martedì 6 ottobre 2009

Viaggetto da Atene a Roma senza pretese retoriche

Ad Atene il presidente dell'Internazionale Socialista, Georges Papandreu, ha vinto nettamente le elezioni anticipate, conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. Questo avviene a una settimana dalla vittoria del premier socialista portoghese José Sócrates. Per molti commentatori queste sono notizie di terzo piano. Ma secondo noi sbagliano. Ed ecco perché.

di Andrea Ermano

Gli avversari del socialismo in Italia ripetono in questi giorni che con la débacle della SPD si chiude "l'era socialdemocratica", definitivamente, irrevocabilmente. Forse perciò è stata considerata per lo più irrilevante, una settimana fa, la vittoria del premier socialista portoghese José Sócrates.

    Ieri, però, Georges Papandreu (per inciso, presidente dell'Internazionale Socialista) ha vinto nettamente le elezioni in Grecia, conquistando al suo PASOK la maggioranza assoluta dei seggi nel nobile parlamento in Atene. Notizia anch'essa secondaria, ribatteranno i nostri avversari, perché il dato determinante resta la crisi della SPD in Germania.

    Orbene, in Germania, un notevole passo in avanti, l'hanno realizzato i liberali di Guido Westerwelle, esponente del popolo omosessuale ed ora probabile ministro degli Esteri tedesco. Ma nella cattolicissima Baviera le cose non sono andate bene per i cristiano-sociali. Quindi, nella nuova maggioranza tedesca, si può anzitutto parlare di uno spostamento del baricentro, da posizioni prima un po' più tradizionaliste a posizioni ora un po' più libertarie.

    Inoltre, nel nord del paese, la CDU di Angela Merkel si è salvata grazie al bonus di credibilità personale dalla Cancelliera (luterana). E quindi anche gli equilibri confessionali all'interno dell'Unione (tra CDU bavarese e CSU) si traslano in senso un po' più laico.

    Infine, a sinistra, i Verdi e la Linke hanno parzialmente compensato le perdite della SPD, il cui gruppo dirigente è disarcionato da Oskar Lafontaine. Il Bundestag che ne esce, risulta così articolato in un'esigua maggioranza di centro-destra e una forte opposizione di centro-sinistra. E il secondo governo Merkel, che sul piano parlamentare è ovviamente più debole della  Grosse Koalition, si troverà adesso a dover fronteggiare una più intensa combattività sindacale ed ecologista, senza l'argine dell'ex alleato socialdemocratico, a sua volta all'opposizione.

    Posto che la SPD non cambi nome, ma gruppo dirigente, è prevedibile che si sviluppino nel tempo forme di collaborazione, oltre che con i Verdi, anche con la Linke di Lafontaine.

    Se salterà il preambolo ad excludendum contro la sinistra e acquisirà plausibilità una nuova alleanza Rosso-Rosso-Verde, questa potrà concorrere al governo del paese con serie probabilità di vittoria tra quattro anni.

    Duque, a ben vedere, quelle che giungono dalla Germania non sono propriamente delle buone notizie per quanti in Italia avevano sognato di portare a termine la deriva moderata del centro-sinistra.

    Si può capire che taluni commentatori puntino ora a presentarci Lafontaine come una sorta di piccolo demagogo post-comunista. Ma non è così. Stiamo parlando dell'ex governatore della Saarland, dell'ex presidente centrale della SPD, del candidato socialdemocratico che si batté contro Helmut Kohl nel 1990 (in piena unificazione tedesca) e che infine guidò la SPD alla riconquista della Cancelleria, portando Gerhard Schroeder al governo federale nel 1998.

    In realtà, Lafontaine è un socialdemocratico di sinistra da sempre. Ha coordinato la stesura del programma del partito negli anni Novanta. È stato ministro delle Finanze. Ed è uscito dall'esecutivo perché non condivideva il moderatismo del nuovo Centro socialdemocratico (così si chiamava la "Terza via" in Germania).

    Contro questa credenza (tuttora diffusa nostro Paese) secondo cui le battaglie elettorali si vincerebbero al centro, Oskar Lafontaine ha fondato nel 2005 una formazione, esplicitamente "di sinistra", che di lì a poco si chiamerà Linke (espressione tedesca che significa appunto "sinistra"). Dopodiché la Linke ha inglobato i post-comunisti di Gysi infilando in rapida sequenza un successo elettorale dietro l'altro, non solo nei Laender dell'Est, ma anche a Ovest.

     Dite quel che volete, ma da tutto questo traspare una notevole capacità di giudizio, coniugata a un'abilità tattica non del tutto trascurabile. Non accade spesso, infatti, che un ministro si dimetta perché dissenziente (e nel caso specifico il dissenso si riferiva alla linea neo-liberista, rivelatasi poi perdente). Né è da tutti riuscire a portare in quattro anni una formazione come la Linke al rango di quarta forza politica della terza potenza mondiale. Quindi, forse, non aveva completamente torto Willy Brandt nello stimare Oskar Lafontaine a tal punto da aver pubblicamente indicato in lui il proprio successore.

    Dopodiché, nei salotti televisivi di Berlino, dopo quanto successo in Grecia (dove la protesta giovanile ha provocato la crisi del governo conservatore e aperto la strada al ritorno dei socialisti di Papandreu), si discute, non senza preoccupazione, su come conservare "la pace sociale", così preziosa in Germania, a fronte della grave crisi economica in atto.

    Può la Germania imboccare la via della repressione sociale violenta? O procederà a una redistribuzione più giusta delle ricchezze? In effetti, la stessa domanda si pone in tutto il continente europeo, e anche fuor di esso.

    La posizione dei socialisti su questo punto è ben nota: a Madrid come a Berlino, a Parigi come a Londra, a Lisbona come ad Atene e nella maggior parte dei paesi liberi. Questi i fatti, a voi Roma.