martedì 22 giugno 2010

Cara bambina di Pomigliano d'Arco

EDITORIALE 

di Andrea Ermano 
 
Cara bambina di Pomigliano, che mi poni le tue ingenue domande circa questa nostra Repubblica fondata sulla "Futura Panda", non è facile trovare le risposte giuste, ma, insomma, vediamo.

Anzitutto, piccola mia, devi sapere che in un mondo nel quale tutti gli indicatori hanno iniziato a oscillare paurosamente, l’establishment italiano (e non solo italiano) tenta di correre ai ripari.

    Così, la Fiat abbandona la Polonia e riapproda a Pomigliano d'Arco che aveva abbondonato molti mesi or sono. E tu chiedi perché? Già, perché la Fiat, adesso, trova utile posizionarsi nella la tua città?

    Probabilmente perché vuol muovere alla conquista di quella che si preannuncia la nuova grande area emergente nell’economia mondiale globalizzata, l’area del “Mediterraneo allargato”. Si dice che verosimilmente per questa ragione la Fiat abbia firmato l’accordo, nonostante il “no” della Fiom.

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L’area campana rappresenta il luogo più adatto a proiettarsi nella nuova sfida dell’export automobilistico. La Fiat vuole ricollocarsi nell’area campana in quanto questa riunisce almeno quattro vantaggi e non da poco: a) i salari più bassi dell’Europa occidentale, b) il know-how automobilistico italiano, c) la grande infrastruttura portuale napoletana, d) l’estrema prossimità con il “Mediterraneo allargato”.

    Parafrasando Hans Ruh, potremmo chiederci perché Berlusconi e Marchionne non propongano ai governanti maghrebini di celebrare presso i loro popoli qualche referendum tramite il quale sapere se i predetti popoli desiderino davvero andare a vivere anche loro in un futuro fatto di sviluppo fondato sulla Panda.

    Referendum inutili e paradossali, ovviamente, perché la Panda è un destino.
    Non si sfugge al destino, mia cara. Così il destino della mia generazione è stato lo smog, mentre alle generazioni più giovani si è riservata la monnezza. E chissà che cosa ti aspetta quando sarai grande tu, cara bambina di Pomigliano.

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Pomigliano val bene una messa... Una “messa in quel posto agli operai”, si sarebbe detto un tempo, ma l’espressione suonerebbe oggi troppo greve e volgare, e quindi non la si usa non più. Io ne ho fatto menzione per ragioni puramente storico-documentarie.

    In cambio della “messa” di Pomigliano, la Fiat ha chiesto un bel po’ di contropartite, sapendo perfettamente che andranno poi ricontrattate in corso d’opera. Almeno sul piano salariale. O almeno lo speriamo. Ma intanto hanno trovato le parole per confessare l'inconfessabile.

    Ma tu non stupirti, cara bambina, e impara ad accettare la realtà finché sei piccola. Era assolutamente necessario che gli imprenditori padani chiedessero, chiedessero e chiedessero.

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Questo "chiedere per non dare" era necessario affinché a voi meridionali non vengano in mente strane idee circa il vantaggio di posizione che vi attende proprio lì, dietro a questo "Tornante della Storia", come il nostro Ministro dell’Economia e della Retorica ama definire il rischio di bancarotta cui l'Occidente è esposto dopo un ventennio di liberismo selvaggio.

    La destra padana porta a casa un evidente vantaggio perché l’asse del dibattito si sposta “a destra della Costituzione”, che viene contrapposta (non senza ricatto) alle desiderio di lavoro degli operai di Pomigliano. La Cgil subisce una frattura non trascurabile.

    Un alto esponente della destra ha dichiarato che anche gli operai trarranno un grande vantaggio morale dall’accordo, datosi che ricominceranno finalmente a guadagnarsi il salario con il sudore della fronte dopo avere approfittato per anni della Cassa integrazione mentre lavoravano in nero, magari per organizzazioni camorristiche o giù di lì. Così ha parlato un alto esponente della destra.

    Ma tu non offenderti, cara bambina, e impara ad accettare il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo.

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Immagino che tu ti sia domandata, nella tua testolina, che cosa significa “Mediterraneo allargato”. No, non occorrerà allargalo per far spazio al Ponte sullo Stretto di Messina. No, non mi devi andare a pensare che il Piano Grani Eventi e Grandi Opere preveda lo spostamento a est del Bosforo o a ovest delle Colonne d’Ercole.

    Quando parlano di “Mediterraneo allargato” loro si riferiscono in sostanza all’antico territorio dell’impero romano che si estendeva per tutta l’Africa settentrionale e per il Medioriente, fino all’Iraq. È soprattutto lì che la globalizzazione produrrà, sembra, nuove efflorescenze d’urbanesimo ed è lì che le masse di inurbati avranno “bisogno”, sembra, delle nostre automobili.

    Lo so, tu che sei piccina, dirai ora che tuo nonno ha bofonchiato qualcosa sull'imperialismo straccione. Be', in fin dei conti il plot fondamentale della cultura politica italiana è quella lì. E sempre lì si torna, almeno finché il nostro Paese non rifletterà seriamente sul proprio passato.

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Nell’auto-interpretazione nazionale, come imparate a scuola, il Novecento si compone del Piave che mormorava al passaggio degli Alpini il 24 maggio. Poi è arrivato il "duce" un omone che non era poi così cattivo. Dopo un po' è arrivato Bruno Vespa e – oplà – ecco sbarcare gli Americani. All’epoca dello Sbarco loro, a forza di navigare in su e giù per l'Atlantico, sono finiti dentro al Mediterraneo, detto Mar Nostrum, e quindi inevitabilmente dalle nostre parti.

    Infine, i soldati di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalirono disordinatamente le valli che altri avevano disceso con orgogliosa sicurezza, e salendo sempre più su distribuendo stecche di sigarette, cioccolate e preservativi sono arrivati in Europa.

    È perciò che anche noi guardavamo all'Europa. Lì c'erano gli Americani. Stavano in Europa per tenere d'occhio l'Atlantico, dove avevano un Patto. Adesso invece gli Americani guardano più al Pacifico che all’Atlantico.

    E quindi anche noi guardiamo più al Mar Nostrum che all’Europa.
    Grazie al Mar Nostrum, abbiamo già risolto il problema degli sbarchi a Lampedusa.
    Migliaia di individui indesiderati in procinto di delinquere in quanto aspiranti immigrati clandestini. Pare che costoro, grazie al governo di Tripoli, vengano trattenuti in appositi campi di trattenimento, in attesa di ricevere il sacramento del battesimo cattolico dalle mani del card. Biffi e una 850 coupé da quelle del dott. Marchionne.

    Ignori i nostri programmi umanitari? Questa materia non è ancora in programma a scuola? Vedrai che la Gelmini ce la mette, magari affidandola agli insegnanti di religione.

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Vuoi sapere quel che penso io di tutto questo? Io, cara la mia bambina di Pomigliano, penso che alti guai attendano la nostra povera Italia, se ora si tuffa nel “Mediterraneo allargato”, fuori da una seria concertazione europea, in eventuale dissidio con la politica estera occidentale e magari fidando sul sostegno degli amici Putin e Gheddafi.

    Diceva una volta un vecchio: “Occorre aggrapparsi all’Europa”. Aggiungo io: in Europa occorrerebbe aggrapparsi a un serio dibattito sull’uso che i popoli potrebbero fare dell’Unione a favore di una Governance politica globale.

    Non capisci la parola “Governance”? Uhm, vediamo. “Governance” significa che ciascuno contribuisce a evitare il caos, il panico e le guerre. Come? Facendo ciascuno la propria parte per favorire un ragionevole contenimento dell’anarchia capitalistica, delle guerre di religione e dei disastri ambientali.

    Su questo “uso dell’Europa” occorrerebbe, bambina mia, sollecitare una grande discussione collettiva in ogni sezione di partito.

    Peccato che non ci siano più né le sezioni né i partiti.
    Di tutta la “vecchia politica” finita sotto i cingoli del "nuovo che avanza" una cosa hanno salvato. Una sola. Porta anch'essa un nome in odore di "coniche". Ma non erano le "sezioni".   

lunedì 7 giugno 2010

Sbatti la cornetta in prima pagina 

di Andrea Ermano 

La fuga dalla tivù non è altrettanto precipitosa quanto l’astensionismo in politica o la restrizione del credito nella finanza, ma è un fatto che non ci si appassioni più ai talk show come ai tempi del berlusconismo ascendente.

    Forse, un giorno gli storici definiranno questi nostri anni come l’epoca del berlusconismo discendente, un’epoca che potrebbe protrarsi per qualche tempo e, a occhio e croce, riservarci anche qualche brutta sorpresa. Ma non sembra più suscettibile di spettacolari vitalità.

    Dopo la rovinosa causa di divorzio accompagnata al noto “gossip delle escort” si è manifestata una tendenza allo sfilacciamento del berlusconismo politico. Di essa la frattura tra finiani e Lega rappresenta solo un riflesso.

    In questi ultimi giorni abbiamo assistito a una sequenza di accadimenti, tra i quali si segnala un episodio assai sintomatico: il caso della telefonata “di protesta” che Berlusconi ha fatto in diretta alla trasmissione “Ballarò” e che si è conclusa con la cornetta riappesa dal premier in malo modo. In altri tempi, sarebbe stato inimmaginabile che un presidente del Consiglio potesse chiamare una trasmissione e poi buttare giù il telefono di fronte a milioni di telespettatori. Ma così è la “diretta”.

    Per quanto mi concerne, non possedendo un televisore, ho letto la notizia sui giornali. E poi, siccome anche la “diretta” è entrata nell’era della sua riproducibilità tecnica, sono andato a guardarmi l’ultima puntata del programma di Giovanni Floris su internet (vai al video).

    La scortese telefonata di Silvio Berlusconi si può riassumere così: mentre in studio stanno discutendo di riforme economiche, il premier chiama e contesta sia l’attendibilità di un sondaggio secondo cui i suoi indici di gradimento sarebbero scesi, sia il benché minimo lassismo da parte sua in materia di tasse. Il vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, che aveva criticato l’etica fiscale del Cavaliere (chiamiamola così), viene accusato di "menzogna assoluta". Berlusconi si autoproclama il primo contribuente d’Italia, giura di non avere mai in alcun modo legittimato l’evasione fiscale e, con voce udibilmente indignata, stigmatizza la “televisione di Stato, pagata con i nostri soldi” al servizio della menzogna. Dopodiché buonanotte. Il telefono viene riagganciato (vai al video della telefonata).

    Il conduttore replica che in una televisione di Stato si dovrebbe dialogare, cioè accettare una replica, e non buttare giù il telefono. Il sondaggista Pagnoncelli si lamenta della "accusa molto grave" e fa presente che, nei sondaggi, quote di consenso troppo elevate mal si accorderebbero con gli alti tassi di astensionismo che regolarmente registriamo all'uscita dalle urne. Giannini esorta il leader del “partito dell'amore” (in absentia) ad ascoltare democraticamente le altrui critiche, e richiama varie dichiarazioni anti-tasse pronunciate dal premier nel corso del tempo. A fine trasmissione Floris legge anche un dispaccio d’agenzia di qualche anno fa dal quale si desume che, secondo il presidente del Consiglio, ogni cittadino può sentirsi “moralmente autorizzato a evadere” se la pressione fiscale supera un certo livello.

    Queste parole erano state pronunciate da Berlusconi ad esempio il 17 febbraio 2004 durante una conferenza stampa tenutasi a Palazzo Chigi: il video è disponibile su internet (vai al video). Per il nostro attuale premier le tasse, si sa, sono una specie di ladrocinio di Stato: “Noi non vogliamo mettere le mani nelle tasche degli italiani”, ha ripetuto anche in questi giorni (e da quali tasche dovrebbero provenire, allora, i danari necessari a risanare la nostra finanza pubblica? Da quelle dei guatemaltechi? Dei papuani?).

    In trasmissione, il ministro Tremonti ha difeso il presidente del Consiglio dipingendolo come il propugnatore di posizioni classicamente liberali. Insomma è il popolo italiano, evidentemente, che a causa della propria incultura ha frainteso le parole del primo ministro prendendo per rozzo lassismo fiscale un discorso su secoli e secoli di pensiero economico europeo.

    Ciò premesso, è tuttavia evidente che non è stato Berlusconi a inventare la frode fiscale, né è stato lui quello che (diciamo anche questa, visto che ci siamo) può aver commissionato le cosiddette “stragi di mafia”. Nel conflitto tra evasori e fisco, come in quello tra la mafia e stato, o tra pezzi di “ancien regime” e la gioiosa macchina della transizione, il Cavaliere ha voluto sempre cercare di rappresentare, almeno in cuor suo, un punto di equilibrio e d’intersezione. Con i Cavalieri della Gran Croce ma anche con la Loggia P2, insieme a Craxi ma anche ad Andreotti, con i giustizialisti ma anche con i garantisti, sostenitore di Pannella ma anche di Di Pietro (che avrebbe voluto ministro), schierato dalla parte del clericalismo cattolico ma anche della secolarizzazione più selvaggia, alleato della Lega ma anche fautore dell’unità nazionale, sinceramente preoccupato per i terremotati aquilani ma anche, non meno sinceramente, del cinico show-biz che intorno al sisma abruzzese è stato imbastito, senza contare quei gentiluomini di Palazzo che alla notizia del terremoto “ridevano” (ridevano!) pregustando grandi affari, grandi eventi ecc. ecc.

    L'elencazione potrebbe continuare, ma c’è un sipario lassù che ci attende, che incombe e che va a calare, imperturbabile. Sui giusti e sugli iniqui. Perché un’altra fase della storia repubblicana è giunta a un punto d’instabilità, e questo processo ciclico si addiziona a un sistema dinamico globale il cui equilibrio è costantemente esposto al battito d'ali di una farfalla.