martedì 21 dicembre 2010

E DOPO ?

Editoriale di Andrea Ermano - sabato 18 dicembre 2010

Laddove il vascello nazionale andasse a frantumarsi tra i marosi della mondializzazione, i poteri forti perderebbero una bella cuccagna di privilegi, e giustamente si preoccupano, cercando una via d’uscita. Evitare il naufragio dell’Italia risponde d’altronde anche agli interessi prevalenti del popolo lavoratore e della comunità internazionale. Di conseguenza, è ancora dato sperare che il nostro paese riesca, con un qualche misterioso guizzo di genio, a scansare lo schianto.

“Il governo mangerà il panettone, ma non la colomba”, prevede il leghista Calderoli. “Lui” invece assicura di poter arrivare a fine legislatura. “Lui” è Silvio Berlusconi che, a margine del Consiglio europeo di Bruxelles, si è definito “l’unico boss virile”, come suona l’anagramma del suo nome. Tra Bossi e il “boss virile” si preannuncia, così, un conflitto d’interessi che prima o poi potrebbe determinare il crac dell’attuale maggioranza.

Fin dai tempi antichi si sa che ogni determinazione pone fine a qualcosa, ma dà inizio a qualcosa d’altro. E, dunque, in questi istanti finali, in questo sbrindellato minutaggio di recupero nel secondo e ultimo tempo supplementare del berlusconismo, che cosa, di grazia, sta cominciando?

Può darsi che, per conservare l’unità nel centocinquantesimo dalla nascita dello stato italiano, il nostro establishment punti allo smontaggio della Lega, sempre più simile del resto a un residuato bellico inesploso. Nel Carroccio oscuramente lo intuiscono. Infatti, non chiedono altri ministeri (come pur potrebbero), ma elezioni anticipate, onde mettere in sicurezza il capitale di consensi prima della tempesta.

Se il cedimento strutturale del governo avvenisse non subito, ma tra un paio di mesi, potrebbero mancare i margini per elezioni anticipate prima dell’autunno prossimo. Una continuazione della legislatura con altro premier favorirebbe a quel punto il parto di un governo di “responsabilità nazionale”. Parto lieto ad alcuni, ma doloroso ad altri, perché ogni nuova maggioranza – inevitabilmente imperniata sui terzopolisti di Fini, Casini e Rutelli – innescherebbe una serie di spaccature sia nel campo del PDL, sia in quello del PD, incluse le file padane e dipietriste: i moderati di ogni schieramento convergerebbero verso il centro.

Ci stiamo avvicinando al bivio. Il tentativo gattopardesco di scaricare l’intera crisi di sistema sulla politica, affinché l’assetto di potere rimanesse immutato, dovrà lasciare il posto a riforme vere. E qui sorgono le preoccupazioni più serie, perché riforme vere presupporrebbero, diciamo così, una “decrescita” dei poteri forti, una loro capacità di autoriforma, per la quale non si ravvisano moltissimi precedenti storici.

Le gerarchie vaticane preferirebbero tirare a campare, almeno per un po’, senz'ancora uscire dal berlusconismo. E dopo?

Che le necessarie riforme possano realizzarsi grazie a una nuova maggioranza di responsabilità nazionale imperniata sul neo-centrismo è ipotesi tutta da verificare. L’abitudine storica delle corporazioni di delegare ad altri ogni sforzo e rinuncia lascia temere l’insorgere di gravi tensioni sociali. Forse è proprio questo ciò che si attende da parte di lor signori per scatenare poi una reazione d’ordine. Non sarebbe la prima volta.

E a sinistra? Che si fa? Quando gli ultimi neo-centristi avranno abbandonato la sinistra al suo destino per non morire socialisti, resterebbe una possibilità: iniziare ora, adesso, subito, a lavorare per una solida alternativa politica. Occorre un'alleanza neo-frontista, sul genere di quella stipulata tra Pietro Nenni e Palmiro Togliatti. Si dirà che fu l’Errore degli Errori perché, all'inizio della guerra fredda, consegnò il popolo di sinistra a un lungo destino di opposizione. Vero, ma la guerra fredda non c’è più.

Una sinistra capace di candidarsi domani al governo del Paese, anche se ciò oggi non si annuncia come un obiettivo immediato, andrebbe a costituire una preziosissima riserva di democrazia, soprattutto quando il disegno neo-centrista, emergente dietro la fine dell’era berlusconiana, esaurisse (prevedibilmente) la propria spinta propulsiva lungo i tornanti di una turbolenza globale che, questa sì, non guarda in faccia a nessuno.

(18.12.2010)

Il problema si sposta ora a sinistra

Editoriale di Andrea Ermano - sabato 11 dicembre 2010
Un anno fa, in qualsiasi città europea, ci prendevano in giro per via del “lettone di Putin”, le escort, le minorenni ecc. Ma nei dodici mesi trascorsi l'establishment italiano ha compiuto notevoli progressi sul solco della sua perversione.

Tariffe parlamentari. E voti di fiducia.
Brindisi vaticani alla salute di Silvio il Munifico, che Iddio ce lo conservi. E miliardi di euro al clero.
Mutui. Promesse. Candidature. Sottosegretariati. E deputati migranti da gruppi di parvenu a gruppi di parvenu.
Notizie che fanno due o tre giri del mondo.
Quando la “sindrome weimariana” giunge alla fase dello scatenamento cinico, i furbi cancellano ogni tributo (ormai inutile, pensano loro) del vizio alla virtù.

Oggi, in qualsiasi città europea, appena apprendono che sei italiano, gli vedi calare una velatura sugli occhi. Hai come l’impressione che si vergognino per noi.

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Esca o meno confortata da fragili basi parlamentari, e a quale prezzo, la reputazione dell’attuale premier è pari solo alla coesione del centro-destra. Un’anatra zoppa.

Il problema si sposta, ora, nel campo della sinistra, la cui strategia non può che consistere nel perseguimento di una sua minima unità, sia pure nell’orizzonte plurale dei soggetti socialisti, ecologisti e liberaldemocratici che vogliono concorrere al governo del Paese.

Per fare questo, occorre imprimere una decisa spinta neo-frontista alle dinamiche politiche della sinistra italiana.
Le grandi mobilitazioni popolari che continuamente si sono succedute in questo lungo autunno (e che fortunatamente si susseguono mentre scriviamo: oggi è il giorno di Bersani) costituiscono il bandolo dell'intricata matassa.

Se questo ciclo di mobilitazioni continuerà e se saprà rimanere dentro la logica pacifica che finora è sostanzialmente prevalsa – e a tal fine bisogna guardarsi da ogni violenza, foss’anche soltanto verbale – allora in Italia matureranno le condizioni per quell’alternativa di sinistra che attendiamo da una vita e che è assolutamente necessaria alla salute della nostra democrazia. (11.12.2010)

Ad agio

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 dicembre 2010

Motus in fine velocior. Non lo dico io. Lo dice l’adagio. E c’è del vero. Ricordate quell’esilarante ricostruzione che un sommo scienziato (Gerd Binnig?) fornì una volta a Scientific American circa l’accelerazione gravitazionale? La caduta di un “grave” veniva descritta in chiave parodistica come una tresca di animali selvatici in fregola nella stagione degli accoppiamenti. A conclusione della tresca, invece di accoppiarsi, il proietto, soggetto a forza di gravità, si spiaccicava per terra.

Nelle storie di catastrofi politiche, quando la memoria retrocedente s’applica a ricomporre ciò che fu, o non fu, sempre finisce per focalizzarsi un fenomeno accelerativo: “Credemmo di avere più tempo a disposizione”, dicono i reduci per descrivere la dinamica di un appuntamento, mancato, con la storia.

Per esempio? Pensate alla caduta del Muro di Berlino. Che colse quelli della mia generazione tutti impreparati. Pensammo che Gorbaciov e l’impero sovietico non potevano liquefarsi in quattro e quattr’otto.

Come invece fu.
Nacque allora la Seconda Repubblica.
Ma nacque davvero? Massimo Cacciari ci propone di espungere dal lessico quest’infausta espressione dal sapore di porcata.

L’ordinalità di una repubblica (prima, o seconda, o terza che sia) presupporrebbe qualche efficacia costituente, che restò a noi preclusa per l’inanità di un’intera classe dirigente (cioè di noi stessi).

Noi disfacemmo un sistema politico per farne un altro, e migliore. A parole. Ma poi, in realtà? Dov’è la Seconda Repubblica?

Il nostro naufragio somiglia a quella commedia musicale di Daniel Rohr, ispirata ai Pink Floyd, con quattro astronauti dispersi nello spazio.

Molto indignati.
Uno di loro, a un certo punto, mentre schizza via con una velocità di ventimila chilometri al secondo, declama con voce stentorea: “Ma devono venire a prenderci! Non possono mica lasciarci qui!”

Come no.
Qui dove?
Ammesso e non concesso che uno volesse fare la propria parte per salvare la patria nei centocinquant’anni della sua esistenza – esistenza un po’ garibaldina, un po’ brigantesca, un po’ pilatesca, ma anche un bel po’ pretesca e alquanto cannibalesca – ammesso e non concesso: fatto sta che la navicella della res publica è stata frantumata da un piccolo meteorite staccatosi dalla Costellazione del Muro nel novembre dell'Ottantanove.

Noi – vivi grazie alle nostre tute pressurizzate di fabbricazione cino-americana – stiamo sfrecciando, senza scopo né costrutto, verso l'infinito.

Ma, ecco di laggiù, nel nulla interstellare, ecco che inizia a brillare una lucina. Durante il corso della narrazione apprenderemo trattarsi dell’astronave CEI, comandata dal card. Ruini, abilissimo ammiraglio dello spazio, fermamente deciso a soccorrere la sua Italia, quella stessa Italia che aveva contribuito a radere al suolo.

Che farà?
Accudirà Berlusconi come una brava genitrice? O gli scatenerà addosso la lupa famelica?
Forse neppure Dio lo sa, sempre che esista e s’interessi del nostro Paese troppo lungo.
Verosimilmente, anche a questo giro di boa della storia, più di qualcuno avrà sbagliato i suoi calcoli. Tanto più che le dinamiche spesso non consentono di essere calcolate, e quelle politiche men che meno. Perciò, faccia ora ciascuno quel che deve. E succeda quel che può. (3.12.2010)

giovedì 2 dicembre 2010

Punire Welby, vivo o morto

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 26 novembre 2010
È di queste settimane la notizia secondo cui Papa Benedetto XVI ha costituito un nuovo dipartimento vaticano finalizzato alla rievangelizzazione dell’Europa. A capo c’è, fresco di nomina, monsignor Fisichella, già presidente della Pontificia Accademia della Vita.

Un primo saggio di rievangelizzazione a favore della “Vita” ci è stato fornito dal quotidiano Avvenire sul caso di Mina Welby, rea di avere ricordato suo marito, Piergiorgio, con Roberto Saviano e Fabio Fazio alla trasmissione televisiva “Vieni via con me”.

Chi era Piergiorgio Welby? Un uomo completamente paralizzato dalla distrofia muscolare progressiva, costretto a vivere con una perforazione della trachea dove gli era fatta passare l’intubazione di collegamento al respiratore automatico, giorno e notte, giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Mai e poi mai Piergiorgio aveva desiderato ritrovarsi in questo stato. E, in base alla Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario” (Art. 32), chiedeva che gli si “staccasse la spina”. Ci furono aspre polemiche, da parte delle gerarchie cattoliche: "Diabolico inganno!", tuonò il Consiglio episcopale permanente.

Il malato fece recapitare una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano e, dopo molte peripezie, il 20 dicembre del 2006, oltre nove anni di accanimento terapeutico alle spalle, prese congedo dai suoi parenti e amici. Chiese da ultimo di ascoltare una canzone di Bob Dylan. Poi fu sottoposto a narcosi, secondo la sua volontà. Il respiratore venne staccato. E Piergiorgio Welby, dopo alcuni minuti, si spense.

Non si spensero, però, le polemiche vaticane. Al punto tale che il Vicariato di Roma vietò alla famiglia le esequie in chiesa. E ora bisogna rincarare la dose, visto che Mina ha raccontato la sua storia in tv. Il giornale dei vescovi italiani chiede che, nella stessa trasmissione, sia data la parola anche alla “cultura della vita”, dopo che la si era concessa alla “cultura della morte”.

Tutti gli osservatori si stupiscono della presenza straripante della Chiesa nella tivù italiana, ma in effetti è possibile che ce ne sia ancora troppo poca, date le condizioni in cui versa il Paese non ostante cotanto magistero morale.

Evidentemente, c’è ancora chi ritiene di dover bucare l’esofago alle persone distrofiche, anche se dissenzienti, onde tenerle attaccate a dei respiratori artificiali per anni.

Domanda: E se uno dissente in nome della sua libertà personale?
Risposta: Niente funerale.
Ma, scusate, seppellire i morti non era la "settima opera di misericordia corporale"?
Certo, ma ormai questo è lo stato della nazione. Come nella famosa scena nel Dottor Stranamore di Kubrik, la scena con il saluto romano che emerge con prepotenza compulsiva dal braccio artificiale, così nel catechismo dell'Italia rievangelizzata di oggi s'è aggiunta un'ottava opera: "Punire Welby, vivo o morto".

Evoluzione più benigna ?

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 settembre 2010
L'Italia non solo avrebbe necessità di superare il “porcellum”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese. Ecco perché.

La traiettoria assunta dal conflitto d’interessi nel corso delle note violenze mediatiche estive guidate dal presidente del Consiglio contro il presidente della Camera evoca per certi versi quella celebre Locomotiva di Guccini, “lanciata a bomba” contro la terza carica dello Stato. Con tragicomica confusione dei ruoli, però, dato che qui, nelle vesti dell’attentatore suicida, entra in scena non un macchinista proletario, ma uno zar miliardario.

A evitare la deflagrazione istituzionale finale è soccorso a mezza estate il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, garante dei residui equilibri tra poteri dello Stato. E contro di lui, in nome di una legge elettorale nota nella letteratura politologica sotto il nome di “porcellum”, il premier ha rivendicato la facoltà di porre fine alla legislatura quando il suo esecutivo finisse sfiduciato.

Ora, il “porcellum” prevede soltanto che le coalizioni candidatesi al governo del Paese depositino un programma e il nome di un leader. Nello spazio logico del Cavaliere questo significa però che, qualora egli perdesse la maggioranza in Parlamento, ciò comporterebbe il divieto alle forze politiche di formare una nuova maggioranza e, soprattutto, l’obbligo per Napolitano di chiudere la legislatura indicendo elezioni anticipate.

Che ne è del presidente della Repubblica e dei suoi poteri (tra cui quello d'indire o meno nuove elezioni)?
Nello spazio logico del Cavaliere, le prerogative del Capo dello Stato vengono liquidate alla stregua di meri “formalismi costituzionali”. Nello spazio logico del Cavaliere, il “porcellum” – che è una legge ordinaria – vale quanto e più di una riforma costituzionale poiché pretende di revocare una delle principali attribuzioni del Capo dello Stato. Eppure su questo argomento il “porcellum” stesso recita così: “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica” (Art. 3).

Tenendo fermo quest'ultimo punto, si capisce che è la coalizione vincolata al suo leader e, viceversa, il leader vincolato alla sua coalizione, ma il presidente della Repubblica resta il presidente della Repubblica.

Se, per esempio, i finiani uscissero dalla maggioranza e mettessero in minoranza Berlusconi, la coalizione in quanto tale non esisterebbe più. E il leader, vincolato a essa, avrebbe il dovere di farsi da parte. Perché il vincolo del “porcellum” pertiene al leader e alla sua coalizione. Mentre non impegna, né può in nessun caso impegnare, il Capo dello Stato. E non impegna nemmeno le due Camere in quanto ogni parlamentare, per la Costituzione, rappresenta la nazione “senza vincolo di mandato”.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o quelle delle due Camere o dei parlamentari in esse) occorre modificare la Costituzione. Per farlo, senza dover sottoporre poi il nuovo testo a verifica referendaria, non bastano le maggioranze semplici e quindi non bastano né i numeri del centro-destra attualmente al governo né quelli del centro-destra al governo nel 2005, anno in cui fu approvato il “porcellum”. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le varie maggioranze di centro-sinistra guidate da Prodi, D’Alema, Amato e poi ancora da Prodi. E identicamente varrebbe per Bersani se fosse lui a portare il nuovo Ulivo al governo.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o delle due Camere o dei parlamentari in esse) l’Art. 138 della Legge fondamentale esige una maggioranza qualificata dei due terzi.

Il “porcellum” – ben lungi dal possedere questo grado di legittimazione – è solo una legge ordinaria, approvata da una maggioranza semplice che a sua volta è espressione di una coalizione uscita vincente dalle urne dopo avere semplicemente raccolto più voti di altre liste o coalizioni: una “maggioranza relativa”. Ma una “maggioranza relativa” che, in forza di meccanismi elettorali, sia stata trasformata in “maggioranza assoluta” nel Parlamento, resta non di meno minoranza nel Paese. Ha sì titolo per governare, ma certo non per cambiare la forma e i principi dello Stato.

Da quanto detto consegue, a fil di logica, non solo la necessità di superare il “porcellum”, che come ebbe a dire il suo stesso autore è una vera “porcata”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese capaci di suscitare il consenso dei due terzi del Parlamento intorno a una nuova legge elettorale.

È questa la strada che l’Italia imboccherà, come spera Napolitano, “verso un’evoluzione più benigna” della vicenda politica? Sembra quasi impossibile. Eppure, un governo di larghissime intese, impegnato su una legge elettorale equa e adeguatamente condivisa, rappresenterebbe un bel passo avanti nel cammino delle riforme necessarie al Paese. (3.9.2010)

Alcuni ircocervi stanno galoppando

Editoriale di Andrea Ermano - Venerdì 9 luglio 2010
Si accumulano in Italia i segnali di una discontinuità politica lungamente preannunciata. Se essa avverrà per davvero e in che modo, se essa ci condurrà a un governo di responsabilità nazionale o a elezioni anticipate oppure a un temibile vuoto di potere, nessuno lo sa.

Tanto vale occuparsi allora di questioni fondamentali. Perciò questa settimana tratteremo di verità: serenamente, pacatamente.

A modesto parere di chi scrive la nozione di verità si suddivide in quattro concetti. Eccoli.
Se, in primo luogo, affermiamo per esempio: "alcuni capricervi stanno galoppando", questo è vero a due condizioni: che ci siano effettivamente degli animali chiamati "capricervi" e che, laddove esistano, ce ne siano alcuni effettivamente al galoppo.

Invece, dire "due capricervi al galoppo più due capricervi al galoppo fanno in tutto quattro capricervi al galoppo", è vero a prescindere dal fatto che esistano i capricervi. E francamente non interessa nemmeno se i quattro animali, reali o immaginari che siano, stiano effettivamente galoppando. Basta che siano quattro. In questo caso facciamo dipendere la verità da certe regole matematiche.

"È impossibile che in questo preciso istante il mio capricervo stia galoppando e contemporaneamente non stia galoppando". Questo è vero di per sé, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, purché le parole usate abbiano ciascuna un significato definito e univoco.

I tre concetti di verità fin qui esemplificati sono noti anche sotto il nome di: 1) "corrispondenza", 2) "coerenza" e 3) "evidenza". Ne manca uno.

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Ai tre concetti di verità cui abbiamo accennato se ne aggiunge un quarto, che possiamo chiamare "consenso" e che svolge un ruolo molto importante nelle vicende umane, perché il consenso è fondamentale quando ad esempio si attribuisce un nome alle cose e un significato alle parole.

Per esempio, il binomio ideale "Giustizia e Libertà" è stato definito da Benedetto Croce un "capricervo". Il filosofo, che era un dotto professore liberale, potrebbe avere utilizzato con i suoi assistenti anche l'espressione latina "hircocervus", che a sua volta proviene dal greco "tragelaphos", termine coniato da Aristotele all'inizio del suo scritto sull'arte della traduzione.

Italiano, greco o latino che sia, il senso di queste espressioni (affini in tutte le lingue in cui è stato tradotto lo scritto aristotelico cui accennavamo) implica sempre lo stesso concetto: una specie di animale tra il capro e il cervo.

Aristotele aveva coniato questa parola, per esemplificare un'espressione dotata di un senso trasparente: chiunque nell'Atene dell'epoca capiva che "tragelaphos" allude a una specie di animale tra il capro e il cervo. Ma nessuno sapeva dire se questa espressione indicasse un animale che esiste realmente.

Ma, insomma, il capricervo, ircocervo o tragelafo che dir si voglia esiste o non esiste?
Per rispondere bene a questa importantissima domanda, bisogna aggiungere che Aristotele dubitava dell'esistenza dei tragelafi tanto quanto Benedetto Croce denegava la possibilità stessa di un socialismo democratico europeo fondato sul binomio ideale della Giustizia e della Libertà.

Per il liberale Croce non si poteva nemmeno lontanamente concepire una comparazione della Giustizia con Libertà. Eppure alcuni giovani, e non i peggiori, compararono. Eccome se compararono. Così, per l'accademico Aristotele i tragelafi esistevano solo nella fantasia africana di certi tessitori di tappeti, sempreché gli Africani tessessero.

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Oggi siamo portati a ritenere che gli Africani tessessero. E che tessessero il vero. Dato che l'Africa subsahariana pullula di diverse specie bovine simili ad antilopi, cioè capri dotati di corporatura simile a quella dei cervi. E infatti gli zoologi hanno battezzato "Tragelaphus" un sottogenere di antilopi.

Tutto questo implica due importanti conseguenze:
1) Che il tempo è galantuomo dato che alla fine si è ammessa l'esistenza dei capricervi e che di conseguenza il celeberrimo intellettuale post-crociano Massimo D'Alema è diventato il presidente della Fondazione Europea di Sudi Progressisti, primo esemplare della specie Hircocervus Democraticus Europaeus avvistato anche in Italia.

Al neo-presidente D'Alema i nostri auguri più fervidi e sinceri di buon lavoro.
2) La seconda implicazione è una cosa che dobbiamo esserci dimenticata. Ma, tant'è, il tempo causa un affievolimento della memoria. Attenua ogni ogni vulnus dell'anima: l'umiliazione degli sconfitti, l'arroganza dei vincitori, l'inespugnabilità di un enigma.

Buona estate a tutte le nostre lettrici e a tutti i nostri lettori. (9.7.2010)