

    Quali "soggetti nuovi"? Quale "progetto mutato"? D'Avanzo considera "ingenuo" ritenere che Forza Italia nasca come "partito della mafia". Perché l'esistenza di punti di contatto tra la macchina politica e la macchina mafiosa non equivale a un'identità tra le due macchine. Del pari "ingenuo" sarebbe credere che la nascita di un nuovo partito "incubi in un vuoto" cioè semplicemente nell'avvitamento della Prima Repubblica.

    In realtà, l'avvitamento della Prima repubblica nasce dal simultaneo sfarinamento della DC e del PCI in atto a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta. Questo sfarinamento rischia di favorire l'unica classe dirigente alternativa disponibile sul mercato politico italiano, che era quella craxiana dei Martelli, Formica, Spini e De Michelis, sotto la leadership intellettuale di Giuliano Amato.

    L'opzione alternativa finisce sotto le macerie di Tangentopoli.
    Ma intanto s'avanza la "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto, trionfatore alle amministrative del 1993 con Sansa eletto sindaco a Genova, Cacciari a Venezia, Illy a Trieste, Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Orlando a Palermo.

    Sarebbe questo lo scenario rispetto al quale erano state revocate le "armi leggere" nella logica di un "progetto mutato"? Ma, allora, qual è l'ipotesi da seguire?

    In conclusione, restano per ora opache le ragioni non solo di ciò che avvenne in quell'epoca di cosiddetta transizione, ma anche i motivi di quel che sta succedendo adesso, sotto i nostri occhi. E però senza dubbio non accade spesso di sentir dire che il Presidente del Consiglio del tuo Paese sarebbe un mandante di stragi "terroristico-mafiose". Nel quarantesimo anniversario dalla Strage di Piazza Fontana.  
       

domenica 6 dicembre 2009

La legge e il panorama

 
 
 
 
 
 
di Andrea Ermano

È necessario che il popolo combatta a difesa della

legge tanto quanto [combatte] a difesa delle mura.

Eraclito

Nelle nostre democrazie, ricche di politiche discriminatorie, la dignità dei migranti è violata in modo generale, sistematico e minuzioso, anche sul piano dei diritti d'opinione e associativi, e quindi infine anche sul piano del sentimento religioso. Qui vengono imposti crocifissi, là vengono proibiti minareti. La Lega plaude in Padania, il liberalismo si preoccupa in Elvezia, dimenticando che ha sempre svolto un ruolo d'avanguardia nella costruizione di una democrazia differenziale, la Svizzera: madre amorevole con i cittadini suoi, matrigna con gli stranieri. E su questa strada, come nell'antica Atene durante la transizione macedone verso l'impero, masse di lavoratori vengono di fatto escluse anche nelle nostre democrazie dal novero della cittadinanza.

    Ricordo un seminario del professor Hermann Luebbe sul tema "Regionalismo". Eravamo nella prima metà degli anni Ottanta e non sapevamo bene come si sarebbe potuto misurare, dentro la questione del "Regionalismo", un fenomeno allora nuovo, il fenomeno della destra localista e xenofoba. L'insigne filosofo ci spiegò che, per uscire dall'oscurità, occorreva focalizzare l'attenzione sulla categoria sociologica del "panorama". È nel rapporto tra il "panorama" e la "sua gente", infatti, che emergono in modo tangibile i connotati della cosiddetta "identità", complessa mescolanza fattizia di ideologia, autocomprensione e autoinganno, in base alla quale in una data regione c'è gente che si ritiene far parte della comunità locale e altra gente che viene invece considerata estranea. Riassunto della lezione numero uno: il "panorama" siamo anzitutto e prima di tutto "noi stessi" nel nostro piccolo mondo identitario.

    Tutto questo mi è tornato in mente alcuni giorni fa quando, in Vaticano, la sentenza di Strasburgo sui crocifissi è stata associata da alti prelati al pronunciamento del popolo svizzero contro i minareti: entrambe sarebbero espressioni di una deriva laicista che approda all'odio antireligioso. . . Se non che l'Alta Corte di Strasburgo, quella stessa che ha censurato l'imposizione dei crocifissi in Italia, verrà probabilmente chiamata a pronunciarsi sulla questione dei minareti in Svizzera. Ed è facile prevedere che Strasburgo condannerà l'islamofobia elvetica, come ha censurato l'omologazione clericale nel Belpaese. In tutta evidenza cozzano entrambe contro la libertà religiosa.

    Rispetto all'Alta Corte di Strasburgo, dunque, l'equazione vaticana ("No ai crocifissi nelle scuole italiane = No ai minareti tra le Alpi svizzere") appare del tutto estrinseca. Semmai il parallelo corre sulla linea del "panorama" come fattore identitario:  i crocifissi fanno parte del "panorama italiano", asserisce la destra nostrana in opposizione a Strasburgo, i minareti non fanno parte del "panorama alpino", fa eco la destra elvetica. Ed è dunque in nome del "panorama" che sarebbe vietato vietare i crocifissi, ma del pari sarebbe consentito vietare i minareti. Questo accade in linea di fatto. E va aggiunto che codeste constatazioni "panoramiche", tanto nel caso del crocifisso, quanto in quello dei minareti, posseggono in linea di fatto una loro plausibilità. Ma è consentito catapultare il dato di fatto sul piano del diritto?

    Secondo l'Alta Corte di Strasburgo non è consentito per nulla. Non lo è perché la pluralità dei culti e delle culture risponde al diritto di ciascuna persona. Non è lecito comprimere questa pluralità in nome di nessun "panorama" perché la dignità del singolo è intangibile. La "democrazia", non quella populista né quella differenziale, la democrazia come stato di diritto si fonda sull'idea della dignità, una dignità che si ritiene appartenere a ogni "nato di donna" in quanto persona dotata di cuore e coscienza, di volontà e intelligenza, di parola e ragione.

    La democrazia come "stato di diritto" non è semplicemente il notaio della maggioranza del popolo, ma anche tutela delle minoranze e di ciascun singolo. Per esempio, la democrazia come stato di diritto interviene affinché il ragazzo di pelle nera James Hood o la ragazza di pelle nera Vivian Malone possano accedere all'Università dell'Alabama al pari dei ragazzi di pelle bianca. Lo ricordava Furio Colombo: nel giugno del 1963 il governatore dell'Alabama, George Wallace, si mise platealmente di traverso per impedire a Vivian Malone e James Hood l'accesso nell'ateneo: "Me lo chiedono i miei elettori", disse. Il presidente Kennedy gli rispose al telefono che come governatore dell'Alabama doveva scegliere se lasciar entrare quei due ragazzi in Università oppure riprendersi la propria indipendenza uscire dagli Stati Uniti d'America. E Wallace cedette.

    Un sistema proporzionato alla dignità delle persone consiste nella convivenza di tutti regolata dalla legge, per tutti uguale e avversa ogni arbitrio, e fosse pure un arbitrio approvato all'unanimità dal Parlamento di Atalanta. La legge è sì stabilita dalla maggioranza, ma la validità delle norme dipende anche dall'intangibile dignità di ciascun singolo. E su questo limite perentorio, che non deve essere varcato da nessuna "maggioranza", vigilano in ultima istanza le alte corti, costituzionali e internazionali.

    Dicevamo, dunque, che all'Alta Corte di Strasburgo intendono rivolgersi le organizzazioni musulmane in Svizzera, che giudicano discriminatorio il "no ai minareti" pronunciato dalla maggioranza del popolo sovrano. Dicevamo che l'Alta Corte, verosimilmente, casserà il divieto svizzero di minareto come già ha cassato l'obbligo italiano di crocifisso. Ma che ne sarà allora del rapporto tra la "gente" e il suo "panorama"? Occorrerà che il diritto prevalga sulla brutalità del dato di fatto? Questa, secondo chi scrive, è l'unica soluzione, se si lavora alla pace tra le donne e gli uomini di buona volontà.

    Occorrerà allora che la Confederazione Elvetica revochi la deliberazione "panoramica" della maggioranza popolare contro i minareti. Ma allora non bisognerà che anche il popolo cattolico nostrano accetti la sentenza sul crocifisso? E non ne conseguirebbe infine che taluni leader religiosi debbano iniziare a porsi il problema delle sistematiche discriminazioni dentro le loro comunità?

    Nota bene: le violazioni ai diritti umani cui abbiamo accennato in queste righe accadono qui e ora, nel tempo presente, alle nostre latitudini, dentro ai nostri panorami, proprio accanto a noi, nelle città in cui noi stessi viviamo.

venerdì 27 novembre 2009

Ma forse un "farmaco" ci sarebbe

Ripensando al summit della FAO tenutosi recentemente a Roma si è portati a concludere che in questo "sistema-mondo" una quadratura meccanica del problema della fame non c'è. O forse ci sarebbe, ma d'altro "genere". 

di Andrea Ermano

L'estensione della fame nel mondo aumenta, pare, con la crescita demografica. E la popolazione sembra crescere in funzione della massa alimentare disponibile. Sicché il puro e semplice aumento di aiuti alimentari alle popolazioni indigenti, per quanto necessario nell'immediato, può determinare sul medio periodo un ulteriore aumento degli affamati.

      Che fare dinanzi a questo circolo vizioso, intessuto di inenarrabili sofferenze e tragedie, di crisi e di conflitti?

    Il dibattito in corso nel nostro Paese distingue due grandi scuole di pensiero. Per i laici bisogna intensificare le politiche di controllo demografico. Per il clero cattolico il preservativo e la pillola, al pari di ogni tecnica anticoncezionale, vanno condannati. Il problema, secondo la dottrina della Chiesa, si può risolvere solo migliorando la distribuzione del cibo.

    Ma aumentando solo e semplicemente la massa alimentare disponibile non c'è il rischio che la popolazione cresca e con essa cresca anche la fame?

    Supponiamo di no. Supponiamo che la Terra sia talmente grande da poter nutrire tutti. Supponiamo di escogitare un metodo che permetta di dar da mangiare agli affamati quale che ne sia il numero. E supponiamo che la produzione di cibo sappia tenere il passo con il conseguente aumento della popolazione.  Ci sarebbe allora sazietà per i lupi e per gli agnelli, nei secoli dei secoli? Sarebbe bello, ma temo che il bilancio ecologico dell'operazione non regga.  Perché gli scienziati ci ammoniscono ogni giorno sul surriscaldamento, che corre a folle velocità. Figuriamoci cosa accadrebbe se l'aumento della popolazione mondiale subisse un'ulteriore impennata... 

     Perciò appare sempre più ineludibile la necessità di politiche finalizzate al controllo demografico.  E tuttavia sarebbe assurdo immaginarsi il pianeta sottoposto a una sorta di protettorato neo-maoista, con il Comitato Centrale che stabilisce chi possa avere quanti figli e quando.  Assurdo e impraticabile.

E allora che fare?  In realtà, un "farmaco" miracoloso ci sarebbe, un "farmaco" capace di favorire massicciamente il controllo delle nascite, pur nel rispetto della dignità delle persone e delle loro scelte procreative. Questo "farmaco" si chiama scuola, esso è il grado medio di istruzione femminile. Tanto più le donne di un dato paese ricevono una buona istruzione, tanto più il tasso di crescita demografica del paese medesimo tende a "raffreddarsi".

     Se questo schema di ragionamento è vero, come pare, ne conseguirebbe che la salvezza demografico-alimentare-ecologica del genere umano dipende dall'emancipazione delle donne. Quindi, per il movimento delle donne si staglia all'orizzonte un ruolo (cosmo-)politico assolutamente centrale e inedito.

    Ora, per focalizzare meglio quest'orizzonte futuro al femminile tentiamo nel nostro piccolo una zoomata stile Kubrik 2001 - Odissea nello spazio... Un tuffo nel passato remoto. Andiamo a ripescare dalle memorie di scuola la famosa "Crisi del Neolitico".

    Circa sei sette mila anni fa, spiegano gli storici, aveva avuto luogo una sconvolgente rivoluzione economica, che consistette nella creazione dell'agricoltura, nello sviluppo dell'allevamento e nella fondazione del "villaggio". Il villaggio neolitico era composto da circa 20-40 case, scrive Mario Vegetti, un sistema di clan familiari coalizzati nella realizzazione di opere comuni come le fortificazioni per difendere le terre coltivate da eventuali incursioni di vicini o dei cosiddetti "selvaggi".

    Perché entra in crisi il villaggio neolitico? Più o meno per le stesse cause strutturali per le quali neanche il nostro villaggio globale gode oggi di buona salute: un combinato disposto tra aumento della popolazione, forti fluttuazioni di produttività e, dunque, forti spinte migratorie.

    Le turbolenze demografico-alimentari del Neolitico sfociano in una diffusa conflittualità. E nella nuova situazione, dominata dalla guerra di tutti contro tutti, le Leghe maschili tendono a imporsi come nuovo modello di società. Ne consegue una progressiva militarizzazione dell'economia e della convivenza.

Se la "rivoluzione agricola", come ben spiegano i manuali di storia, era stata l'ultima grande realizzazione del matriarcato, la "Crisi del Neolitico" segna l'inizio di una nuova egemonia, quella patriarcale.  Dalla guerra ("polemos") nasce la città ("polis") protetta da alte cinte murarie la cui edificazione ha come presupposto una gerarchizzazione piramidale della società. Gli esseri umani subiscono una riclassificazione in base alla quale da un lato ci sono dei "sopra-uomini" e dall'altro dei "sotto-uomini": i maschi e le femmine, i padroni e i servi, gli adulti e gli infanti, gli amici e gli stranieri, la gente civilizzata e i barbari, o troppo rozzi o troppo raffinati.

    Il territorio della Polis è delimitato da "cippi confinari" o "erme" (hermata) su cui viene scolpito un fallo: né simbolo erotico né di fertilità. Il senso di ciò è ben spiegato da Walter Burkert con riferimento al comportamento di certi primati i cui maschi adulti presidiano il territorio del clan esibendo verso l'esterno un pene vistosamente eretto. Come a dire: Viandante che passi  da questo luogo, sappi che qui non vivono solo femmine imbelli, vecchi e infanti; qui ci sono anche maschi adulti addestrati al combattimento.

    Be', con buona pace dei predetti sei o sette mila anni di Patriarchi, Guerrieri, Leghe maschili ecc., non mi pare che le turbolenze innescatesi con la "Crisi del Neolitico" si siano acquietate. Non in Mesopotamia né in Egitto, non con l'Impero Macedone né con quello Romano. E la storia non è finita neppure con i loro emuli moderni -- spagnoli, portoghesi, olandesi, britannici, sovietici o americani -- sotto la cui egida sono andati per altro in frantumi anche i costrutti imperiali extra-europei.

    Ciò che siamo usi chiamare civiltà umana sembra avviato verso una mega-turbolenza a rischio di deflagrazione. Anche perché finora nessun Patriarca, in tutta evidenza, si è dimostrato capace di cavalcare la tigre demografico-alimentare.

    Data la situazione disperante di questo nostro "sistema-mondo", lasciateci almeno sperare che un altro mondo è possibile.  "Possibile" sta qui probabilmente a significare che tra i due "generi", quello femminile e quello maschile, un riequilibrio in grande stile è necessario.       
       

giovedì 19 novembre 2009

Con i reattori invertiti

 
 
di Andrea Ermano

La professoressa Maria Grazia Meriggi, celebre studiosa di storia sociale europea, ci scrive alcune utili osservazioni sull'articolo di Ugo Intini, L'occasione mancata della sinistra italiana, apparso sull'ADL della settimana scosa. "Dall'articolo di Intini" – osserva la professoressa Meriggi – "risalta se possibile ancor di più la statura politica di Willy Brandt. E sui rapporti fra potenze occupanti, Germania e anticomunismo fin dal '45 raccomando il volume del figlio di Willy, Peter Brandt: Dopo Hitler, Editori Riuniti, Roma 1978".

    Le differenze tra la prudenza riformista di Willy Brandt e l'aperto sostegno di Bettino Craxi al "dissenso" meriterebbero una trattazione a sé. Qui possiamo dire che la Ostpolitik non poteva (né del resto voleva) fungere da rimedio a ogni orrore staliniano e a ogni carro armato brezneviano. Se il sistema sovietico fu infine irriformabile, allora la moderazione brandtiana, per quanto gradita al Pci di Berlinguer, nascondeva più di un'illusione e più di un'insidia.

    In questo senso Intini non ha torto nel rivendicare il ruolo "rivoluzionario" del Psi a sostegno dell'opposizione atisovietica: Sacharov in URSS, Geremek e Michnik in Polonia, Pelikan in Cecoslovacchia e la lista potrebbe continuare. Brandt non approvava tutto questo attivismo e un giorno lo disse a Craxi senza tante perifrasi: "Voi sbagliate ad appoggiare i nemici dei partiti comunisti dell'Europa orientale. Non si deve puntare su di loro che, contrapponendosi frontalmente al sistema, non vinceranno mai. Ciò è addirittura controproducente. Si devono invece appoggiare le componenti moderate e pragmatiche all'interno dei partiti comunisti di governo, così da attirarli a poco a poco verso posizioni riformiste e utili alla distensione".

    A vent'anni di distanza dalla smentita di questa linea, vediamo come anche l'altra linea, che pure trionfò, non mancasse a sua volta d'insidie. Le due concezioni della socialdemocrazia, quella craxiana e quella brandtiana, si distinsero infatti anche in rapporto alle loro prospettive sociali. E ciò a tal punto che l'attuale crisi del centro-sinistra europeo può essere definita, per semplicità d'esposizione, una crisi del craxismo. In quanto autore di un'ibridazione tra laborismo classico e neoliberismo Craxi ha fatto scuola nella "Terza via" di Tony Blair, nella "Neue Mitte" di Gert Schroeder e da ultimo persino nello "Spirito del Lingotto" di Walter Veltroni.

    Questa crisi è stata crudamente evidenziata in Germania dal risultato a due cifre realizzato da Oskar Lafontaine con la sua Linke. Lafontaine era stato indicato personalmente da Willy Brandt come il migliore dei suoi allievi e il suo continuatore. Conquistò la guida del partito vincendo le resistenze interne. Guidò la SPD al successo e Schroeder alla Cancelleria. Poi però abbandonò ogni carica, "da sinistra", dopo essersi dimesso dalla funzione di super-ministro economico. In questi ultimi anni, pur anziano e malato, ha impartito alla SPD una severa lezione. E in tutta brevità diremmo che il nervo scoperto del conflitto interno al mondo socialista europeo riguardava (e riguarda tuttora) il complesso rapporto tra partito e sindacato.

    Questa tematica vale per la Gran Bretagna, la Germania e per tutti gli altri paesi europei dove il mondo del lavoro organizza il proprio consenso orientandolo storicamente a favore della sinistra riformista. In Italia, però, la questione del rapporto tra partito e sindacato si è sviluppata, nel secondo Dopoguerra, in modo obliquo, perché articolato su due partiti e perché gravato dalla loro collocazione nello spazio geopolitico della guerra fredda.

    Ugo Intini ricorda nel suo articolo la seguente tesi di Villetti: "Incredibilmente il PSI ripeté, con segno opposto, lo stesso catastrofico errore storico del 1947-'48. Mentre la cortina di ferro calava sull'Europa, i socialisti di Nenni avrebbero dovuto stare a Occidente, con i partiti democratici e la DC. Invece, in nome dell'unità della sinistra, stettero a Oriente, con Stalin e il PCI. Nel 1989, al contrario, crollata la cortina di ferro, i socialisti di Craxi, allievo e successore di Nenni, avrebbero dovuto costruire con l'ex PCI l'unità della sinistra, non più ostacolata dall'insormontabile impedimento internazionale che la aveva bloccata per decenni. Invece, si trovarono ancora una volta, nel momento storico decisivo, come con Nenni nel 1948, dalla parte sbagliata: questa volta, non contro, ma con la Democrazia cristiana; non con, ma contro il PCI."  

    Come non concordare? Nel nostro piccolo, da queste colonne, avevamo avanzato tesi analoghe, in tempi non sospetti. Ci fa piacere che si tratti di un giudizio ormai condiviso. Giunti sin qui, potremmo però chiederci anche se l'autonomia del PSI non fu comprata al prezzo di un autofinanziamento sempre più pesantemente "irregolare". Il che nel "momento storico decisivo" condizionò pesantemente le scelte politiche.

    Autonomia della politica ha significato per la SPD disporre di fondi regolari. La SPD non ha dovuto battersi a mani nude contro i dollari e i rubli degli avversari politici. Il PSI lo ha fatto e sappiamo com'è finita. Va detto pure che la propaganda d'odio antisocialista, risalente agli anni del primo centro-sinistra, rendeva gravoso, per non dire impraticabile, ogni ragionevole prospettiva di riconciliazione nel 1989. Alla fine sia il Psi sia il Pci si convertirono alla logica del fornaio andreottiano. E quando la DC tirò le cuoia, l'effetto fu quello di andare, senz'alternative, verso una crisi di sistema, lungi tutt'ora dall'essere superata.

    Ripensando ai rapporti tra Psi e Pci, dagli anni del primo centro-sinistra alla fine della Prima repubblica, mi viene in mente il film di Sogo Ishii "La famiglia con i reattori invertiti" (Gyakufunsha kazoku - The Crazy Family, 1984). Il film narra di una normale famiglia giapponese nella quale inizia però a serpeggiare un dissidio, tragicomico e culminante nella distruzione pezzo a pezzo del salotto, del mobilio e dell'intero appartamento fino a esiti catastrofici. Sui titoli di coda, che scivolano sopra le macerie fumanti di quella che un giorno fu la casa comune, si legge: "La famiglia con i reattori invertiti".

   In Giappone l'espressione "reattori invertiti" sta a indicare gli esiti catastrofici di un raptus. È divenuta proverbiale da quando, con gesto incnsulto, un pilota decise di attivare in pieno volo gli "inversori di spinta". Questi marchingegni applicati ai turbocompressori servono in realtà a frenare il velivolo dopo l'atterraggio. Ma quel giorno il pilota fu preso da un accesso di pazzia e attivò gli "inversori di spinta" mentre navigava ad alta quota. Il suo aereo entrò in stallo e precipitò con tutti i passeggeri a bordo.

venerdì 6 novembre 2009

Macchine gioiose e macchine dolorose

Riflessioni sulla fuoriuscita dall'agone politico annunciata
dal sindaco-filosofo di Venezia, Massimo Cacciari. 

di Andrea Ermano

Lui vuol uscire dal ring della politica attiva e appendere al chiodo i guantoni, perché il PD di Bersani lo ha deluso. Bersani porterà a un'intesa "inevitabile" con la "Cosa bianca" di Casini e Rutelli, porterà a una "frittata" da prima Repubblica: "È il vecchio disegno di D'Alema", dice Massimo Cacciari, "non m'interessa culturalmente. Anche se è l'unica via per sconfiggere Berlusconi". 

    Lui non vuol morire democristiano né, però, rimanere ulteriormente in un partito come il PD in odor di "socialdemocrazia" e si dichiara ansioso di tornare all'Università: notizia non brutta, essendo Cacciari uno tra i maggiori pensatori italiani contemporanei. "A 65 anni ho capito che non sono capace di fare politica". Butta lì. E poi conclude tagliente: "Il mio amico D'Alema sì che è capace". Traduzione: D'Alema svolge il proprio lavoro in modo efficace, ma banale. Le sue basi culturali socialdemocratiche nascono "vecchie".

    Sarà. Ma mentre il vice-presidente dell'Internazionale è candidato dal PSE alla carica di ministro degli esteri europeo, Cacciari stesso lamenta invece di sé, malinconicamente: "Nessuno mi ha mai filato, anche se ho avuto sempre ragione". Fosse così, lui farebbe bene a restare dentro il PD attendendo che si avveri la prossima divinazione filosofica per mettere pesantemente i piedi nel piatto. Perché non lo fa?

La critica al "Sozialismus"
Perché. Perché. Perché. Cacciari non potrà mai accettare la Cosa 4. E ciò non a causa di D'Alema, ma per profondi convincimenti filosofici. "Appare evidente da tutto quel che abbiamo detto finora che la riflessione di Cacciari ha come presupposto fondamentale la critica nietzschiana al Sozialismus", così riassume lo studioso Nicola Magliulo l'itinerario filosofico dell'attuale sindaco di Venezia.

    Bisogna sapere, infatti, che già nel fatidico 1976 Cacciari pubblica Krisis, un saggio molto severo con la socialdemocrazia europea e la sua malattia storica, l'empiriocriticismo (così si chiamava il "relativismo" ai tempi di Lenin che scrisse sull'argomento un celebre pamphlet).

    E già nel fatidico 1976 Cacciari è incline alla politica. Reduce giovanissimo da Potere Operaio aderisce al PCI diventando coordinatore della Commissione regionale veneta per l'Industria.

    Sempre nel fatidico 1976 il Partito lo candida alla Camera dei deputati, dove rimane due legislature, fino al 1983. La sua avventura parlamentare coincide dunque con il chiasma di tempo in cui va consumandosi la decadenza politica del PCI di Berlinguer mentre Craxi ascende dalla segreteria del PSI al governo del Paese.

    Cacciari esce dal parlamento e si allontana dalla politica attiva. Si narra che De Michelis o chi per lui gli proponga di saltare sul carro del PSI. Lui declina l'invito: "No, grazie, sono già ricco di famiglia". Una sferzata che entrerà negli annali dell'inimicizia fraterna italiana, ma che segnala anche un'ambivalenza quasi perfetta tra understatment berlingueriano e guasconeria craxiana.

    Come picconatore post-comunista ante litteram il filosofo lagunare assume nel tempo una statura politica crescente. "Trent'anni fa speravo con altri di poter imprimere una svolta al Pci", ricorda. "Poi ci ho provato con Occhetto, quindi con il partito dei sindaci, con l'Asinello di Prodi, con la Margherita e infine con il Pd. Quel che ora dice Rutelli io l'avevo detto molto tempo prima".

La "società civile" e la denuncia di De Magistris
Al netto dei segnali trasversali, si riconosce in questa autodescrizione un tratto saliente (ma drammaticamente perdente) della transizione italiana: l'antitesi tra "società civile" e "politica".

    A nostro sommesso parere, questa contrapposizione, andrebbe superata se non altro per rispetto della lingua. Infatti, la parola "civile" proviene dal latino civilis che è sinonimo, e non contrario, del greco politiké, da cui proviene "politica".

    La "società civile" – ossia la comunità di coloro che vivono nella civitas – non si distingue materialmente dalla comunità di coloro che vivono nella polis. L'abitante della "città", il "cittadino", si chiamava civis a Roma e ad Atene polìtes. Questo, a meno che non s'intendesse un "privato cittadino", calcando l'accento sull'aspetto "privato" della non-partecipazione e dell'estraneità alla vita pubblica. In tal caso gli ateniesi non parlavano di polìtes, ma piuttosto di idiòtes, espressione che non costituiva necessariamente un insulto e stava a significare semplicemente "uno di lì". La lingua francese conosce una distinzione analoga giustapponendo il "cittadino" (citoyen) al semplice "abitante del borgo" (bourgois), da cui la parola "borghese".

    Giunti sin qui segnaliamo il caso notevole di una locuzione usata da Luigi De Magistris in visita a Zurigo il 23 ottobre scorso. L'espressione è: "borghesia mafiosa". Con essa De Magistris intende "quella rete d'imprenditori, professionisti e anche uomini di Chiesa" che nelle regioni ad alta densità criminale si spartiscono il denaro pubblico, "che è praticamente l'unica fonte di reddito in un panorama imprenditoriale gracilissimo".

    La "borghesia mafiosa" tende a privatizzare la politica, e De Magistris insieme a Flores D'Arcais ha recentemente messo in luce la presenza di massicce opacità "privatistiche" (per non dire "familistiche") persino dentro al suo proprio partito, quello nel quale l'ex magistrato ha accettato di candidarsi alle europee.

Privatizzazione della "politica"
La privatizzazione della politica serve alla "borghesia mafiosa" per accedere al pubblico denaro, usando ove possibile la frode, ove necessario la violenza.

    Un macroscopico esempio di violenza mafiosa furono gli attentati nell'anno 1993. Ricordiamoli. La strage di Via dei Georgofili a Firenze uccise cinque persone e ne ferì 48. In Sicilia persero la vita i giudici Falcone, Borsellino e Francesca Morvillo (moglie di Falcone) oltre che otto agenti di scorta. Altri attentati mafiosi vennero compiuti nello stesso anno a Milano (in via Palestro, dove un'autobomba provocò cinque morti: tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un cittadino straniero che dormiva su una panchina) e a Roma contro il giornalista Maurizio Costanzo, oltre che alle chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Questi tre ultimi causarono "solo" dei feriti, ma un quarto attentato era stato frattanto programmato allo Stadio Olimpico con lo scopo di provocare una sanguinosissima strage tra le forze dell'ordine. Non venne eseguito, forse per un contrordine dell'ultimo minuto.

    Esempio macroscopico di frode fu la "trattativa tra lo Stato e la mafia", trattativa che in parte corse parallela a quel macello. È lecito chiedersi se di quel contesto non facessero parte anche "i contatti avvenuti nell'autunno del 1993 tra il futuro organizzatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, e l'emissario di Cosa Nostra, Attilio Mangano", come ritiene l'europarlamentare ed ex procuratore De Magistris (ma non solo lui).

    Che cosa chiese la "borghesia mafiosa" nel 1993 al sistema politico? Chissà se e quando i giudici (o gli storici, o eventualmente i filosofi) sapranno mai spiegarci che cosa accadde esattamente in quell'anno orribile in cui lo Stato (la polis, la Politica, la società civile tramite i propri legali rappresentanti) e l'Antistato (la "borghesia mafiosa") convennero una misura media tra loro. Civiltà più Stragismo diviso due. E nacque la Seconda repubblica.

Nel 1993, con tutti gli assi in mano. . .
Qui ritorniamo al sindaco-filosofo di Venezia. "Nulla vieta di pensare che, se Segni e Occhetto nel 1993, quando si trovano tutti gli assi in mano. . ." – dice Cacciari alcuni giorni fa presentando "La svolta, lettera a un partito mai nato" di Francesco Rutelli.   A mezzo della frase, però, il sindaco-pensatore si ferma come per un'esitazione, cambia progetto sintattico e prosegue con queste parole: "Insomma, quel giro di poker potevano vincerlo facilmente. Avevano tutto in mano. Tutto! Segni in particolare. E si fottono invece in un modo che ha dell'incredibile! Incredibile! Poi noi razionalizziamo tutto. Ma non c'è niente di razionale nel fatto che poi in questo Paese ci siamo beccati Berlusconi. C'era qualcosa che non funzionava nelle teste dei suddetti signori".

    Incredibile? Forse. Qualcosa non funzionava nelle teste? Probabile. Ma mentre il sindaco-filosofo sta pronunciando a Milano le sue irridenti parole, quello stesso giorno in quelle stesse ore a Roma il procuratore nazionale Piero Grasso depone dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia confermando in pieno ciò che De Magistris aveva detto a Zurigo e di cui abbiamo doverosamente riferito più sopra: "Mangano trattò con le sue vecchie conoscenze".

    Ricapitolando: nell'anno orribile 1993 c'era da un lato la "società civile" che, scassata a colpi di genio la "vecchia politica", si fiondava nel "nuovo che avanza" alla quida della "gioiosa macchina da guerra". Dall'altro lato, però, la "borghesia mafiosa" metteva in circolazione altre macchine da guerra, per nulla "gioiose" e anzi dolorose, volte a produrre una criminale interlocuzione al plastico.

    Insomma, come si vede, il nostro problema principale non è mai stato l'empiriocriticismo di Aveanarius, Mach e Bogdanov. E quindi c'è poco da fare gli schizzinosi con quegli alleati internazionali che fossero ancora disposti a rischiare qualcosa puntando sulla nostra democrazia.    
       

venerdì 30 ottobre 2009

Tornate ai vostri posti di lavoro!

La leadership di Pier Luigi Bersani, uscita vincente dalle primarie di domenica  scorsa, pone la parola "fine" alla lunga e contrastata transizione del Pci.

di Andrea Ermano

Avete presente certe storie di cattedra? Iniziano con un barone universitario che teme chi, tra i propri giovani assistenti, gli potrebbe far ombra. Perciò passa il testimone a un discepolo un po' ottuso. Il quale, giunto il suo turno, fa lo stesso. E così il suo successore. Finché non si arriva al successore di un successore che non si rende conto d'aver designato a succedergli un assistente intelligente. E il ciclo della vita intellettuale ricomincia.

    Modalità analoghe possono valere per alcune vicende della Seconda Repubblica, dove tattiche e dirigenti si succedevano uguali a se stessi con moto decadente uniforme, a causa di comportamenti politici non nuovi e non belli. L'acclamazione cammellata. Il plebiscito buonista. E così via in un'interminabile deriva costituzionale. Alla lunga, però, i bolognini e i predellini non stanno bene nelle mani dei bambini. E così venne il giorno in cui i cammelli, per un colpo gobbo dell'inconscio freudiano insorto, acclamarono come un sol uomo il nuovo statuto del Pci-Pds-Ds-Pd. Vi si sanciva il principio della "leadership contendibile", principio misterioso quant'altri mai, cui allora nessuno badò. Ma adesso la situazione è che Pier Luigi Bersani ha conquistato la segreteria nazionale del partito.

    Chiusi i gazebo delle primarie – quelle "vere", cioè molto diverse dalle due precedenti che erano state "primarie per" – adesso lo possiamo dire: la vittoria di Bersani non appariva per nulla scontata. Nel confronto tra apparato postcomunista e buonismo parrocchiale poteva tranquillamente anche accadere che prevalesse quest'ultimo. Forse ci aveva fatto un pensierino Rutelli, e chissà quali esiti avrebbe assunto la competition tra DS e Margherita se l'ex sindaco di Roma nella sua seconda corsa al Campidoglio non fosse platealmente capitombolato. Da ultimo, però, sulla netta vittoria di Bersani hanno influito tre fattori, abbastanza imprevedibili, che di seguito riassumiamo.

    In primo luogo si è attivato il "Fattore D" (D come D'Alema): l'ex premier e attuale vice-presidente dell'Internazionale si è gettato a capofitto con tutto il peso della sua persona e della Fondazione Italianieuropei nella rossa carlinga del vecchio apparato. In secondo luogo è sopraggiunto il "Fattore B" (B come Base): i tre milioni delle primarie hanno raccolto il messaggio mettendo a segno un'ultima e definitiva zampata di compattezza attorno al candidato emiliano Docg, senza cedere più di tanto al fascino del pur simpatico Franceschini. Infine, s'è aggiunto un "Fattore DC" (DC come Democristiani): molti morotei, zaccagniniani e prodiani hanno preferito porsi sotto l'egida del socialismo europeo, tanto meglio se ammaccato dall'attuale flessione di consensi, che comunque passerà.

    A questi tre fattori, inattesi, se ne combina un quarto ben noto e anzi evidente: il pacioso Bersani stesso, che ha saputo rassicurare più o meno tutti. Domanda: quanti guai si sarebbe risparmiata la Repubblica se nell'anno 1989, quando cadde il Muro di Berlino, avessimo avuto questo neo-segretario democrat al timone del vecchio Pci? Dopo quattro lustri nei quali il peso del lavoro e del sindacato, del parlamento e della lotta tra le idee nella vita politica nazionale è giunto ai minimi termini, dopo tutto ciò lasciateci ora sperare almeno che la parola "società civile" cessi di essere assurdamente reinterpretata come una categoria fondamentale dell'anti-politica.

    Quale suo primo atto in veste di neo-segretario, Pier Luigi Bersani ha fatto visita lunedì ai lavoratori di Prato, per iniziare a picconare "il muro di gomma che c'è tra discussione politica, istituzionale, mediatica e la realtà sociale del Paese". Il nuovo leader del Pd si prefigge una correzione di rotta rispetto alla logica del consenso mediatico-plebiscitario. Come? Collocando l'accento programmatico sul concetto di alternativa che è l'orizzonte proprio di un'opposizione "capace di mandarlo a casa". Poi archiviando la logica bipartitica dell'autosufficienza. Ma anche rammemorando ai giovani "il senso della storia". E soprattutto reinsediando il partito "né liquido né gassoso" tra i ceti popolari. Bersani vuole un Pd che stia vicino alla gente normale: "I vecchi socialisti dicevano ai loro dirigenti appena eletti: tornate ai vostri posti di lavoro".

    Sulla tolda della nave ammiraglia del centro-sinistra italiano c'è dunque un "socialdemocratico", come spregiativamente l'hanno definito taluni suoi avversari? In teoria sì, perché lo stile non personalistico ("Dentro la vittoria di tutti, c'è anche la mia"), l'ossatura dalemiana dell'organizzazione e le alleanze internazionali del Pd a partire dall'eurogruppo nel parlamento di Strasburgo, confermerebbero quest'infamante accusa. In realtà, non sappiamo che tipo di leadership sarà quella uscita vincente dalle primarie di domenica scorsa. Certo è che essa pone la parola "fine" alla lunga e contrastata transizione del Pci. E questa è una buona notizia per tutti.

venerdì 23 ottobre 2009

Prossimamente

Qualcosa finirà per nascere, in Italia. O inizierà a finire.
di Andrea Ermano

Separazione delle carriere in magistratura, superamento del "bicameralismo perfetto", rafforzamento delle funzioni esecutive ecc. ecc. Prossimamente qualcosa finirà per nascere, in Italia. O inizierà a finire. Sarà la "grande riforma"? La "rivoluzione liberale"? Riuscirà, l'attuale premier ad avviare, ancora una volta per la prima volta, i suoi "vasti programmi"? Finora, nella lunga storia nazionale, l'unica "grande riforma" è stata la Controriforma, e la "rivoluzione liberale" un'opera generosa di Piero Gobetti, rimasta lettera morta.

    Nel caso specifico, occorre considerare attentamente i termini cronologici in cui il tragitto riformatore dovrebbe compiersi. Circa trenta mesi ci separerebbero dal traguardo, soprattutto se la "grande riforma" venisse condotta a colpi di maggioranza, come il premier ha già dichiarato di avere in mente. In tal caso, un paio d'anni di lavoro parlamentare sono il minimo sindacale, sempreché le modifiche costituzionali prospettate in questi giorni superino la "doppia lettura" presso entrambe le Camere nonché il fuoco di sbarramento dell'opposizione.

    Seguirebbe il ricorso obbligatorio al referendum confermativo. Il quale referendum può anche avere esito negativo. È già successo pochi anni or sono che una revisione costituzionale berlusconiana sia stata bocciata dalle urne (con il 38,68% di "Sì" contro il 61,32% di "No"). Come farà il premier a concludere in trenta mesi una via che in quindici anni non ha mai saputo percorrere fino in fondo? Il rischio di fallimento è evidente.

    Non sarebbe più semplice, per il centrodestra, cercarsi un leader meno carico di conflitti d'interesse e di contenziosi con la giustizia? Due o tre anni bastano appena per una riscrittura della Carta costituzionale, ma sono tanti e troppi per chi deve sopravvivere politicamente ai sondaggi, ai processi e anche alla conflittualità sociale che appare fisiologicamente destinata a manifestarsi. I talk show sul Posto Fisso non imbandiscono il desco a nessuno, ma semmai riflettono le fibrillazioni interne alla compagine di governo.

    In una triennale prospettiva di "grande riforma" non ci sono buone possibilità di tenuta per questa maggioranza. Ed è perciò che rispunta l'arma spuntata di (eventuali, ma improbabili) elezioni anticipate. Qualcuno a destra pensa di chiudere i conti interni? Per farlo, gli occorrerebbe una compattezza che, se ci fosse, renderebbe inutile l'operazione. Dopodiché non sta scritto da nessuna parte che l'attuale maggioranza, nel ricorso alle urne, vincerebbe la sfida. Insomma, è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un Caimano superare un Gattopardo nei sessanta metri a ostacoli. E così sia.

    Però, resta un fatto. Il Paese ha bisogno delle riforme. Ne ha moltissimo bisogno, anche se l'attuale premiership non sembra proporzionata alle sfide dell'epoca in cui viviamo.   

lunedì 12 ottobre 2009

Libero mandato in libero Stato

Può il Parlamento italiano consentire che si vada avanti così?

Un grande avvocato di parte governativa, nel difendere il "Lodo Alfano" di fronte all'Alta Corte, si è richiamato ai simboli elettorali delle ultime elezioni politiche. In essi, come si sa, era stato introdotto il nome del "candidato premier". Da tale norma "tipografica" il principe del foro ha voluto dedurre un'inedita figura del premier, riformata in via di fatto dalla legittimazione popolare diretta. E questa legittimazione reclamava, secondo il rappresentante legale del Governo, l'immunità prevista dal Lodo.

    Respingendo l'argomento di cui sopra, i giudici hanno stabilito che eventuali deroghe immunitarie al principio costituzionale di eguaglianza di fronte alla legge (Art. 3) possano essere introdotte non tramite schede elettorali di nuovo conio, ma solo dal Parlamento in via di diritto e quindi secondo tutte le laboriose procedure e verifiche previste dall'Art. 138 in materia di revisione costituzionale.

    Il premier ha reagito malamente alla bocciatura, attaccando diverse istituzioni della democrazia italiana, al grido di guerra: "Queste cose qua, a me mi caricano, agli italiani li caricano: viva l'Italia, viva Berlusconi". Insomma, a Berlusconi per governare l'Italia occorre: 1) poter legiferare anche ad personam, 2) anche seguendo procedure ordinarie su materie di attinenza costituzionale, 3) anche senza disporre di una maggioranza qualificata in Parlamento e ovviamente 4) anche senza doversi sottoporre al successivo giudizio referendario.

    Come dire che ogni istituto costituzionale è assorbito dal plebiscito a favore del premier, inteso come incarnazione della volontà popolare: "Viva l'Italia, viva Berlusconi".

    La   realtà supera la fantasia di un Nanni Moretti e di una Sabina Guzzanti: una deriva post-democratica che rischia ormai di condurre allo scontro di tutti contro tutti. Mentre sui teleschermi di mezzo mondo va in onda un premier italiano inquisito dai tribunali del suo paese e "sputtanato" dalle redazioni straniere.

    Le donne e gli uomini di buona volontà, impegnati a evitare lo strapiombo cui sembra avviata la "seconda repubblica" sanno tutti, ma proprio tutti, che la decisione ultima sul futuro dell'attuale premier e del suo esecutivo non spetta al momento né ai tribunali né alle piazze né alle banche né ai mass media né alla Curia vaticana e nemmeno agli altri governi amici. Per adesso l'arbitrato sul Governo e sul Presidente del Consiglio è anzitutto nelle mani del Parlamento italiano.

    Perché, se le regole valgono ancora, allora il Governo, premier incluso, "deve avere la fiducia delle due Camere". Perché in Italia la principale espressione politica della sovranità popolare è il Parlamento. E perché i parlamentari hanno il dovere costituzionale di esercitare le loro funzioni "senza vincolo di mandato". In modo particolare, la libertà del mandato parlamentare vale pienamente, anche se il premier ha inscritto il proprio nome e cognome nei simboli elettorali. Essa vige, anche se, nel contesto del cosiddetto porcellum, il premier ha "nominato" molti degli eletti. Vale e vige, anche se il premier abusa della decretazione, del voto di fiducia, di macro-emendamenti mostruosi e quant'altro. Vige e vale, anche se dall'Olimpo piovessero fulmini e saette, minacce d'elezioni anticipate, mobilitazioni di piazza e chissà quali altri sfracelli ("gli Italiani vedranno di che pasta son fatto!").

    La legge fondamentale della Repubblica affida il mandato parlamentare solo ed esclusivamente alla coscienza di ogni singolo deputato e senatore: "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione".      

martedì 6 ottobre 2009

Viaggetto da Atene a Roma senza pretese retoriche

Ad Atene il presidente dell'Internazionale Socialista, Georges Papandreu, ha vinto nettamente le elezioni anticipate, conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. Questo avviene a una settimana dalla vittoria del premier socialista portoghese José Sócrates. Per molti commentatori queste sono notizie di terzo piano. Ma secondo noi sbagliano. Ed ecco perché.

di Andrea Ermano

Gli avversari del socialismo in Italia ripetono in questi giorni che con la débacle della SPD si chiude "l'era socialdemocratica", definitivamente, irrevocabilmente. Forse perciò è stata considerata per lo più irrilevante, una settimana fa, la vittoria del premier socialista portoghese José Sócrates.

    Ieri, però, Georges Papandreu (per inciso, presidente dell'Internazionale Socialista) ha vinto nettamente le elezioni in Grecia, conquistando al suo PASOK la maggioranza assoluta dei seggi nel nobile parlamento in Atene. Notizia anch'essa secondaria, ribatteranno i nostri avversari, perché il dato determinante resta la crisi della SPD in Germania.

    Orbene, in Germania, un notevole passo in avanti, l'hanno realizzato i liberali di Guido Westerwelle, esponente del popolo omosessuale ed ora probabile ministro degli Esteri tedesco. Ma nella cattolicissima Baviera le cose non sono andate bene per i cristiano-sociali. Quindi, nella nuova maggioranza tedesca, si può anzitutto parlare di uno spostamento del baricentro, da posizioni prima un po' più tradizionaliste a posizioni ora un po' più libertarie.

    Inoltre, nel nord del paese, la CDU di Angela Merkel si è salvata grazie al bonus di credibilità personale dalla Cancelliera (luterana). E quindi anche gli equilibri confessionali all'interno dell'Unione (tra CDU bavarese e CSU) si traslano in senso un po' più laico.

    Infine, a sinistra, i Verdi e la Linke hanno parzialmente compensato le perdite della SPD, il cui gruppo dirigente è disarcionato da Oskar Lafontaine. Il Bundestag che ne esce, risulta così articolato in un'esigua maggioranza di centro-destra e una forte opposizione di centro-sinistra. E il secondo governo Merkel, che sul piano parlamentare è ovviamente più debole della  Grosse Koalition, si troverà adesso a dover fronteggiare una più intensa combattività sindacale ed ecologista, senza l'argine dell'ex alleato socialdemocratico, a sua volta all'opposizione.

    Posto che la SPD non cambi nome, ma gruppo dirigente, è prevedibile che si sviluppino nel tempo forme di collaborazione, oltre che con i Verdi, anche con la Linke di Lafontaine.

    Se salterà il preambolo ad excludendum contro la sinistra e acquisirà plausibilità una nuova alleanza Rosso-Rosso-Verde, questa potrà concorrere al governo del paese con serie probabilità di vittoria tra quattro anni.

    Duque, a ben vedere, quelle che giungono dalla Germania non sono propriamente delle buone notizie per quanti in Italia avevano sognato di portare a termine la deriva moderata del centro-sinistra.

    Si può capire che taluni commentatori puntino ora a presentarci Lafontaine come una sorta di piccolo demagogo post-comunista. Ma non è così. Stiamo parlando dell'ex governatore della Saarland, dell'ex presidente centrale della SPD, del candidato socialdemocratico che si batté contro Helmut Kohl nel 1990 (in piena unificazione tedesca) e che infine guidò la SPD alla riconquista della Cancelleria, portando Gerhard Schroeder al governo federale nel 1998.

    In realtà, Lafontaine è un socialdemocratico di sinistra da sempre. Ha coordinato la stesura del programma del partito negli anni Novanta. È stato ministro delle Finanze. Ed è uscito dall'esecutivo perché non condivideva il moderatismo del nuovo Centro socialdemocratico (così si chiamava la "Terza via" in Germania).

    Contro questa credenza (tuttora diffusa nostro Paese) secondo cui le battaglie elettorali si vincerebbero al centro, Oskar Lafontaine ha fondato nel 2005 una formazione, esplicitamente "di sinistra", che di lì a poco si chiamerà Linke (espressione tedesca che significa appunto "sinistra"). Dopodiché la Linke ha inglobato i post-comunisti di Gysi infilando in rapida sequenza un successo elettorale dietro l'altro, non solo nei Laender dell'Est, ma anche a Ovest.

     Dite quel che volete, ma da tutto questo traspare una notevole capacità di giudizio, coniugata a un'abilità tattica non del tutto trascurabile. Non accade spesso, infatti, che un ministro si dimetta perché dissenziente (e nel caso specifico il dissenso si riferiva alla linea neo-liberista, rivelatasi poi perdente). Né è da tutti riuscire a portare in quattro anni una formazione come la Linke al rango di quarta forza politica della terza potenza mondiale. Quindi, forse, non aveva completamente torto Willy Brandt nello stimare Oskar Lafontaine a tal punto da aver pubblicamente indicato in lui il proprio successore.

    Dopodiché, nei salotti televisivi di Berlino, dopo quanto successo in Grecia (dove la protesta giovanile ha provocato la crisi del governo conservatore e aperto la strada al ritorno dei socialisti di Papandreu), si discute, non senza preoccupazione, su come conservare "la pace sociale", così preziosa in Germania, a fronte della grave crisi economica in atto.

    Può la Germania imboccare la via della repressione sociale violenta? O procederà a una redistribuzione più giusta delle ricchezze? In effetti, la stessa domanda si pone in tutto il continente europeo, e anche fuor di esso.

    La posizione dei socialisti su questo punto è ben nota: a Madrid come a Berlino, a Parigi come a Londra, a Lisbona come ad Atene e nella maggior parte dei paesi liberi. Questi i fatti, a voi Roma.       

giovedì 1 ottobre 2009

Un bellissimo ricordo?!

La formazione socialista-ecologista "Sinistra e Libertà" si propone di restituire una adeguata rappresentanza politica al popolo progressista.

"La sinistra italiana è un bellissimo ricordo" – queste parole sarebbero state pronunciate da Daniel Cohn-Bendit a margine dell'assemblea nazionale di "Sinistra e Libertà" tenutasi recentemente a Napoli. Il giudizio dell'europarlamentare ecologista, per quanto adegua-tamente severo, non toglie nulla alla domanda di rappresentanza che pur persiste nel Pae-se, presso ampi settori di popolazione (in stato di auto-esilio interiore).

A Napoli una risposta a questa domanda di rappresentanza è stata ora imbastita da quel che resta delle organizzazioni socialiste, post-comuniste ed ambientaliste miracolosamen-te scampate al gran sisma veltrusconiano di due primavere or sono.

"Sinistra e Libertà" ha inaugurato un processo costituente che dovrebbe sfociare nella fondazione di un partito unitario -- del lavoro, dell'ambiente e della laicità. Fava, Nencini, Grazia Francescato e Vendola -- in rappresentanza di SD, PS, Verdi ed ex-PRC -- hanno convenuto di unire le forze. Chissà che a loro non riesca di doppiare quel "Passaggio a nord-ovest" finora bloccato da ghiacci che però, ha detto Mussi, "prima o poi dovranno rompersi".

Finora tutte le operazioni analoghe sono fallite, risolvendosi (come nel caso, plateale, del PD) in altrettante "fusioni a freddo". Ma stavolta c'è un'anima socialista-ecologista nel progetto che mostra una sua intrinseca plausibilità, non fosse altro che in relazione alla crisi economica globale e all'emergenza climatica. A ciò s'aggiunga la drammatica eclisse civile italiana… Potrebbe dar innesco a un Ricominciamento.

Per quel che concerne i socialisti, su cui qui ci soffermiamo per ovvie ragioni, Riccardo Nencini, pur rivendicando con molto orgoglio le sue nobili ascendenze politiche, si dichi-ara in linea di principio disposto confluire in "Sinistra e Libertà", con il PS al pari delle altre componenti cui accennavamo.

Questa "cessione di sovranità", nel "bi-porcellum" stile Terza repubblica, è probabil-mente senza alternative. Ma può rivelarsi una scelta persino lungimirante, se a livello con-tinentale si rafforzasse (come noi auspichiamo) un'alleanza tra ecologisti e socialisti delle varie tendenze… E tra le varie tendenze socialiste ci si consenta d'includere anche forma-zioni come la Linke tedesca: non che si debba convenire su ogni singolo contenuto, per carità. Ma appare ormai abbastanza evidente che un riposizionamento "più a sinistra" dell'intera socialdemocrazia europea è davvero necessario, a partire proprio dalla SPD, che ieri ha subito la più amara sconfitta del Dopoguerra a causa del suo eccessivo mode-ratismo sociale. Nei prossimi giorni le dimissioni del presidente Münterfering chiuderan-no l'ormai decennale tenzone con Lafontaine inaugurando una nuova fase dei rapporti tra SPD e Linke.

Si parva licet, Nencini sembra aver afferrato il nervo epocale (il che è ovviamente più facile per una formazione politica di dimensioni assai modeste), ha lasciato che De Mi-chelis seguisse il suo ormai consueto pendolariato governativo, approntandosi senza ec-cessivi traumi ad inalveare il PS nel nuovo soggetto unitario. Il che significa, però, sia pure tra mille clausole e subordinate, che si staglia ormai all'orizzonte l'auto-scioglimento del partito.

Non sarebbe la prima volta che in Italia viene meno una presenza dichiaratamente soci-alista, organizzata in modo autonomo, organicamente collegata alla grande famiglia del socialismo internazionale. Il Partito Socialista Italiano "quattro volte parve stroncato dai nemici suoi, dai nemici della classe lavoratrice – nel 1894, nel 1898, nel 1915 e nel 1925", scriveva Faravelli sulla "Critica Sociale" qualche tempo dopo la Liberazione.

Come a dire che non siamo al trionfo postumo del fusionismo nenniano prima maniera, che il socialismo italiano è sempre rinato e che insomma bisogna aver fiducia nelle proprie idee. La preoccupazione semmai è altra. Perché l'esperienza storica ci segnala che queste costellazioni di discontinuità politico-organizzativa dello schieramento socialista finora non sono state di buon auspicio per il Paese. Quei quattro anni horribiles cui rinvi-ava Faravelli si contraddistinguono per ragioni che sono presto dette: stato d'assedio, stato di guerra, dittatura.

Crispi nel 1894 proclama in Sicilia lo stato d'assedio contro un movimento popolare che chiede alcune riforme sociali e fiscali che oggi noi considereremmo ovvie e scontate. Morti, feriti, arresti e processi.

Nel 1898 lo stato d'assedio viene invece proclamato a Milano contro la protesta popola-re per l'aumento del pane. Il generale Bava Beccaris prende a cannonate la folla, ammaz-zando ottanta manifestanti e ferendone un mezzo migliaio.

Lo stato di guerra entra in vigore nel 1915 nell'illegalità costituzionale. Il Parlamento, maggioritariamente contrario alla belligeranza, viene esautorato dal governo e da Vittorio Emanuele III, che con accenti pre-totalitari proclama: "Cittadini e soldati, siate un esercito solo! Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradi-mento". Seicentocinquantamila morti. Seicentomila dispersi. Novecentoquarantasettemi-la feriti. E poi il fascismo.

Nel 1925 risuona sotto l'Arco di Tito uno tra i più famigerati discorsi della non breve storia italiana. Il Duce, pubblicamente, esplicitamente, avoca a sé ogni responsabilità "storica, morale e politica" dell'assassinio di un parlamentare in carica, il leader dei socia-listi riformisti Giacomo Matteotti, barbaramente ammazzato a coltellate dopo inenarrabili sevizie.

Inizia così, in tutta ufficialità, la dittatura mussoliniana. Dopodiché il fascismo si dif-fonde nel Vecchio continente, grazie anche all'abilissimo sostegno della diplomazia vati-cana. Le armate della rivoluzione conservatrice si mettono in marcia per restaurare il "Sacro Romano Impero". Poi fanno quel che fanno. Guerra di Spagna. Leggi Razziali. Seconda guerra mondiale. Shoah.

Per nostra postera fortuna, quei tempi remoti di disumanizzazione assoluta sono oggi "soltanto" l'orrido oggetto di una memoria che non può né deve passare. Ma non è che, in tutta sincerità, possiamo dirci completamente tranquilli. Perciò spezziamo decisamente una lancia a favore dell'impegno politico e del coraggio civile. Avanti, compagni!


L'Avvenire dei lavoratori

Prima dell'imminente pausa estiva, che abbiamo posticipato a causa di una panne informatica, vorrei misurarmi con un compito facile in apparenza. Vorrei interrogarmi sui tempi in cui viviamo.

Importanti scuole di pensiero disputano circa la possibilità di conoscere i "tempi", non da ultimo perché questi ci si muovono sotto il naso, continuamente. E si tratta di un movimento magico, a ben vedere, dato che la dinamica dei "tempi" evolve in funzione dei pensieri che produciamo, e delle loro conseguenze.

Per una magia (una grande magia, l'unica vera a me nota) sembra che noi influenziamo i tempi in cui viviamo, e viceversa.

Noi stiamo di fronte ai nostri tempi come dinanzi a uno specchio vertiginoso, nel quale troviamo riflesso il nostro Esserci. E d'altronde, se la parola "tempo" è un altro nome per "esistenza", pare fin quasi ovvio che i tempi in cui viviamo ci rimandino a noi stessi. Il che potrebbe facilitare le cose; se non le complicasse. A ragione, infatti, gli studiosi dell'animo umano ci ammoniscono sull'opacità dell'Io, che nel caso specifico è l'opacità di tutti noi rispetto a noi stessi.

Non è dunque facile districare i termini della questione. Ma anche se lo fosse, e se il tempo e la vita e noi medesimi ce ne stessimo immobili, come le belle statuine, a recitare un fermo immagine assolutamente chiaro e nitidissimo, beh, anche in tale ipotesi assurda, chi mai potrebbe dire qual razza di epoca è quella in cui siamo capitati?!

Per esempio, negli ultimi venticinque anni un’intera generazione, proclamatasi libertaria nella sua rivolta tardo-adolescenziale meglio nota sotto il nome di "Sessantotto", si è convertita in massa, o quasi, al liberismo selvaggio: ora va in quiescenza tra le molte macerie, inscritte in una trista parabola dominata dall'avidità. Persino a sinistra (o, se si preferisce, nel centrosinistra) il ben noto entusiasmo dei neofiti ha scatenato un'onda di nuovismo cinico. Questo è accaduto, non solo in Italia, ma in mezzo mondo.

Ieri burocrati moscoviti, oggi boss multimiliardari: ecco la Russia post-comunista. Dall'altra parte dello stretto di Bering il far west dell'edonismo finanziario è giunto allo strapiombo: ecco l'America para-liberale. E intanto nella Commissione di Bruxelles (a egemonia para-socialista e a guida prodiana, ahinoi) si puntava sul lucroso allargamento a est, suicidando la costituzione europea.

Macerie su macerie.
Mentre nell’ultimo quarto di secolo assistevamo attoniti a questo spettacolo, i problemi demografici, ecologici, sociali, economici, politici e strategici seguivano il loro corso. Siamo così capitati in questi nostri tempi di grandi aumenti. Aumenta la popolazione terrestre, aumenta la temperatura globale, aumentano le ricchezze dei ricchi e il numero degli affamati, aumentano qua e là i timori, le paure, le tensioni, i conflitti. Aumenta anche lo stupore verso la generazione di Woodstock, e mi ci metto dentro anch'io, che gestisce decine e decine di interventi militari ovunque nel mondo. Quante floride occasioni di profitto per la mafia delle armi, della droga e dei clandestini!

Insomma, le risorse morali e naturali sono quel che sono, per lo meno nel cosiddetto Occidente, sia esso di vecchio o di nuovo conio. Dobbiamo confessarlo con un granello di sincerità: le nostre prospettive non paiono propriamente rosee. Ma tant'è, cosiffatta si presenta la situazione dei tempi in cui viviamo. Fino a prova contraria.

Va da sé che sarebbe consigliabile uscire da questa situazione, e in fretta. Non è facile, ma almeno un’epoca del consenso ipnotico, dominata dal liberismo selvaggio, è finita (con la nazionalizzazione delle banche, quelle non fallite), mentre affondava nell'ignominia l'Armada Invencible di pennivendoli che ci hanno ripetuto fin oltre la nausea che il "libero" mercato si regola benissimo da sé... quanto meno fino a quando non servono le montagne di pubblico danaro per riempire spaventose voragini speculative.

Quanto tempo sprecato!
Beninteso, il mercato non può essere facilmente regolato, nemmeno a volerlo, perché il sistema d’interscambi ha carattere mondiale mentre i possibili meccanismi di controllo raggiungono (al più) il livello continentale. Ma si sa da un bel po' che l'anarchia capitalista agisce come una variabile impazzita, protesa a saccheggiare le risorse planetarie (di tutti) trasformandole nella ricchezza (di pochissimi).

Dunque, la necessità di un'istanza capace di regolare il "libero" mercato, prima che esso ci ammazzi tutti, si riassume nel "problema cosmopolitico": articolare una governance del mondo globalizzato. Vogliamo ricominciare a parlarne?

Ci fu un'Età dei Lumi nella quale il sommo Kant arditamente teorizzava una federazione cosmopolita delle nazioni a tutela della pace. Oggi la necessità di rafforzare l'ONU si direbbe un'evidenza piuttosto diffusa. In questo senso la costruzione europea potrebbe rivelarsi una miniera di tecnologie istituzionali assai utili alla Cosmopolis. E chissà che un asse USA-Cina non possa svolgere nel mondo un ruolo propulsivo analogo a quello franco-tedesco nell'Europa del Dopoguerra. Auguriamoci che i due giganti del Pacifico si accordino per contenere le emissioni di gas serra. Perché il tempo vola.

Sul sito di Radio Radicale ), è disponibile la registrazione del discorso tenuto da Carlo d'Inghilterra a Monte Citorio circa l'urgenza di evitare l’irreversibilità del surriscaldamento climatico. Nel discorso (durato non più di mezz'ora) viene sottolineato che restano circa novanta mesi per agire: novanta mesi votati (comunque) a cambiare il mondo.

Una delle possibili misure riparatorie sta verosimilmente nella produzione di energia tramite impianti solari da costruire nei deserti. Un'altra tecnica potrebbe venire dall'immissione nell'atmosfera di scudi nuvolosi capaci di schermare parte dell'irradiazione termica. Alcuni studiosi propongono poi una massiccia coltivazione di alghe marine atte ad assorbire grandi quantità di anidride carbonica. La lista delle tecniche finalizzate a contenere il surriscaldamento è destinata ad allungarsi, ma il primo posto in classifica rimarrà saldamente riservato a una techne molto speciale, che gli antichi chiamavano politikè.

Ricordiamolo: l'arte della politica è rimasta al centro della polis – prima, durante e dopo la lunga transizione storica dalla città-stato allo stato nazionale. E così sarà anche nella Cosmopolis, se Cosmopolis sarà.

Arte politica – o per meglio dire: cosmopolitica –significa capacità, necessariamente collettiva, di costruire una grandissima rete che però non si smaglia: capacità cioè di sviluppare un ragionevole grado di coordinazione generale umana, nel rispetto delle realtà locali e della pluralità culturale, pena il conflitto e quindi la catastrofe (perché il tempo fugge).

"Noi, il genere umano, siamo giunti ad un momento decisivo", diceva qualche tempo fa Al Gore, già vice presidente degli USA e premio Nobel per la pace: "È inaudito, e fa perfino ridere, pensare di poter davvero compiere delle scelte in quanto specie, ma è proprio questa la sfida che ci troviamo davanti".

E allora la domanda che, per concludere, ci poniamo riguarda la soggettività di questo grande discorso (e percorso) di scelte collettive a venire. Si dirà che il soggetto è qui il genere umano, il quale però non entra in scena come un soggetto "già dato". L'Umanità è il fine, la sfida, il compito. L'Umanità come soggetto politico si compie con il costituirsi della Cosmopolis. Ma lì bisogna prima arrivarci.

E dunque domandiamocelo: quali soggetti avrebbero la capacità di sostenere questo cammino verso l'Umanità? Poiché stiamo parlando di soggetti a dimensione internazionale, potremmo elencare: la comunità economico-finanziaria, le grandi religioni e la comunità scientifica. Tuttavia, queste comunità non s'intendono propriamente come soggetti politici.

Al più tardi a questo punto, constatiamo che è del tutto impossibile rimuovere dal video il maggior raggruppamento umano organizzato, la cui soggettività nacque un secolo e mezzo fa con chiara vocazione politica globale: Workers of all countries unite! – "Lavoratori di tutto il mondo unitevi!".

Girate pure la scacchiera come vi pare, il soggetto centrale della Cosmopolis sono le lavoratrici e i lavoratori con le loro organizzazioni. Oggi più che mai. Questa tesi sorprende anche me, tanto sembra polverosa. E mi rendo ben conto che non può destare l'entusiasmo né del sistema mediatico-pubblicitario-finanziario né delle varie caste sacerdotali di cui abbondiamo ovunque nel mondo. E però così è. Fino a prova contraria.

Molte esperienze storiche, esaltanti e terribili, si sono susseguite nell'alveo dell'Associazione Internazionale dei lavoratori sorta nel 1864 a Londra per iniziativa di Karl Marx. Quella soggettività si articola oggi in una vastissima rete globale di sindacati operai, partiti socialisti e democratici, movimenti cooperativi, fondazioni politico-culturali e mille altre istituzioni.

Folle sarebbe pensare che la Cosmopolis possa costituirsi senza le lavoratrici e i lavoratori di tutto il mondo. Perché il tempo incalza.