venerdì 27 novembre 2009

Ma forse un "farmaco" ci sarebbe

Ripensando al summit della FAO tenutosi recentemente a Roma si è portati a concludere che in questo "sistema-mondo" una quadratura meccanica del problema della fame non c'è. O forse ci sarebbe, ma d'altro "genere". 

di Andrea Ermano

L'estensione della fame nel mondo aumenta, pare, con la crescita demografica. E la popolazione sembra crescere in funzione della massa alimentare disponibile. Sicché il puro e semplice aumento di aiuti alimentari alle popolazioni indigenti, per quanto necessario nell'immediato, può determinare sul medio periodo un ulteriore aumento degli affamati.

      Che fare dinanzi a questo circolo vizioso, intessuto di inenarrabili sofferenze e tragedie, di crisi e di conflitti?

    Il dibattito in corso nel nostro Paese distingue due grandi scuole di pensiero. Per i laici bisogna intensificare le politiche di controllo demografico. Per il clero cattolico il preservativo e la pillola, al pari di ogni tecnica anticoncezionale, vanno condannati. Il problema, secondo la dottrina della Chiesa, si può risolvere solo migliorando la distribuzione del cibo.

    Ma aumentando solo e semplicemente la massa alimentare disponibile non c'è il rischio che la popolazione cresca e con essa cresca anche la fame?

    Supponiamo di no. Supponiamo che la Terra sia talmente grande da poter nutrire tutti. Supponiamo di escogitare un metodo che permetta di dar da mangiare agli affamati quale che ne sia il numero. E supponiamo che la produzione di cibo sappia tenere il passo con il conseguente aumento della popolazione.  Ci sarebbe allora sazietà per i lupi e per gli agnelli, nei secoli dei secoli? Sarebbe bello, ma temo che il bilancio ecologico dell'operazione non regga.  Perché gli scienziati ci ammoniscono ogni giorno sul surriscaldamento, che corre a folle velocità. Figuriamoci cosa accadrebbe se l'aumento della popolazione mondiale subisse un'ulteriore impennata... 

     Perciò appare sempre più ineludibile la necessità di politiche finalizzate al controllo demografico.  E tuttavia sarebbe assurdo immaginarsi il pianeta sottoposto a una sorta di protettorato neo-maoista, con il Comitato Centrale che stabilisce chi possa avere quanti figli e quando.  Assurdo e impraticabile.

E allora che fare?  In realtà, un "farmaco" miracoloso ci sarebbe, un "farmaco" capace di favorire massicciamente il controllo delle nascite, pur nel rispetto della dignità delle persone e delle loro scelte procreative. Questo "farmaco" si chiama scuola, esso è il grado medio di istruzione femminile. Tanto più le donne di un dato paese ricevono una buona istruzione, tanto più il tasso di crescita demografica del paese medesimo tende a "raffreddarsi".

     Se questo schema di ragionamento è vero, come pare, ne conseguirebbe che la salvezza demografico-alimentare-ecologica del genere umano dipende dall'emancipazione delle donne. Quindi, per il movimento delle donne si staglia all'orizzonte un ruolo (cosmo-)politico assolutamente centrale e inedito.

    Ora, per focalizzare meglio quest'orizzonte futuro al femminile tentiamo nel nostro piccolo una zoomata stile Kubrik 2001 - Odissea nello spazio... Un tuffo nel passato remoto. Andiamo a ripescare dalle memorie di scuola la famosa "Crisi del Neolitico".

    Circa sei sette mila anni fa, spiegano gli storici, aveva avuto luogo una sconvolgente rivoluzione economica, che consistette nella creazione dell'agricoltura, nello sviluppo dell'allevamento e nella fondazione del "villaggio". Il villaggio neolitico era composto da circa 20-40 case, scrive Mario Vegetti, un sistema di clan familiari coalizzati nella realizzazione di opere comuni come le fortificazioni per difendere le terre coltivate da eventuali incursioni di vicini o dei cosiddetti "selvaggi".

    Perché entra in crisi il villaggio neolitico? Più o meno per le stesse cause strutturali per le quali neanche il nostro villaggio globale gode oggi di buona salute: un combinato disposto tra aumento della popolazione, forti fluttuazioni di produttività e, dunque, forti spinte migratorie.

    Le turbolenze demografico-alimentari del Neolitico sfociano in una diffusa conflittualità. E nella nuova situazione, dominata dalla guerra di tutti contro tutti, le Leghe maschili tendono a imporsi come nuovo modello di società. Ne consegue una progressiva militarizzazione dell'economia e della convivenza.

Se la "rivoluzione agricola", come ben spiegano i manuali di storia, era stata l'ultima grande realizzazione del matriarcato, la "Crisi del Neolitico" segna l'inizio di una nuova egemonia, quella patriarcale.  Dalla guerra ("polemos") nasce la città ("polis") protetta da alte cinte murarie la cui edificazione ha come presupposto una gerarchizzazione piramidale della società. Gli esseri umani subiscono una riclassificazione in base alla quale da un lato ci sono dei "sopra-uomini" e dall'altro dei "sotto-uomini": i maschi e le femmine, i padroni e i servi, gli adulti e gli infanti, gli amici e gli stranieri, la gente civilizzata e i barbari, o troppo rozzi o troppo raffinati.

    Il territorio della Polis è delimitato da "cippi confinari" o "erme" (hermata) su cui viene scolpito un fallo: né simbolo erotico né di fertilità. Il senso di ciò è ben spiegato da Walter Burkert con riferimento al comportamento di certi primati i cui maschi adulti presidiano il territorio del clan esibendo verso l'esterno un pene vistosamente eretto. Come a dire: Viandante che passi  da questo luogo, sappi che qui non vivono solo femmine imbelli, vecchi e infanti; qui ci sono anche maschi adulti addestrati al combattimento.

    Be', con buona pace dei predetti sei o sette mila anni di Patriarchi, Guerrieri, Leghe maschili ecc., non mi pare che le turbolenze innescatesi con la "Crisi del Neolitico" si siano acquietate. Non in Mesopotamia né in Egitto, non con l'Impero Macedone né con quello Romano. E la storia non è finita neppure con i loro emuli moderni -- spagnoli, portoghesi, olandesi, britannici, sovietici o americani -- sotto la cui egida sono andati per altro in frantumi anche i costrutti imperiali extra-europei.

    Ciò che siamo usi chiamare civiltà umana sembra avviato verso una mega-turbolenza a rischio di deflagrazione. Anche perché finora nessun Patriarca, in tutta evidenza, si è dimostrato capace di cavalcare la tigre demografico-alimentare.

    Data la situazione disperante di questo nostro "sistema-mondo", lasciateci almeno sperare che un altro mondo è possibile.  "Possibile" sta qui probabilmente a significare che tra i due "generi", quello femminile e quello maschile, un riequilibrio in grande stile è necessario.       
       

giovedì 19 novembre 2009

Con i reattori invertiti

 
 
di Andrea Ermano

La professoressa Maria Grazia Meriggi, celebre studiosa di storia sociale europea, ci scrive alcune utili osservazioni sull'articolo di Ugo Intini, L'occasione mancata della sinistra italiana, apparso sull'ADL della settimana scosa. "Dall'articolo di Intini" – osserva la professoressa Meriggi – "risalta se possibile ancor di più la statura politica di Willy Brandt. E sui rapporti fra potenze occupanti, Germania e anticomunismo fin dal '45 raccomando il volume del figlio di Willy, Peter Brandt: Dopo Hitler, Editori Riuniti, Roma 1978".

    Le differenze tra la prudenza riformista di Willy Brandt e l'aperto sostegno di Bettino Craxi al "dissenso" meriterebbero una trattazione a sé. Qui possiamo dire che la Ostpolitik non poteva (né del resto voleva) fungere da rimedio a ogni orrore staliniano e a ogni carro armato brezneviano. Se il sistema sovietico fu infine irriformabile, allora la moderazione brandtiana, per quanto gradita al Pci di Berlinguer, nascondeva più di un'illusione e più di un'insidia.

    In questo senso Intini non ha torto nel rivendicare il ruolo "rivoluzionario" del Psi a sostegno dell'opposizione atisovietica: Sacharov in URSS, Geremek e Michnik in Polonia, Pelikan in Cecoslovacchia e la lista potrebbe continuare. Brandt non approvava tutto questo attivismo e un giorno lo disse a Craxi senza tante perifrasi: "Voi sbagliate ad appoggiare i nemici dei partiti comunisti dell'Europa orientale. Non si deve puntare su di loro che, contrapponendosi frontalmente al sistema, non vinceranno mai. Ciò è addirittura controproducente. Si devono invece appoggiare le componenti moderate e pragmatiche all'interno dei partiti comunisti di governo, così da attirarli a poco a poco verso posizioni riformiste e utili alla distensione".

    A vent'anni di distanza dalla smentita di questa linea, vediamo come anche l'altra linea, che pure trionfò, non mancasse a sua volta d'insidie. Le due concezioni della socialdemocrazia, quella craxiana e quella brandtiana, si distinsero infatti anche in rapporto alle loro prospettive sociali. E ciò a tal punto che l'attuale crisi del centro-sinistra europeo può essere definita, per semplicità d'esposizione, una crisi del craxismo. In quanto autore di un'ibridazione tra laborismo classico e neoliberismo Craxi ha fatto scuola nella "Terza via" di Tony Blair, nella "Neue Mitte" di Gert Schroeder e da ultimo persino nello "Spirito del Lingotto" di Walter Veltroni.

    Questa crisi è stata crudamente evidenziata in Germania dal risultato a due cifre realizzato da Oskar Lafontaine con la sua Linke. Lafontaine era stato indicato personalmente da Willy Brandt come il migliore dei suoi allievi e il suo continuatore. Conquistò la guida del partito vincendo le resistenze interne. Guidò la SPD al successo e Schroeder alla Cancelleria. Poi però abbandonò ogni carica, "da sinistra", dopo essersi dimesso dalla funzione di super-ministro economico. In questi ultimi anni, pur anziano e malato, ha impartito alla SPD una severa lezione. E in tutta brevità diremmo che il nervo scoperto del conflitto interno al mondo socialista europeo riguardava (e riguarda tuttora) il complesso rapporto tra partito e sindacato.

    Questa tematica vale per la Gran Bretagna, la Germania e per tutti gli altri paesi europei dove il mondo del lavoro organizza il proprio consenso orientandolo storicamente a favore della sinistra riformista. In Italia, però, la questione del rapporto tra partito e sindacato si è sviluppata, nel secondo Dopoguerra, in modo obliquo, perché articolato su due partiti e perché gravato dalla loro collocazione nello spazio geopolitico della guerra fredda.

    Ugo Intini ricorda nel suo articolo la seguente tesi di Villetti: "Incredibilmente il PSI ripeté, con segno opposto, lo stesso catastrofico errore storico del 1947-'48. Mentre la cortina di ferro calava sull'Europa, i socialisti di Nenni avrebbero dovuto stare a Occidente, con i partiti democratici e la DC. Invece, in nome dell'unità della sinistra, stettero a Oriente, con Stalin e il PCI. Nel 1989, al contrario, crollata la cortina di ferro, i socialisti di Craxi, allievo e successore di Nenni, avrebbero dovuto costruire con l'ex PCI l'unità della sinistra, non più ostacolata dall'insormontabile impedimento internazionale che la aveva bloccata per decenni. Invece, si trovarono ancora una volta, nel momento storico decisivo, come con Nenni nel 1948, dalla parte sbagliata: questa volta, non contro, ma con la Democrazia cristiana; non con, ma contro il PCI."  

    Come non concordare? Nel nostro piccolo, da queste colonne, avevamo avanzato tesi analoghe, in tempi non sospetti. Ci fa piacere che si tratti di un giudizio ormai condiviso. Giunti sin qui, potremmo però chiederci anche se l'autonomia del PSI non fu comprata al prezzo di un autofinanziamento sempre più pesantemente "irregolare". Il che nel "momento storico decisivo" condizionò pesantemente le scelte politiche.

    Autonomia della politica ha significato per la SPD disporre di fondi regolari. La SPD non ha dovuto battersi a mani nude contro i dollari e i rubli degli avversari politici. Il PSI lo ha fatto e sappiamo com'è finita. Va detto pure che la propaganda d'odio antisocialista, risalente agli anni del primo centro-sinistra, rendeva gravoso, per non dire impraticabile, ogni ragionevole prospettiva di riconciliazione nel 1989. Alla fine sia il Psi sia il Pci si convertirono alla logica del fornaio andreottiano. E quando la DC tirò le cuoia, l'effetto fu quello di andare, senz'alternative, verso una crisi di sistema, lungi tutt'ora dall'essere superata.

    Ripensando ai rapporti tra Psi e Pci, dagli anni del primo centro-sinistra alla fine della Prima repubblica, mi viene in mente il film di Sogo Ishii "La famiglia con i reattori invertiti" (Gyakufunsha kazoku - The Crazy Family, 1984). Il film narra di una normale famiglia giapponese nella quale inizia però a serpeggiare un dissidio, tragicomico e culminante nella distruzione pezzo a pezzo del salotto, del mobilio e dell'intero appartamento fino a esiti catastrofici. Sui titoli di coda, che scivolano sopra le macerie fumanti di quella che un giorno fu la casa comune, si legge: "La famiglia con i reattori invertiti".

   In Giappone l'espressione "reattori invertiti" sta a indicare gli esiti catastrofici di un raptus. È divenuta proverbiale da quando, con gesto incnsulto, un pilota decise di attivare in pieno volo gli "inversori di spinta". Questi marchingegni applicati ai turbocompressori servono in realtà a frenare il velivolo dopo l'atterraggio. Ma quel giorno il pilota fu preso da un accesso di pazzia e attivò gli "inversori di spinta" mentre navigava ad alta quota. Il suo aereo entrò in stallo e precipitò con tutti i passeggeri a bordo.

venerdì 6 novembre 2009

Macchine gioiose e macchine dolorose

Riflessioni sulla fuoriuscita dall'agone politico annunciata
dal sindaco-filosofo di Venezia, Massimo Cacciari. 

di Andrea Ermano

Lui vuol uscire dal ring della politica attiva e appendere al chiodo i guantoni, perché il PD di Bersani lo ha deluso. Bersani porterà a un'intesa "inevitabile" con la "Cosa bianca" di Casini e Rutelli, porterà a una "frittata" da prima Repubblica: "È il vecchio disegno di D'Alema", dice Massimo Cacciari, "non m'interessa culturalmente. Anche se è l'unica via per sconfiggere Berlusconi". 

    Lui non vuol morire democristiano né, però, rimanere ulteriormente in un partito come il PD in odor di "socialdemocrazia" e si dichiara ansioso di tornare all'Università: notizia non brutta, essendo Cacciari uno tra i maggiori pensatori italiani contemporanei. "A 65 anni ho capito che non sono capace di fare politica". Butta lì. E poi conclude tagliente: "Il mio amico D'Alema sì che è capace". Traduzione: D'Alema svolge il proprio lavoro in modo efficace, ma banale. Le sue basi culturali socialdemocratiche nascono "vecchie".

    Sarà. Ma mentre il vice-presidente dell'Internazionale è candidato dal PSE alla carica di ministro degli esteri europeo, Cacciari stesso lamenta invece di sé, malinconicamente: "Nessuno mi ha mai filato, anche se ho avuto sempre ragione". Fosse così, lui farebbe bene a restare dentro il PD attendendo che si avveri la prossima divinazione filosofica per mettere pesantemente i piedi nel piatto. Perché non lo fa?

La critica al "Sozialismus"
Perché. Perché. Perché. Cacciari non potrà mai accettare la Cosa 4. E ciò non a causa di D'Alema, ma per profondi convincimenti filosofici. "Appare evidente da tutto quel che abbiamo detto finora che la riflessione di Cacciari ha come presupposto fondamentale la critica nietzschiana al Sozialismus", così riassume lo studioso Nicola Magliulo l'itinerario filosofico dell'attuale sindaco di Venezia.

    Bisogna sapere, infatti, che già nel fatidico 1976 Cacciari pubblica Krisis, un saggio molto severo con la socialdemocrazia europea e la sua malattia storica, l'empiriocriticismo (così si chiamava il "relativismo" ai tempi di Lenin che scrisse sull'argomento un celebre pamphlet).

    E già nel fatidico 1976 Cacciari è incline alla politica. Reduce giovanissimo da Potere Operaio aderisce al PCI diventando coordinatore della Commissione regionale veneta per l'Industria.

    Sempre nel fatidico 1976 il Partito lo candida alla Camera dei deputati, dove rimane due legislature, fino al 1983. La sua avventura parlamentare coincide dunque con il chiasma di tempo in cui va consumandosi la decadenza politica del PCI di Berlinguer mentre Craxi ascende dalla segreteria del PSI al governo del Paese.

    Cacciari esce dal parlamento e si allontana dalla politica attiva. Si narra che De Michelis o chi per lui gli proponga di saltare sul carro del PSI. Lui declina l'invito: "No, grazie, sono già ricco di famiglia". Una sferzata che entrerà negli annali dell'inimicizia fraterna italiana, ma che segnala anche un'ambivalenza quasi perfetta tra understatment berlingueriano e guasconeria craxiana.

    Come picconatore post-comunista ante litteram il filosofo lagunare assume nel tempo una statura politica crescente. "Trent'anni fa speravo con altri di poter imprimere una svolta al Pci", ricorda. "Poi ci ho provato con Occhetto, quindi con il partito dei sindaci, con l'Asinello di Prodi, con la Margherita e infine con il Pd. Quel che ora dice Rutelli io l'avevo detto molto tempo prima".

La "società civile" e la denuncia di De Magistris
Al netto dei segnali trasversali, si riconosce in questa autodescrizione un tratto saliente (ma drammaticamente perdente) della transizione italiana: l'antitesi tra "società civile" e "politica".

    A nostro sommesso parere, questa contrapposizione, andrebbe superata se non altro per rispetto della lingua. Infatti, la parola "civile" proviene dal latino civilis che è sinonimo, e non contrario, del greco politiké, da cui proviene "politica".

    La "società civile" – ossia la comunità di coloro che vivono nella civitas – non si distingue materialmente dalla comunità di coloro che vivono nella polis. L'abitante della "città", il "cittadino", si chiamava civis a Roma e ad Atene polìtes. Questo, a meno che non s'intendesse un "privato cittadino", calcando l'accento sull'aspetto "privato" della non-partecipazione e dell'estraneità alla vita pubblica. In tal caso gli ateniesi non parlavano di polìtes, ma piuttosto di idiòtes, espressione che non costituiva necessariamente un insulto e stava a significare semplicemente "uno di lì". La lingua francese conosce una distinzione analoga giustapponendo il "cittadino" (citoyen) al semplice "abitante del borgo" (bourgois), da cui la parola "borghese".

    Giunti sin qui segnaliamo il caso notevole di una locuzione usata da Luigi De Magistris in visita a Zurigo il 23 ottobre scorso. L'espressione è: "borghesia mafiosa". Con essa De Magistris intende "quella rete d'imprenditori, professionisti e anche uomini di Chiesa" che nelle regioni ad alta densità criminale si spartiscono il denaro pubblico, "che è praticamente l'unica fonte di reddito in un panorama imprenditoriale gracilissimo".

    La "borghesia mafiosa" tende a privatizzare la politica, e De Magistris insieme a Flores D'Arcais ha recentemente messo in luce la presenza di massicce opacità "privatistiche" (per non dire "familistiche") persino dentro al suo proprio partito, quello nel quale l'ex magistrato ha accettato di candidarsi alle europee.

Privatizzazione della "politica"
La privatizzazione della politica serve alla "borghesia mafiosa" per accedere al pubblico denaro, usando ove possibile la frode, ove necessario la violenza.

    Un macroscopico esempio di violenza mafiosa furono gli attentati nell'anno 1993. Ricordiamoli. La strage di Via dei Georgofili a Firenze uccise cinque persone e ne ferì 48. In Sicilia persero la vita i giudici Falcone, Borsellino e Francesca Morvillo (moglie di Falcone) oltre che otto agenti di scorta. Altri attentati mafiosi vennero compiuti nello stesso anno a Milano (in via Palestro, dove un'autobomba provocò cinque morti: tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un cittadino straniero che dormiva su una panchina) e a Roma contro il giornalista Maurizio Costanzo, oltre che alle chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Questi tre ultimi causarono "solo" dei feriti, ma un quarto attentato era stato frattanto programmato allo Stadio Olimpico con lo scopo di provocare una sanguinosissima strage tra le forze dell'ordine. Non venne eseguito, forse per un contrordine dell'ultimo minuto.

    Esempio macroscopico di frode fu la "trattativa tra lo Stato e la mafia", trattativa che in parte corse parallela a quel macello. È lecito chiedersi se di quel contesto non facessero parte anche "i contatti avvenuti nell'autunno del 1993 tra il futuro organizzatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, e l'emissario di Cosa Nostra, Attilio Mangano", come ritiene l'europarlamentare ed ex procuratore De Magistris (ma non solo lui).

    Che cosa chiese la "borghesia mafiosa" nel 1993 al sistema politico? Chissà se e quando i giudici (o gli storici, o eventualmente i filosofi) sapranno mai spiegarci che cosa accadde esattamente in quell'anno orribile in cui lo Stato (la polis, la Politica, la società civile tramite i propri legali rappresentanti) e l'Antistato (la "borghesia mafiosa") convennero una misura media tra loro. Civiltà più Stragismo diviso due. E nacque la Seconda repubblica.

Nel 1993, con tutti gli assi in mano. . .
Qui ritorniamo al sindaco-filosofo di Venezia. "Nulla vieta di pensare che, se Segni e Occhetto nel 1993, quando si trovano tutti gli assi in mano. . ." – dice Cacciari alcuni giorni fa presentando "La svolta, lettera a un partito mai nato" di Francesco Rutelli.   A mezzo della frase, però, il sindaco-pensatore si ferma come per un'esitazione, cambia progetto sintattico e prosegue con queste parole: "Insomma, quel giro di poker potevano vincerlo facilmente. Avevano tutto in mano. Tutto! Segni in particolare. E si fottono invece in un modo che ha dell'incredibile! Incredibile! Poi noi razionalizziamo tutto. Ma non c'è niente di razionale nel fatto che poi in questo Paese ci siamo beccati Berlusconi. C'era qualcosa che non funzionava nelle teste dei suddetti signori".

    Incredibile? Forse. Qualcosa non funzionava nelle teste? Probabile. Ma mentre il sindaco-filosofo sta pronunciando a Milano le sue irridenti parole, quello stesso giorno in quelle stesse ore a Roma il procuratore nazionale Piero Grasso depone dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia confermando in pieno ciò che De Magistris aveva detto a Zurigo e di cui abbiamo doverosamente riferito più sopra: "Mangano trattò con le sue vecchie conoscenze".

    Ricapitolando: nell'anno orribile 1993 c'era da un lato la "società civile" che, scassata a colpi di genio la "vecchia politica", si fiondava nel "nuovo che avanza" alla quida della "gioiosa macchina da guerra". Dall'altro lato, però, la "borghesia mafiosa" metteva in circolazione altre macchine da guerra, per nulla "gioiose" e anzi dolorose, volte a produrre una criminale interlocuzione al plastico.

    Insomma, come si vede, il nostro problema principale non è mai stato l'empiriocriticismo di Aveanarius, Mach e Bogdanov. E quindi c'è poco da fare gli schizzinosi con quegli alleati internazionali che fossero ancora disposti a rischiare qualcosa puntando sulla nostra democrazia.