domenica 8 dicembre 2019

Craxi e la sinderesi


Si parla di nuovo di Bettino Craxi in vista dell'anniversario 

dalla scomparsa, e ormai sono passati vent'anni.

 

di Andrea Ermano

 

Non molto tempo fa Gennaro Acquaviva – che di Craxi fu un leale collaboratore (suo braccio destro nella riscrittura del Concordato) e che oggi presiede la Fondazione Socialismo – riassunse la parabola del leader del PSI nel modo che qui tenterò di esporre. 

    L'inizio del craxismo ascendente, disse in sostanza Acquaviva, si ebbe con la vicenda degli Euromissili: un sistema di difesa NATO da contrapporre alla minaccia sovietica. L'URSS aveva dispiegato contro l'Europa occidentale le testate nucleari a media gittata SS-20 e teneva quindi sotto scacco il vecchio continente. L'Alleanza atlantica decise di ripristinare un equilibrio della deterrenza e di dispiegare a sua volta missili a media gettata puntati sull'URSS. Nessuno stato europeo, però, era entusiasta di ospitare le nuove basi missilistiche. E lo stallo occidentale aumentava il vantaggio strategico derivante dall'intimidazione atomica sovietica. 

    Fu il cancelliere tedesco Helmut Schmidt a sbloccare la situazione. Si disse disponibile a farsi carico dello stazionamento, ma al patto che ci fosse una "doppia decisione" e che, insomma, la Repubblica federale non fosse il solo paese a ospitare i missili. A quel punto occorreva che un altro leader europeo affiancasse la Germania ed è esattamente qui che – secondo Acquaviva – entra in scena Bettino Craxi, astro nascente della politica italiana e occidentale. 

    Nel novembre del 1983 la Germania dispiegò i Pershing II a Schwäbisch Gmünd mentre l'Italia stazionava i primi Cruise nella base di Sigonella. 

    Noi giovani allora protestammo duramente contro questa orribile corsa agli armamenti e ci furono numerose manifestazioni per la pace: a New York, Lisbona, Bonn, Roma e in cento altre città dell'occidente. Mosca per parte sua ispirò una lunga serie di campagne contro Bettino Craxi ed Helmut Schmidt, presentati come i due leader euro-socialisti "nemici della pace". Di qui una ragione strutturale dell'inconciliabilità tra Craxi e Berlinguer: c'era il veto del Cremlino. Erano cambiati, però, gli equilibri strategici e di conseguenza cambiò anche l'assetto di potere nel PCUS, sicché nel dicembre del 1987 tra Gorbaciov e Reagan fu firmato a Washington il Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) che pose fine alla vicenda dei missili nucleari a medio raggio installati da USA e URSS sul territorio europeo. Un risultato storico.

    A Sigonella, dunque, iniziò la parabola ascendente di Craxi. Ma a Sigonella iniziò anche quella discendente. Perché fu proprio nella base siciliana dell'aeronautica militare che Craxi rischiò lo scontro armato tra i nostri Carabinieri e un reparto speciale delle forze armate statunitensi circa la sorte dei sequestratori della nave Achille Lauro. Il presidente del Consiglio intese porsi in difesa della sovranità nazionale e degli interessi politico-diplomatici italiani rispetto al mondo palestinese rifiutando di consegnare Abu Abbas agli americani. 

    Nel corso dell'azione terroristica contro la Achille Lauro era stato assassinato il cittadino statunitense di religione israelita, Leon Klinghoffer, disabile, che si trovava a bordo della crociera come semplice passeggero. Il suo corpo venne gettato in mare. 

    Abu Abbas, che era un alto dirigente palestinese, indusse i quattro miliziani, esecutori materiali del dirottamento, a cessare l'azione terroristica. Ciò avvenne dietro pressione diretta del leader palestinese Yasser Arafat il quale, su richiesta di Craxi, convinse Abu Abbas a recarsi a Porto Said per convincere i dirottatori a desistere. A tutti loro venne promesso dall'Italia un salvacondotto. E però il regista dell'operazione era proprio Abu Abbas, quantomeno per l'intelligence americana e israeliana, ma probabilmente anche per lo stesso Arafat che ad Abbas e non ad altri si era infatti rivolto. In seguito la magistratura italiana ritenne provata la responsabilità di Abbas nell'organizzazione del dirottamento e lo condannò all'ergastolo in contumacia.

    Per farla breve, Bettino Craxi, che era uno statista non privo di orgoglio nazionale e ricco di autostima personale, andò al cozzo con gli americani, come avrebbe potuto fare ad esempio François Mitterrand. Dimenticando che l'Italia non è la Francia, e ciò per tante ragioni troppo lunghe qui da elencare. Spesso il fallimento dipende dalla sopravvalutazione delle proprie forze e dalla sottovalutazione di quelle altrui.

    Gli americani lasciarono cadere Craxi come una patata bollente, sostiene Gennaro Acquaviva. E i tanti anti-craxiani (tra cui i russi) fecero il resto. Il segretario del PSI non era un santo, ma nemmeno meritava il trattamento da "homo sacer" che gli fu riservato da uomini non certo migliori di lui.

 

A quei tempi io ero un giovane ondivago con arie da intellettuale e non capivo nulla di Guerra fredda eccetera. Verso la fine degli Anni Ottanta stesi una lettera non formale nella quale chiedevo di iscrivermi alla sezione del PSI della mia città d'origine. Bettino Craxi non era più premier e Sandro Pertini aveva concluso il suo mandato presidenziale da un paio d'anni. Ma motivai la mia richiesta d'iscrizione con l'apprezzamento per la buona prestazione di governo del leader del PSI e soprattutto per la straordinaria anima socialista impersonata dal Presidente partigiano. 

    Erano gli anni in cui Gianni De Michelis proponeva a Massimo Cacciari di entrare nel partito socialista e Cacciari gli rispondeva che lui era già ricco di suo e quindi la tessera non gli serviva. Non ero fierissimo del PSI di cui entravo a fare parte. Oltre tutto, il mio ribellismo post-sessantottino detestava seguire una tradizione familiare e sia pure per meditata convinzione politica. Non crediate che fossimo tutti ciechi. Alcuni scandali erano già scoppiati a Torino. Ma financo sul piano dell'onestà intellettuale e della pulizia morale l'iscrizione al Partito socialista italiano fu per me una scelta di vita, e passatemi il prestito amendoliano. 

    Fin lì avevo dato il mio voto ora ai Radicali di Pannella, ora ai marxisti critici come Sofri e Rossana Rossanda, ora ai Verdi e anche agli stessi socialisti. Quanto al Pci, ricordo di essermi molto commosso in seguito alla morte di Enrico Berlinguer nel 1984 e di avere poi esultato per il "sorpasso" che quell'anno avvenne alle europee da parte dei comunisti ai danni della Democrazia Cristiana. 

    Qui a Zurigo il mio vecchio professore di filosofia, Rudolf W. Meyer – che conosceva Leibniz, Hegel e Marx a menadito, come dalle nostre parti avrebbe potuto conoscerli solo un Benedetto Croce – mi guardò tra l'ironico e il divertito: «Queste sono specialità un po' troppo interne alla politica italiana perché io possa riuscire a capirle». Gli risposi, secondo la vulgata di allora, che bisognava rompere il monopolio democristiano allo scopo di generare anche in Italia uno spazio politico capace di alternanze e alternative. Anzi, aggiunsi, a quel punto l'aspettativa generale del popolo di sinistra rispetto al PCI era che tutti loro aderissero all'Internazionale Socialista di Willy Brandt.

    Di lì a poco, a Mosca arrivò Gorbaciov. A Botteghe Oscure Achille Occhetto. Al Quirinale il "picconatore" Cossiga. I missili furono tolti da entrambe le parti. E a Berlino il Muro cadde. Fu proprio a Berlino che Occhetto a nome del Pci-Pds chiese a Craxi di entrare nell'Internazionale Socialista. E Craxi gli disse di sì. Tre anni dopo gli attivisti del Pci-Pds, reduci da un comizio romano di Occhetto, coprirono di monetine il leader socialista all'uscita dal Raphaël sottoponendolo a una gragnuola di sputi, minacce e insulti irripetibili. 

    Craxi divenne l'unico esponente politico italiano dopo Cicerone ad avere finanziato attività di partito con mezzi irregolari o illegali. Fu attaccato da grandi industriali che si dichiararono "concussi" e cioè vittime di estorsione (salvo essere condannati per corruzione). Venne trasformato in capro espiatorio dagli altri leader politici che, terrorizzati dal pool di "Mani pulite", giuravano tutti di avere anch'essi le "mani pulite" (salvo seguire la stessa sorte degli industriali di cui sopra). 

    Quanto tempo è passato! Fu uno spettacolo davvero molto avvilente. Certo, ebbero le loro colpe senza se e senza ma i "socialisti rampanti" – molti dei quali furono "rampanti" soltanto, senz'essere mai stati "socialisti" e men che mai divennero tali dopo la caduta di Craxi. Usarono il PSI, la politica, la cosa pubblica: per fare i comodi loro. E sai che novità.

    Dopodiché il nuovo che avanza qui non finisce mai. Con la parola "qui" s'intende un Paese sempre più avvitato nelle proprie furbizie. Chissà se ci si rende ben conto di ciò che provoca tutta questa auto-santificazione populista destinata a creare sempre più dirompenti vuoti politici vocati a essere riempiti da ulteriori furbismi.

    Sul nostro paese è sceso come un incantesimo. 

    Siamo giunti al Parlamento che approva per acclamazione, o quasi, un taglio del numero dei parlamentari in segno di disistima verso se stesso. Auguriamoci che il ventesimo anniversario dalla scomparsa di Bettino Craxi aiuti un minimo di sinderesi. Che cosa vuol dire sinderesi? Un po' come Dante nell'Inferno questa parola simboleggia, secondo alcuni pensatori medievali, la capacità residua da parte dell'uomo di intuire il bene nel male.




martedì 19 novembre 2019

Ma dov’è finito il nostro “soft power”?

 Com'è che, a trent'anni dalla caduta del Muro di Berlino, l'Occidente 

ha perduto la sua capacità di attrarre i popoli al proprio modello di vita? 

 

di Andrea Ermano

 

Dai tempi della caduta del Muro di Berlino moltissima acqua è passata sotto i ponti. E non poca è passata per altro anche sopra i ponti, tracimando, allagando e inondando, come succede "ancora una volta per la prima volta" a Venezia e in altri luoghi del Belpaese (vai al sito di RaiNews sull'acqua alta a Venezia). La causa dell'ormai endemico dissesto idro-geologico italiano va sommandosi agli effetti del surriscaldamento climatico e a tutto il resto che si sa ma non si dice per carità di patria. 

    Ma torniamo al Muro di Berlino. Chi trent'anni fa ne ha vissuto in "presa diretta" la caduta non può dimenticare l'entusiasmo dei tedeschi dell'Est che ballavano la lambada sotto la Porta di Brandeburgo, sognando di potere sostituire già all'indomani la loro vecchia Trabant con una Ferrari nuova di zecca. L'allargamento a Est, sia in Germania che nell'intero continente, ha trovato il proprio asse più forte intorno all'industria automobilistica europea e non solo sul piano economico-sociale. Ma non tutto è filato liscio come negli spot delle Audi. Annota nelle sue Spigolature Renzo Balmelli: «All'indomani dei festeggiamenti si scopre che altri muri, altri reticolati, altri stati d'animo, altri spartiacque in chiave negativa, minacciano la cultura democratica dell'accoglienza e della solidarietà».

    Come siamo giunti a questo punto? E pensare che al politologo americano Francis Fukuyama la caduta del Muro sembrò confermare nella misura più evidente un mega-trend "epocale" segnato dal trionfo di sistema della liberaldemocrazia, considerata come la meta finale della Storia. La "fine della storia" cui, secondo Fukuyama, si era ormai approdati giungeva dopo il fallimento di tutti gli altri esperimenti politici, la monarchia, l'oligarchia e il totalitarismo. Proprio questi errori storici inducevano in seguito alla loro sconfitta i popoli della Terra ad abbracciare le forme statuali della democrazia liberale e quelle economiche del mercato capitalistico che si regola da sé. 

    Per oltre un decennio, fino al tragico 11 settembre 2001, credemmo tutti o quasi tutti all'inarrestabile progredire del "nuovo che avanza" e in generale del "nuovo ordine mondiale". Si registrò una notevole espansione della democrazia liberale in un crescendo economico-finanziaria detto "globalizzazione". In Italia si liquidò la "partitocrazia" della Prima Repubblica, si diede il via a una "lenzuolata" di liberalizzazioni e privatizzazioni, si indebolì ovunque possibile il ruolo dello stato, si sospese ogni forma di leva obbligatoria (mentre si sarebbe potuto sostituire quella militare con quella civile) e si intensificò progressivamente la presenza delle nostre forze armate in un novero sempre più ampio di teatri di guerra. 

 

A proposito di guerra, è proliferata in questi trent'anni una sequela di "presenze italiane" in una ventina di teatri bellici. Ovviamente i nostri "ragazzi" si distinguono ovunque per preparazione, umanità e intelligenza. Tutti i popoli del mondo, leggiamo sui giornali nazionali, sono molto lieti di ospitare truppe tricolori, fatta eccezione forse per la Libia. 

    Dopo trent'anni il libero mercato, che si è regolato da sé, ha prodotto tre conseguenze di enorme portata geo-politica: la Cina si predispone a riprendersi il suo ruolo tradizionale di "Impero di Mezzo", la situazione economico-finanziaria è "storicamente interessante" e il transfert di ricchezza dai ceti popolari ai super-paperoni ha assunto dimensioni mai viste nell'intera storia umana. 

    Dopo trent'anni di libero mercato autoregolato e di esportazione della democrazia liberale cresce il numero dei paesi in cui è in atto un'involuzione politica e culturale massiccia, sia all'interno dell'UE dove crescono le posizioni esplicitamente "non-liberali" (Orban, Le Pen, Salvini…), sia in molte altre parti del mondo tra cui per esempio nella vicina Turchia. 

    Quanto al Cremlino post-sovietico, dopo trent'anni di pressing strategico la nato si è espansa fino ai confini del territorio russo, con il rischio conseguente di spingere Putin tra le braccia di Xi Jinping. E questo non può fare bene all'Occidente, oggi alquanto disorientato e diviso. 

    Nel suo recente saggio Assedio all'Occidente il direttore della Stampa di Torino, Maurizio Molinari scrive: «Non c'è alcun dubbio sul fatto che la Repubblica Popolare Cinese sia un regime monopartito dal 1949 e la Federazione Russa sia nelle salde redini del partito di Putin dal 2000, ma ciò che colpisce è la volontà di esaltare queste forme di autocrazia al fine evidente di attestarne la superiorità rispetto al maggior rivale sulla scena globale: la democrazia rappresentativa dell'Occidente. Tanto più Europa e Stati Uniti hanno sistemi politici indeboliti, leader incerti e vulnerabili, parlamenti paralizzati e inefficaci, tanto più le maggiori autocrazie del pianeta puntano a sfruttare la comunicazione di massa per vantare la loro superiorità» (vai alla scheda del libro sul sito dell'editore).

    Una protagonista del passaggio di secolo, Madeleine Albright, prima donna a ricoprire negli USA la carica di Segretario di Stato (1997-2001), denuncia il fatto che oggi la destra radicale "è di nuovo di moda" in Occidente. Madeleine Albright ha pubblicato alcuni mesi fa un libro dal titolo piuttosto eloquente: Fascismo. Un avvertimento (vai alla scheda del libro sul sito dell'editore).

    In tema di "assedio all'Occidente" e di "seconda guerra fredda", che forse tanto fredda non è, tutti ricordano l'espressione "guerra mondiale a pezzi". Nel visitare il cimitero di guerra di Redipuglia – presso quella città di Gorizia "maledetta" per i macelli della Prima Guerra Mondiale e delle famigerate "battaglie dell'Isonzo" in cui perirono inutilmente decine e decine di migliaia di ragazzi – papa Bergoglio disse: «Dopo aver contemplato la bellezza del paesaggio di tutta questa zona, dove uomini e donne lavorano portando avanti le loro famiglie, dove i bambini giocano e gli anziani sognano, trovandomi qui, in questo luogo, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia! (…) Oggi, dopo il secondo fallimento di una guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta 'a pezzi' con crimini, massacri e distruzioni». 

 

Ma com'è che l'Occidente ha perduto quasi tutta la sua capacità di attrarre i popoli al proprio modello di vita? Com'è potuto accadere che ci si ritrovi ora in una sorta di sindrome weimariana globale?

    Le cause sono molte, ma per quel che concerne la "seconda guerra fredda" sul versante post-sovietico una voce critica si è distinta – durante le celebrazioni per il trentennale della caduta del Muro – la voce di Michail Gorbaciov: «Il processo di espansione verso est della Nato, iniziato pochi anni dopo che ho lasciato la presidenza dell'Urss (…) ha violato lo spirito degli accordi raggiunti durante la riunificazione della Germania, e minato la fiducia reciproca raggiunta» (vai al testo dell'intervista sul sito de "il manifesto").

    Su ciò possiamo citare lo storico israeliano Yuval Harari che riassume lo stato dell'arte come segue: «I russi possono sostenere a ragione che dopo le loro pacifiche ritirate alla fine degli anni ottanta e dei primi anni novanta sono stati trattati come un nemico sconfitto. Gli Stati Uniti e la nato hanno approfittato della debolezza dei russi e, nonostante la promessa di fare il contrario, hanno esteso la nato all'Europa orientale e perfino ad alcune ex repubbliche sovietiche. L'Occidente ha poi ignorato gli interessi russi in Medio Oriente, ha invaso la Serbia e l'Iraq con pretesti discutibili e in generale ha fatto capire alla Russia che poteva contare soltanto sulla sua forza militare per proteggere la sua sfera d'influenza dalle incursioni occidentali. In questo senso, per le recenti mosse militari russe, si possono rimproverare tanto Bill Clinton e George W. Bush quanto Vladimir Putin» (vai alla scheda del libro sul sito dell'editore).

    Oggi a ragion veduta ci domandiamo: non sarebbe stato meglio dare una mano all'allora Segretario generale del PCUS, come all'epoca era stato pur promesso dall'Occidente, affinché Gorbaciov fosse messo nelle condizioni di poter portare avanti le sue riforme, la Perestrojka e la Glasnost?

    Oggi Gorbaciov, alla domanda su quale fu il protagonista della caduta del Muro di Berlino, risponde con queste parole: «Quando voi giornalisti me lo chiedete rispondo sempre che il personaggio principale di quel periodo turbolento fu la gente. Non sminuisco il ruolo dei politici, è stato importante. Ma il ruolo principale è stato svolto dal popolo, da due popoli. I tedeschi, che risolutamente e, soprattutto, pacificamente espressero la loro volontà di riunirsi. E, naturalmente, i russi, che mostrarono comprensione per le aspirazioni dei tedeschi. Russi e tedeschi hanno il diritto di sentirsi orgogliosi di essere riusciti a incontrarsi dopo lo spargimento di sangue della Seconda guerra mondiale. Senza ciò, il governo sovietico non sarebbe stato in grado di agire come agì in quel momento».

    Nel panorama di capitalismo sfrenato, inanità politica e avventurismo strategico cui abbiamo assistito nell'ultimo trentennio, quel che salta agli occhi è, dunque, la crisi verticale del cosiddetto "soft power". Che null'altro è se non il consenso popolare di cui parla Gorbaciov intorno ai valori liberaldemocratici e allo stile di vita occidentale. 

    Quel consenso indusse i sovietici ad accettare trent'anni or sono la caduta del Muro di Berlino. Sì, qualcuno saprebbe dirci per favore dov'è finito inostro "soft power"? La questione non ci pare meramente storiografica. Presenta aspetti di bruciante attualità. «Quanti sono i messaggi sul web contro gli ebrei in Italia?», è la domanda che pone e si pone il giornalista di Repubblica Piero Colaprico. Per l'anno corrente non pare possibile una stima esaustiva, ma se ne deduce l'ordine di grandezza facilmente sulla base di questo semplice dato: solo Twitter conta finora oltre 15mila insulti antisemiti. In particolare, in rete vengono prodotti duecento attacchi verbali rivolti quotidianamente alla senatrice a vita Liliana Segre (con formulazioni del tipo: "Mi chiedo perché non sia cr... insieme a tutti i suoi parenti"). 

    Scandalosa. L'aggressione in rete ai danni della Senatrice a vita è scandalosa. E ora ci mancavano soltanto le parole del leader nazional-sovranista Salvini: «A me è appena arrivato un altro proiettile, ma io non piango. In un Paese civile non dovremmo rischiare niente né io né la Segre». Così parla l'ex ministro dell'Interno, come se qui qualcuno si fosse messo a "piangere", come se questa peste nera non fosse scoppiata anche a causa della "Bestia" (la squadra di trentacinque propagandisti "social" salviniani), come se "la Segre" in quanto superstite e testimone della Shoah non avesse già rischiato più che abbastanza nel nostro "civile" Paese (vai al testo del servizio sul sito de "la Repubblica").


venerdì 31 maggio 2019

SOVRAMAGNIFICENTISSIMAMENTE

 Fino a oggi avremmo detto essere precipitevolissimevolmente (ventisei lettere) la parola più lunga della lingua italiana. Fu coniata da Francesco Moneti nella Cortona convertita del 1677: «Perché alla terra alfin torna repente / precipitevo­lis­si­me­vol­mente». Avremmo detto. Ma non si smette mai d’imparare. Appren­diamo ora che Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia menziona una parola ancora più lunga sovramagnificentissimamente (ventisette lettere), che è un endecasillabo, “quod endecasillabum est”, precisa non senza zelo il sommo Poeta.

 

di Andrea Ermano.

 

Si pensava che l’ex Cavaliere si fosse prodotto in un tonfo incomparabile dopo il bunga bunga della famosa nipotina di Mubarak perché in soli cinque anni, dal 2008 al 2013, era riuscito a polverizzare 3’705'864 voti.

    Solo Renzi poteva replicare qualcosa di simile lasciando sul campo 3’320'576 voti in quattro anni, dalle Europee del 2014 alle Politiche del 2018.

    Pensavate voi. Perché poi è arrivato il Movimento Cinque Stelle: 6’376’322 voti perduti in un anno.

    E Salvini? Ricordate l’audace colpo architettato dal gran mattatore? Mandare a casa gli gnomi rossi del PSE e sfracellare il presidente Macron.

    Be’, Macron guida, di fatto, l’ALDE, terza forza politica continentale, con 109 seggi conquistati, record storico, 42 in più rispetto alla precedente tornata.

    Gli gnomi rossi del PSE restano abbarbicati al secondo posto dopo il PPE.

    Intanto, la Commissione ha recapitato una lettera al Governo italiano, con richiesta urgente di chiarificazioni sulla situazione economica. Gli economisti stessi parla­no di manovre da quaranta miliardi in agguato per l’autunno e lo spread sale.

    Sic stantibus rebus, la clausola di salvaguardia prevede l’aumento dell’IVA dal 1° gennaio 2020. L’avvocato degli italiani, Giuseppe Con­te, resta quanto mai isolato sul piano europeo e internazionale.

    Grande è la confusione sotto il cielo.

    Trattandosi di una situazione abbastanza indecifrabile, lasciateci rinviare qualun­que analisi a un tempo indeterminato. In questo genere di dinamiche politiche molto complesse e instabili occorre attivare quel che lo psicologo israeliano Daniel Kahne­man, premio Nobel per l’economia 2002, chiama “i pensieri lenti”.

    Che cosa sono i pensieri lenti? Sono quelli di quando ti devi spremere le meningi e il tuo cervello brucia un sacco di energia.

    Ma perché risparmiare glucosio, compagne/i?

    Quel che importa, in fin dei conti, è costruire un dibattito «che da un lato sostenga la libertà personale e dall’altro possa indurre la gente a compiere scelte di cui poi non abbia a pentirsi amaramente», è la tesi del grande psicologo israeliano, padre della moderna teoria delle decisioni in condizioni d'incertezza.

 

 


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giovedì 18 aprile 2019

Cronache di non ordinaria barbarie

 In vista del 25 aprile noi ci appelliamo alle tante ragazze e ragazzi che nuovamente nutrono ideali socialisti, affinché facciano crescere con ogni mezzo

legale e civile un deciso NO alla barbarie salviniana che si sta allargando

e che irride apertamente i valori della Costituzione nata dalla Resistenza.

 

di Andrea Ermano

 

Un’immagine che in questi giorni ha fatto il giro del mondo ritrae dimostranti della destra romana mentre a Torre Maura calpestano il pane destinato a poche decine di nomadi accolti in una struttura di solidarietà in quel quartiere. E mentre prendono a calci il pane, esclamano: “Devono morire di fame”. Questo gridano all’indirizzo delle famiglie nomadi accolte a Roma, intendendo, com’è lecito supporre, tutte le famiglie nomadi.

    Morire di fame!? Ma hanno una vaga idea di che cosa significa? E dopo? Torre Maura verrà ribattezzata “Torre della Fame”, come la Torre della Muda, quella in cui nel 1289 fu rinchiuso per ordine dell'arcivescovo di Pisa il Conte Ugolino insieme ai figlioletti? Dante racconta la fine del conte come un atroce episodio di cannibalismo, in cui chi perisce per primo viene mangiato da chi gli sopravvive, ma gli sopravvive solo per poco, finché la Torre non li avrà ammazzati tutti. E dopo? Nella Divina Commedia Ugolino della Gherardesca morde in eterno il cranio dell'arcivescovo Ruggieri.

    Qualche giorno fa l’ex presidente degli Stati Uniti visitando la Germania ha fatto presente che oggi a difendere l’Occidente e i suoi valori c’è sostanzialmente solo l’Europa (osteggiata da Trump non meno che dalle superpotenze orientali). Barack Obama ha altresì aggiunto che, pur con i suoi tanti acciacchi, l’Europa rappresenta oggettivamente il punto più elevato che la qualità della vita umana abbia mai raggiunto durante l’intera storia del mondo.

    Peccato che un’ondata di “sovranisti” al soldo di governi stranieri sembri impegnata a scassare tutto. E ciò proprio nell’epoca in cui il modello UE potrebbe rivelarsi particolarmente utile all’umanità intera (oltre che a noi stessi).

    Poco ce ne cala, dunque, se la barbarie è popolare (oltre che populista). «Non solo è morale, ma fondamentale condurre anche le battaglie impopolari. In particolare, quella che riguarda i Rom, ha commentato l’ex direttore del TG1, Gad Lerner: «Quando gli hanno calpestato il pane, l’altro giorno a Torre Maura, io l’ho sentito come un gesto addirittura sacrilego. Mi ha proprio ferito».

    E, in quanto israelita, Lerner ha aggiunto di avere pensato alla Pasqua ebraica, che si festeggerà tra due venerdì: «Celebreremo la liberazione dalla schiavitù in Egitto sollevando il pane azzimo, dicendo: Questo è il pane dell’afflizione… Per secoli su quel pane azzimo c’è stata l’accusa che noi lo avremmo impastato con il sangue dei bambini cristiani. Esattamente come per secoli si è continuato a dire che “gli zingari rubano i bambini”. La stessa identica diffamazione e denigrazione che ci ha portato insieme nei campi di sterminio».

    Sì, perché, come puntualizza Lerner, «mezzo milione di Zingari sono morti nei campi di sterminio. Solo che adesso agli Ebrei non si osa più dire una cosa del genere. A loro, invece, si continua a dire che se lo meritano perché sono tutti ladri. Allora mi piacerebbe tantissimo che le Comunità Ebraiche andassero a offrire del pane azzimo ai Rom, là dove vivono».

    Ci permettiamo di rilanciare questo appello di Lerner in vista anche di un’altra Festa della Liberazione che si celebrerà prossimamente nel nostro Paese, il 25 aprile.

    Chiediamo a tutte le persone di sinistra e in particolare alle tante ragazze e ragazzi che nuovamente nutrono ideali socialisti, affinché dimostrino con ogni mezzo legale e civile la nostra solidarietà per i Rom e la nostra ripulsa più decisa per questa barbarie che si sta allargando.

    Ieri il leader della Lega e ministro degli interni Matteo Salvini, a margine della Festa della Polizia a Roma, ha detto che intende disertare le celebrazioni per la Liberazione: «Il 25 aprile non sarò a sfilare qua o là, fazzoletti rossi, fazzoletti verdi, neri, gialli e bianchi».

    Come rileva con giusta “costernazione” Renzo Balmelli nelle sue Spigolature, siamo per la prima volta di fronte a un Ministro degli Interni che irride apertamente i valori della Costituzione su cui ha giurato.

    Ultim’ora lievemente farsesca. Nell’Italia del salvinismo dilagante è ritornato Caio Giulio Cesare. Così si chiama di nome un pronipote di Mussolini. Ebbene questo Caio Giulio Cesare Mussolini è ora candidato alle europee nella lista di Fratelli d’Italia e dichiara: «Sono stato scelto per le mie lauree, ma userò il cognome per farmi eleggere». Le lauree? Suvvia. Che la Meloni se lo sia preso in lista proprio invece per il cognome ducesco, va da sé, secondo il motto per cui a pensar male si fa peccato, ma s’indovina. E però questo Caio Giulio Cesare Mussolini, nonostante la ridondanza di nomi e cognomi, non medita una marcia su Roma, a differenza sia del bisnonno sia dello storicamente ben più importante e influente Divo Giulio. Anche questo qui vorrebbe varcare il Rubicone, ma in senso inverso. Destinazione Bruxelles. Galli, Britanni e Germani sappiate che lui sta arrivando, forse.

 

 

 


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giovedì 4 aprile 2019

Ciao, Cino Da Monte

 

Prendendo commiato da Romano Marchetti (1913-2019), nome

di battaglia "Cino Da Monte", decano dei partigiani italiani.

 

di Andrea Ermano

 

Era “sazio di giorni” si legge attorno a certe figure bibliche la cui fuoriuscita dal ‘tempo’ vuol essere presentata come lo spegnersi naturale, in tarda età, di un giusto. Sazio di giorni mi pare un’espressione adeguata alla notizia, triste, della scomparsa di Romano Marchetti, che aveva compiuto centosei anni nel gennaio scorso ed era il decano dei Partigiani italiani, nome di battaglia "Cino Da Monte".

    Lo avevo conosciuto verso la metà degli anni Settanta, io ventenne, lui pensionato di fresco. Ora non mi va di confidare a un “coccodrillo” giornalistico la lunga sequenza di convergenze e divergenze e incroci e intrecci di cui si sostanzia un’amicizia durata più di quattro decenni, amicizia che per altro condivido con tante altre persone, vive e morte, compagne e compagni, nei confronti delle quali e dei quali Romano è stato a volte mite, a volte severo, sempre generoso di sé.

    Qui devo dire solo che senza di lui non mi sarei caricato del mio fardello, quello che la vita mi ha riservato nel compito di coordinare le attività del “Centro Estero socialista” di Zurigo. Senza Marchetti “Cino Da Monte” non avrei compreso, percepito e saputo sentire, con l’intensità necessaria, il significato del “Centro Estero”, che in anni ormai lontanissimi, ma non dimenticati, aveva ispirato l’opposizione al ‘mussolinismo’ fin dai tempi della “Guerra alla guerra” per sfociare dopo l’8 settembre 1943 nella Resistenza contro la barbarie nazifascista.

    Dal punto di vista storico e in tema di Resistenza italiana, la cultura politica di cui “Centro Estero” di Zurigo a trazione siloniana è stato punto di riferimento indiscusso si è concretizzata non da ultimo nelle repubbliche partigiane dell’Ossola e della Carnia, nonché nella “Brigata Maiella”, che era guidata da Ettore Troilo e che fu l’unica formazione partigiana decorata di medaglia d'oro al valore militare alla bandiera.

    Durante l’autunno del 1944 il collegamento del “Centro Estero” con la Repubblica dell’Ossola veniva mantenuto tramite i “passatori” che dalla Svizzera importavano armi e viveri nella Zona Libera. Come per la “Brigata Maiella” anche il coordinamento delle operazioni in sostegno dell’Ossola fu assunto da due socialisti di tradizione turatiana: Luigi Zappelli (1886/1948), che era stato sindaco di Ver­bania prima del fascismo e che ritornerà a esserlo dopo la Liberazione, e Gu­gliel­mo Canevascini (1886/1965), che fu Consigliere di Stato ticinese dal 1922 al 1963.

    Con la Repubblica Libera della Carnia si trattò di un collegamento più ideale che materiale. Il “contagio” partì da Fermo Solari (1900/1988), nome di battaglia "Somma". Solari discendeva da una antica famiglia carnica di orologiai e si era diplomato ingegnere a Friburgo in Svizzera nel 1926. Fu dal 1942 il principale esponente friulano del Partito d’Azione, divenne poi successore di Ferruccio Parri quale vicecomandante generale del Corpo Volontari della Libertà e nel 1947 fu eletto alla Costituente.

    Con il “sanguigno” Solari “Somma” entra in contatto Romano Marchetti a Udine nel 1943: «Ho fatto la guerra in Grecia e in Albania come ufficiale degli Alpini, e ne sono uscito… “sedentario”, sia per delle brutte ferite alle gambe sia a causa del tifo, che mi aveva portato in fin di vita. Vengo richiamato dopo un anno circa di convalescenza e sono alla caserma di Udine dall’ottobre del 1942 fino all’inizio del ’43. Verso dicembre o gennaio, un giorno mi trovo nella compagnia deposito cui ero stato assegnato insieme al direttore della casa editrice Idea, Nino Del Bianco; a un certo punto dico “la guerra è perduta, cosa possiamo fare per questa Italia?”. Lui tace, ma l’indomani o dopo qualche giorno mi porta un opuscolo. Del Bianco era già aggregato ad un piccolo gruppo in un certo modo diretto da Fermo Solari, che intendeva prepararsi al fatto che l’Italia doveva ritornare alla democrazia. Fermo Solari aveva scritto l’opuscolo lì a Udine… e l’aveva firmato anagrammando il proprio nome».

    Così Marchetti in un’ampia intervista da lui rilasciata nel 2005 e disponibile sul sito “Carnia Libera” (vai al sito): «Mi carico di opuscoli, vengo su in Carnia e giro sia a piedi che in bicicletta creando la rete. Ogni tanto veniva da me quello che faceva altrettanto per la Garibaldi, era un reduce di Spagna: “Ugo”, Giovanni Pellizzari, di Preone. Mi attendeva fuori della Chiesa di domenica. Facevo i primi tre giorni della settimana a Udine, perché l’incarico di insegnante allo Zanon [l’Istituto per Geometri, n.d.r.] era solo per tre giorni; gli altri quattro fra Maiaso e, non so, Ovaro, Forni di Sopra, Enemonzo, Villa Santina, Comeglians, la Val Pesarina, Ravascletto, Preone; e soprattutto nella Val Chiarzò: avevo creato una rete. Non proprio una rete, ma qualcosa di simile, ha cercato di fare anche Pellizzari. Però lui aveva meno entratura, direi, mentre io conoscevo un po’ di gente: ad esempio avevo un amico a Paularo che era stato in guerra con me in Grecia, Giovanni Del Negro, oppure a Sutrio avevo preso contatti indirettamente perché conoscevo il figlio di uno di Sutrio, Enzo Moro, che abitava a Tolmezzo, ma andava su e giù. Quasi dappertutto, insomma, la rete era completa… Una delle mie basi era anche l’ambulatorio di Aulo Magrini, in Val Pesarina: mi mettevo in coda come fossi un paziente, e gli portavo gli opuscoli. Un altro contatto era Marco Raber, a Comeglians, che era stato nella milizia forestale».

    Costruita la “rete”, Marchetti assume la funzione di “Delegato politico” della Brigata Osoppo. Il suo principale merito storico sta senza dubbio nell’unificazione del comando con la Brigata Garibaldi in Carnia: «L’idea di riunire Osoppo e Garibaldi era anche dei comunisti. Molto spesso “Andrea” Mario Lizzero e “Ninci”, l’uno commissario e l’altro comandante di tutte le formazioni del Friuli, me l’avevano anche detto. Ma non occorreva che me lo dicessero: io già dall’inizio non capivo questa divisione».

    Anche grazie all’unificazione tra le brigate Osoppo e Garibaldi furono evitati nel Friuli occidentale sanguinosi episodi di lotta intestina tra partigiani come la Strage di Porzûs. Sicuramente è da questa unità d’azione che può nascere la Repubblica Libera della Carnia: «A fine settembre ’44 il comandante osovano "Da Monte" Romano Marchetti propose ai comunisti, che accettarono immediatamente, di creare un comando unificato Garibaldi-Osoppo. La decisione divenne operativa, ma, all'insaputa dello stesso “Da Monte”, che per le sue posizioni liberalsocialiste fu esautorato dai suoi superiori», si legge sul sito Carnia Libera (vai al passo).

    Fu esautorato, ma così nasceva la Repubblica Libera che aveva capitale Ampezzo e un'estensione di 2.580 Kmq, per una popolazione di quasi 90.000 persone, la più ampia in Italia.

    E qui mi fermo. Perché è qui la cifra forse più vera della lunga esistenza di Romano Marchetti, “sublime anarchico” della Carnia tante volte sconfessato e scomunicato nel tempo che passa per ripresentarsi con le sue idee vittoriose di Giustizia e Libertà nel tempo che viene e che verrà: «La moralità rinacque in me al tempo della Resistenza. Poi magari è morta di nuovo, ma la vera moralità, ripeto, ricomparve quando mi feci partigiano».

 

 

 


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martedì 26 marzo 2019

Tra il serio e il faceto

di Andrea Ermano

 

Ci dicono dall’Unesco che oggi si celebra la Giornata mondiale della poesia. Sul sito dell’ONU (vai al sito) si legge una lirica di César Vallejo (1892-1938) che inizia così:

 

Tutte le mie ossa sono d'altri;

io forse le ho rubate!

 

Sul sito Le parole e le cose Vallejo viene descritto come “il poeta della povertà fino alla miseria… il poeta del poco e del nulla, che non basta, ma che deve essere fatto bastare, perché non c’è altro”. Un poeta chiaramente “di sinistra”.

      A proposito di poesia, Alberto Asor Rosa ricorda che nel suo libro Scrittori e popolo (1964) aveva “stroncato” i romanzi di Pier Paolo Pasolini. E Pasolini una volta a un convegno gli disse: «Sei quello che nella mia vita mi ha fatto più male». E figuriamoci se poteva essere quello il più grande dolore di un grande poeta. Sublime ironia chiaramente “di sinistra”.

    L’ultimo libro di Asor Rosa è dedicato a Machiavelli che tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento scrive pagine di ghiaccio bollente affinché gli “staterelli” si uniscano di fronte alla nuova costellazione geopolitica, che poi altro non è se non l’inizio della globalizzazione inaugurata con la scoperta dell’America.

    «L’Italia soggiace alla superiorità politica e militare delle grandi potenze europee. Le famiglie di Roma e Firenze, a cui Machiavelli si rivolge, potrebbero costituire embrionalmente lo Stato nazione», dice Asor Rosa in un’intervista a Luca Telese.

    Ovviamente, nessuno ascolta il Segretario fiorentino, sicché “i principi italiani vengono schiacciati dall’impero”, nota Asor Rosa ricordando che la sconfitta subita dal Bel Paese in quei trent’anni a cavallo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento è una “grande catastrofe”, una catastrofe politica “di lunga durata”, come scrive Machiavelli.

    «La storia italiana ha questo di bello: quando uno prende un qualsiasi avvenimento del passato, scopre che qualcosa di incredibilmente attuale emerge sempre», osserva Asor Rosa con un’allusione abbastanza trasparente alla situazione degli “staterelli” europei che si presentano divisi e frammentati all’alba di una nuova era.

    Oggi è giunto a Roma Xi Jinping, l’erede di Mao. E ieri in un ampio articolo apparso sul Corriere il leader cinese ha illustrato il punto di vista della grande potenza imperiale asiatica in tema di rapporti con l’Italia.

    «La Cina è disponibile per consolidare la comunicazione e la sinergia con l’Italia in seno alle Nazioni Unite, al G20, all’Asem e all’Organizzazione Mondiale del Commercio su tematiche come la governance globale, il mutamento climatico, la riforma dell’Onu e del Wto e altre questioni rilevanti, al fine di tutelare gli interessi comuni, promuovere il libero scambio e il multilateralismo e proteggere la pace e la stabilità mondiale e consentire uno sviluppo fiorente», scrive tra l’altro il Presidente della Repubblica popolare cinese.

    L’illustre ospite venuto da Pechino ribadisce più volte concetti come cooperazione, amicizia e progresso, accanto a un leitmotiv: la lunga esperienza storica delle nostre due civiltà cosmopolitiche. L’Italia è stata per ben tre volte una potenza mondiale, e sempre sotto il segno del pluralismo culturale. Xi Jinping ricorda due epoche egemoniche italiane: i tempi dell’Impero romano e quelli rinascimentali delle Repubbliche marinare. Sia detto quasi tra parentesi e con grande, laica pacatezza che ci sarebbe però anche un terzo impero mondiale storicamente domiciliato nel Bel Paese, quello che la rivista Limes ha definito “l’impero del papa”.

    Per parte sua la Cina è stata la maggiore potenza globale per la maggior parte dei secoli di cui si compone la storia umana, fino circa al Settecento. E oggi non fa molto per nascondere l’aspirazione a riprendersi quel ruolo.

    Che detta aspirazione egemonica rischi di condurre a una guerra fredda 2.0 con gli Stati Uniti è evidente. La Casa Bianca ha definito il protocollo d’intesa Roma-Pechino un «approccio da predatori, senza vantaggi per il popolo italiano». Già Obama aveva individuato nella nuova strategia cinese «una chiara sfida all’architettura nata nel 1944 a Bretton Woods per volere di Franklin Roosevelt», rimarca Federico Rampini sulla Repubblica di ieri. E si sa che quando gli americani si appellano ai valori rooseveltiani questo accade perché devono coalizzare gli alleati occidentali in clima appunto di guerra fredda.

    Dopodiché Rampini fa bene a ricordare che l’Italia quanto a cautela sulle tecnologie sensibili sembra dare ascolto ai moniti provenienti dagli USA, mentre altri paesi europei si mostrano ben più filo-cinesi di noi. D’altronde, la «disgregazione di ogni solidarietà occidentale è stata accelerata dallo stesso Trump, che con il suo approccio bilaterale al contenzioso commerciale Usa-Cina non ha mai tentato di cementare una coalizione d’interessi con gli alleati», ma è onesto riconoscere che «il fuggi fuggi in direzione di Pechino era già iniziato sotto Obama, quando i quattro maggiori paesi UE (Italia inclusa) decisero di aderire all’Aiib, la banca della Via della Seta». 

    È ovvio che siamo alle prime mosse di una partita decisiva in quest’epoca storicamente interessante.

    Un po’ di competizione va bene, tanto all’interno dell’Europa quanto nei riguardi degli alleati americani, ma anche ovviamente nei confronti degli interlocutori cinesi.

    I conflitti, invece, non sono nell’interesse di nessuno e soprattutto non nell’interesse dell’umanità, dato che occorre preservare tutti un alto grado di cooperazione sulla crisi ambientale e sulle altre emergenze globali di cui si sostanzia il tempo in cui viviamo, l’Antropocene, l’era geologica nella quale è alla stessa attività umana che si riconducono le cause delle grandi trasformazioni climatiche e tecno-scientifiche dalle quali dipenderà la nostra esistenza sul pianeta. E questa è la cosa “di sinistra” che volevamo dire nel contesto attuale.

    Per concludere tra il serio e il faceto cercheremo ora di capire se la Cina venga a trovarci con intenzioni più “di destra” o più “di sinistra”.

    Qui occorre il “sapere indiziario” di Carlo Ginzburg. E bisogna allora fare attenzione non alle dichiarazioni magniloquenti, ma a dettagli che possono parere insignificanti, occorre badare bene agli “indizi” appunto, come quando Xi Jinping, elogia il Made in Italy “sinonimo di prodotti di alta qualità” e poi aggiunge cripticamente che: «La pizza e il tiramisù piacciono ai giovani cinesi».

    Sembra niente. E anzi, dopo le tante belle parole su Virgilio e Pomponio e Marco Polo e Moravia, un esegeta superficiale potrebbe trovarsi un po’ spiazzato. Invece è proprio qui, nel rinvio alla “cultura materiale” della Pizza e del Tiramisù che a nostro parere si cela un messaggio in codice molto importante.

    La Pizza è facile.

    È napoletana. Napoli è amministrata da De Magistris. E De Magistris è uomo “di sinistra” (noi lo sappiamo bene perché quando è venuto a tenere una conferenza stampa nella nostra sede, il Coopi di Zurigo, ha voluto farsi un selfie di fronte allo storico ritratto di Carlo Marx).

    Ergo, nel riferimento alla Pizza non possiamo non leggere una chiara implicazione “di sinistra”.

    Più complessa l’esegesi del Tiramisù, a causa della paternità contesa di questo fantastico dolce fatto di mascarpone, savoiardi, amaretto, cacao e caffè.

    Con la massima imparzialità possibile noi dobbiamo domandarci se Xi Jinping si riferisca al Tiramisù quale fu legittimamente creato all’Albergo Roma di Tolmezzo, ridente città alpina guidata da un sindaco di centrosinistra, o non intenda accidentalmente quella sorta di maionese impazzita spacciata per Tiramisù a Treviso (città per altro assai cara a chi scrive benché attualmente governata da un sindaco di destra).

      Il dilemma potrebbe apparire insolubile. Ma… Ma nei giorni scorsi il leader della destra italiana Salvini non ha forse mostrato, costui, di gradire pochissimo la visita di Xi Jinping? Ed è sulla base di questo indizio che noi in fin dei conti propendiamo a favore della tesi secondo la quale il Tiramisù vada considerato un dessert di centrosinistra, anzi decisamente “di sinistra”.

 


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LA GRANDE PICCINERIA RIDENS

 

Oggi parliamo delle leggende metropolitane sottese a un’osservazione apparsa sul Corriere di ieri: «Si pensi a Bettino Craxi che anni fa, tornando da Pechino con una foltissima delegazione, fece fermare l'aereo in India per visitare il fratello ospite del santone Sai Baba». Sarà vero? Se si verificano i fatti si scopre che…

 

di Andrea Ermano

 

Non siamo mai stati “craxiani” e nemmeno simpatizzati di “santoni” indiani, ma che dire delle ragazze e dei ragazzi eterni adolescenti che sul Corriere continuano ad accanirsi sul capro espiatorio socialista, a vent’anni dalla morte? Bel coraggio...

    Ma lasciamo di ciò e atteniamoci al fact checking.

    La visita di Craxi in Cina fu la prima di un Presidente del Consiglio italiano dopo il ristabilimento dei rapporti diplomatici con Pechino. Su di essa Gennaro Acquaviva, allora coordinatore dello staff del premier, pubblicò alcune precisazioni che – per la cronaca, ma ormai anche per la storia - qui di seguito riportiamo integralmente. Provate p.f. a leggere con attenzione ed equanimità questo testo, datato 16 novembre del 1986 (vedi link di Repubblica).

    «In relazione agli articoli apparsi su Repubblica del 12 novembre 1986, con il titolo “Perché così pochi?” e del 13 novembre 1986, con il titolo “Gli ospiti di Craxi”, ed il cui contenuto si riferisce alla composizione della delegazione ufficiale e del seguito che hanno accompagnato il presidente del Consiglio nella sua visita ufficiale in Cina, nonché al programma delle sue visite successive, la prego di consentire alla Presidenza del Consiglio le seguenti precisazioni.

    Il presidente del Consiglio ed il ministro degli Affari Esteri sono stati accompagnati in Cina, oltre che dalle rispettive consorti, da una delegazione ufficiale composta da 9 funzionari della Presidenza del Consiglio e da 6 funzionari del ministero degli Affari Esteri. La delegazione ufficiale, composta da persone in parte della Presidenza del Consiglio, in parte del ministero degli Affari Esteri ed in parte di altre Amministrazioni, comprendeva 3 consulenti dell’Ufficio economico della Presidenza, 6 addetti alla sicurezza, 6 addetti al cerimoniale, 3 addetti alle telecomunicazioni, un addetto amministrativo, 2 interpreti, 4 addetti alla Stampa, 3 segretarie, un comandante del velivolo presidenziale, un fotografo ufficiale.

    La delegazione recatasi in Cina, avuto specialmente riguardo al numero dei componenti a vario titolo, non è dissimile da quella che abitualmente accompagna il capo del Governo ed il ministro degli Esteri nelle visite ufficiali che compiono insieme in paesi importanti e lontani. Del resto l'ampiezza della delegazione non è diversa da quella che si riscontra nelle delegazioni degli altri paesi, in occasione di visite ufficiale in Cina. La delegazione cinese che accompagnava il segretario del Partito comunista Hu Yaobang nella sua visita ufficiale in Italia nel giugno scorso, era composta da 42 persone.

    I lavori preparatori della visita dell'on. Craxi, la prima che un capo di governo italiano rendeva al paese amico dal ristabilimento dei rapporti diplomatici, sono stati curati con il concorso di ministeri, enti ed organizzazioni, taluni dei quali rappresentati nella delegazione. La delegazione italiana ha viaggiato su un aereo Alitalia noleggiato come d' uso per l’occasione ed è stata ospitata dal governo cinese che aveva messo a disposizione tre ville nella residenza di Stato di Diaoyutai, di cui una in particolare, oltre che per il ministro degli Esteri, per il seguito del presidente del Consiglio. In realtà essa ha poi ospitato anche funzionari e della Presidenza del Consiglio e del ministero degli Esteri.

    L'entità del nolo [Alitalia] è noto è funzione dei tempi e della distanza non del numero delle persone a bordo.

    Da parte cinese l’invito era stato formalmente esteso anche ai familiari del presidente del Consiglio, che erano presenti nella persona dei figli Stefania e Vittorio e della fidanzata di quest'ultimo, signorina Francesca di Frassineto.

    Sempre da parte cinese, nei contatti preliminari alla visita, era stato espresso l’auspicio che il presidente del Consiglio potesse essere accompagnato, se gradito, da un certo numero di suoi ospiti per i quali si sarebbero potuti organizzare visite e colloqui paralleli a quelli governativi ma ad essi connessi. I colloqui avrebbero potuto arricchire gli esiti e i contenuti della visita, anche nella prospettiva di favorire ulteriori contatti nei diversi settori di reciproco interesse.

    La scelta degli ospiti è stata limitata a cinque personalità del mondo politico, imprenditoriale e culturale, sulla base anche di indicazioni pervenute da parte cinese circa gli argomenti che si potevano utilmente affrontare. Essi erano: il sindaco di Venezia, dr. Nereo Laroni, il commissario della Comunità economica europea, on. Carlo Ripa di Meana (che era accompagnato dalla consorte), la senatrice Margherita Boniver, il presidente della Banca Nazionale del Lavoro, dr. Nerio Nesi, ed il sovrintendente del Teatro alla Scala di Milano prof. Carlo Maria Badini. Ciascuno di essi ha avuto, nel quadro della visita, colloqui con personalità cinesi.

    Il presidente del Consiglio si è infine fatto accompagnare da due segretarie particolari e dalla signora Ludovica Barassi, che ha curato per conto del presidente un reportage filmato dell’intera visita.

    2) Per quanto riguarda le successive tappe dei giorni 3 e 4 novembre, va rilevato che da parte del governo indiano si nutriva da tempo l’aspettativa per una visita del presidente del Consiglio in India. Un invito ufficiale era pendente dal 1981 anno della visita della signora Gandhi a Roma.

    Non potendosi realizzare, data la brevità dei tempi e gli impegni già assunti da parte indiana, una visita ufficiale si è deciso di optare per un incontro di lavoro. Alla parte indiana veniva prospettata la disponibilità del presidente del Consiglio per i giorni 3, 4 e 5 novembre. Successivamente l’ambasciatore indiano a Roma comunicava al Cerimoniale diplomatico della Repubblica, sabato 25 ottobre pomeriggio, la scelta del primo ministro Gandhi per un colloquio il giorno 5 novembre, preceduto da una colazione. Lunedì 27 ottobre veniva perciò resa nota con un comunicato di Palazzo Chigi la fissazione dell’incontro.

    Dovendo impiegare i due giorni del 3 e del 4 novembre e non essendo materialmente possibile organizzare altre visite in paesi dell’area, con così breve preavviso, il presidente del Consiglio dei ministri ha deciso di visitare il giorno 3 le città di Hong Kong e Macao, che rappresentano due territori dipendenti e non sovrani, e al tempo stesso due città di grande interesse economico-commerciale.

    Nel corso della visita, il presidente del Consiglio ha avuto colloqui con le locali Autorità. Il giorno 4 infine il presidente del Consiglio si è recato, in forma strettamente privata, a visitare il fratello Antonio da tempo residente in India.»

    Fin qui Gennaro Acquaviva, che ha fama di persona seria. Certo, poi è più facile atteggiarsi a ridens sulla salma di un leader socialista morto vent’anni fa che non saper fare decentemente il proprio mestiere.

    Dopo più di tre decenni da quel viaggio, in cui ravvisiamo davvero poche ragioni di damnatio memoriae e che invece si evidenzia come un fondamentale atto di politica internazionale nell’interesse del nostro Paese, sarebbe ancor più facile ironizzare sulle legioni di capaci di tutto e di buoni a nulla partecipi o complici dei vari establishment nazionali giunti al potere dopo la fine della prima Repubblica.

    Senza contare il seguito davvero divertente dei comici.

    All’epoca dei fatti il quotidiano La Repubblica riportò il testo di Acquaviva senza poter minimamente controbattere nel merito. Tant’è che Scalfari, avversario storico del leader socialista, fu indotto a questo arzigogolo senza contenuto: “La lettera che qui pubblichiamo non richiede alcun commento. I lettori, leggendo questa prosa e la narrativa che essa contiene saranno certamente in grado di esprimere un loro meditato giudizio su un episodio che ha vivamente interessato l'opinione pubblica”, si legge in calce al testo di Acquaviva.

    Ma scusate, come può quel testo non richiedere alcun commento? È come dire che la macchina dell’odio si muove “a prescindere” e se i fatti non corrispondono tanto peggio per i fatti.

    Dopodiché, non dobbiamo stupirci se la sinistra italiana che, caduto il Muro di Berlino, avrebbe potuto unificarsi in una grande cosa socialdemocratica, si è invece disfatta sotto il peso della doppia morale “a prescindere”.

    E perché stupirsi se, eliminata per via giudiziaria l’alternativa socialista, l’Italia è poi passata da un sistema ad “economia mista” (lo stato regola e il mercato) a un sistema ad “economia di mercato” (lo stato è regolato dalle appetizioni dell’anarchia finanziaria)? E basta vedere dove codesta “economia di mercato” ci ha condotti e ci sta conducendo.

    Soprattutto, non stupiamoci se sotto l’egida neo-liberista vuoi di destra vuoi di sinistra (si fa per dire) la corruzione è aumentata, l’etica pubblica è scemata e la cultura politica è terribilmente regredita.

    Per la cronaca, ma anche per la storia, riportiamo di seguito la posizione del capro espiatorio sul liberismo.

    «Il liberismo parte dal presupposto che le scelte individuali si armonizzino spontaneamente e che tutte contribuiscano naturalmente quasi per una segreta armonia provvidenziale a realizzare il massimo interesse comune. ? proprio questo presupposto che il socialismo ha messo in discussione; e di qui la nostra critica alla logica spontanea del mercato autoregolato che produce squilibri, alienazione e atomizzazione del tessuto sociale. Di qui la richiesta di una forma organica di integrazione tra politica ed economia. Senza negare una relativa autonomia della vita economica che è il presupposto materiale della strutturazione pluralistica della società, il socialismo ha cercato di sottoporre il processo produttivo e distributivo ad un’istanza diversa da quella del profitto e dell’interesse individuale, ad un’istanza cioè etico-politica».

    Con il senno di poi scopriamo che la vera questione morale era anzitutto quella menzionata dal capro espiatorio nella sua critica al “mercato autoregolato che produce squilibri, alienazione e atomizzazione”. O no?

 

 


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