Il vaso è rotto, la trasformazione in atto.
Chi la governerà? E come si potrà?
di Andrea Ermano
Un bravo pittore post-surrealista mi ha raccontato questa vicenda, che cerco di restituirvi parola per parola: «Un giorno sotto le feste di Natale andavo a passeggio in città lungo una strada centralissima, osservando il continuo via vai di belle signore riccamente impellicciate con i loro Doberman e Pitbull al guinzaglio», mi riferisce.
E prosegue così: «A un certo punto mi viene incontro un intellettuale che conosco dai tempi di Parigi e mi prende a braccetto. Finiamo su in collina, al Politecnico, nell'ampio capolinea di tram a cremagliera che sferragliano avanti e indietro, lungo un ordine abbastanza complicato di scambi e di doppi binari. L'intelò parigino ha preso a concionare animatamente, in tedesco! E più volte ci sono residui di saliva che si proiettano sulle mie labbra e guance, nonché sul mento. Adesso mi sta parlando del Papa. Io lo guardo. È un tipo magro e asciutto. Mi ricorda, non so perché, uno di quei ragazzi-apostoli pasoliniani nel Vangelo secondo Matteo. Eppure lui è molto più vecchio. Intanto, lunghissimi tram a cremagliera salgono e scendono senza soluzione di continuità. Io sempre più allarmato scopro di essere vestito del mio solo accappatoio, come dopo la doccia. E allora, allora gli urlo in faccia: "Ma, di grazia, perché non la smetti di sputacchiarmi!? Tu vuoi proprio contagiarmi con il Coronavirus!?" Ed ecco che – come nei peggiori cliché – mi sveglio in un bagno di sudore».
La curva epidemica, sfondate le cinte murarie dell'inconscio collettivo, sta ormai invadendo i nostri sogni. E questo è un fatto non del tutto trascurabile. In un'intervista a Repubblica osserva Rino Formica, vecchio saggio del vecchio PSI: «Mi ha colpito la paura che c'è nel Paese. Una paura che non ricordo nemmeno durante la guerra. Io durante la guerra andavo a scuola. E c'era angoscia, naturalmente, ma si sposava con la consapevolezza che prima o poi tutto sarebbe finito, con dei vincitori e dei vinti. Quindi la paura era razionale, con la pandemia prevale invece l'irrazionale».
L'irrazionale si esprime in molti modi. I governi di mezzo mondo chiedono aiuto alle sfingi materne/paterne degli esperti, oscillando di continuo tra la rivolta e la sottomissione. Il presidente Trump minaccia di licenziare il Grande Immunologo, poi cambia idea e, precipitevolissimevolmente, finisce nelle fauci dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ma non si dà per vinto: minaccia di chiudere il Congresso e di riaprire, una dopo l'altra, tutte le popolosissime curve sud del campionato di Football americano. Qualcuno lo informa che l'inizio della stagione 2020 è stato rimandato a settembre. Un tweet tira l'altro. Intanto, i capi di stato e di governo europei nominano ciascuno la sua task force, sollecitando un ampio dibattito democratico in materia economica e sociale focalizzato sulla situazione che verrà.
Ma quale dibattito, per favore?! Il costituzionalista Felice Besostri rileva dalla sua clausura milanese che i Parlamenti sembrano completamente scomparsi dal panorama. Grande è il disordine sotto il cielo, ma la situazione, più che eccellente, è emergente. Ed eccoci qua, in uno stato d'eccezione globale mai verificatosi su questa scala dopo il 1945. Mentre già dilaga il linguaggio marziale, in conformità con la Seconda Legge della Prevalenza, perché c'è sempre un cretino che quando piove a catinelle invoca altra pioggia, e molta, sul già bagnato. Non stiamo scherzando, basti pensare agli innumerevoli esempi di frasi come «il nostro nemico è invisibile» oppure «dobbiamo combattere contro il mostro in prima linea» eccetera (leggi l'articolo "Guerra alla guerra" sulla Treccani).
A proposito di guerra e virus, dice il sociologo Edgar Morin, giunto ormai alla soglia dei cento anni: «Ci sono forze autodistruttive in gioco negli individui come nelle collettività, inconsapevoli di essere suicide». Le pulsioni suicide-omicide (Thanatos) sfociano nella guerra (Polemos), ma sono contrastate dalla forza opposta, Eros, sostiene Morin: «Si tratta di "due inconciliabili ma inseparabili nemici" che agiscono nella storia umana». La guerra e le tendenze omicide della storia umana traggono slancio dall'incapacità di gestire situazioni complesse.
La complessità, secondo Morin, ci spinge verso l'autodistruzione. «Stiamo vivendo una tripla crisi: quella biologica di una pandemia che minaccia indistintamente le nostre vite, quella economica nata dalle misure restrittive e quella di civiltà, con il brusco passaggio da una civiltà della mobilità all'obbligo dell'immobilità. Una policrisi che dovrebbe provocare una crisi del pensiero politico e del pensiero in sé».
Ovviamente, non è ancora all'orizzonte alcuna consapevolezza critica di questo genere. Ma che cos'è – colta nella sua radice – una "situazione complessa"? Nel nostro caso è appunto la "policrisi" di cui parla Morin, che deriva da tre dinamiche con andamento ed esito casuale. Laddove, il minimo battito d'ali d'una farfalla in Brasile può risultare decisivo allo scatenamento di un tornado nel Texas. O anche no. Il punto decisivo sta nella non prevedibilità di questo "effetto farfalla", come lo definì il matematico e meteorologo Edward Lorenz in una leggendaria conferenza del 1972. Un altro grande matematico, Alan Turing, in un saggio del 1950, anticipava così lo stesso concetto: «Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza».
La storia umana è piena di queste "dinamiche complesse" ed è forse perciò che, come la storia insegna, noi dalla storia non impariamo un bel nulla. La storia infatti «comporta un certo numero di determinismi, come lo sviluppo delle forze produttive o i conflitti di classe indicati da Marx, ma anche una dimensione shakespeariana, di noise and fury», la favola raccontata da un idiota piena di chiasso e furore, che non significa nulla.
In conclusione, secondo Morin, «la storia, dunque, ci insegna a essere vigili e a pensare che i periodi che appaiono progressisti possono essere seguiti da regressione e barbarie, e che nemmeno questa è eterna. Prima della guerra, la dominazione nazista in Europa sembrava generale e che cosa ha fatto cambiare le cose? Il Duce. Perché ha voluto attaccare la Grecia ma è stato fermato dal piccolo esercito greco, allora ha chiamato Hitler in aiuto, che ha dovuto rimandare di un mese l'attacco all'Urss previsto a maggio del '41, perché si è scontrato con la resistenza serba prima di arrivare a piantare la bandiera con la svastica sull'Acropoli. Così, arrivato alle porte di Mosca, l'esercito tedesco è stato congelato da un inverno precoce».
Bisogna essere vigili.
Ma in che modo? Non tramite un mero sforzo cognitivo si potrà "vaticinare" il futuro. A questo "ignoto" occorre fare fronte sul piano dell'agire pratico: sul piano della capacità di tenuta individuale e sociale, sul piano della rilevazione dei cambiamenti via via che questi si manifestano e soprattutto sul piano delle operosità necessarie a garantire un governo quotidiano delle trasformazioni.
Di più: è ben probabile che noi oggi non abbiamo un'idea definita sulle misure veramente necessarie, ma anche in questo caso possiamo (dobbiamo) fare qualcosa: avviare un vasto, vastissimo percorso collettivo di formazione e di adeguamento ai compiti che si prospettano.
E il lavoro qui non manca, dato che il libero mercato non si preoccupa delle quisquilie senza profitto. Un breve catalogo delle quali è qui compendiato da Luigi Covatta: «Lo stress test della pandemia ci fa scoprire un sacco di cose della nostra società. Non solo che molti non possono #restareacasa perché una casa non ce l'hanno. Anche, per esempio, che le aziende agricole non funzionano senza poter disporre di manodopera in condizioni di semi schiavitù; che una cospicua porzione di forza lavoro (nel turismo, nel commercio, ma non solo) è totalmente priva di tutele; che nelle carceri sovraffollate il "distanziamento sociale" non è praticabile; che l'e-learning e lo smart working devono fare i conti, oltre che con la banda larga, con l'analfabetismo informatico di una decina di milioni di concittadini; che le residenze per anziani sono terra di nessuno: e che, sempre per parlare di anziani, l'assistenza domiciliare è relegata nella zona grigia del lavoro nero».
In questo senso occorre riavviare una grande mobilitazione popolare e pacifica: per affrontare le emergenze che via via vengono e ancora verranno a manifestarsi, per pianificare e porre in essere le strategie degli interventi che a esse devono conseguire, per rafforzare comunque le attività certamente utili o necessarie (vedi alle voci: sanità, accudimento delle persone e del territorio, sicurezza, accoglienza ecc.), per realizzare, adeguare e focalizzare sempre e nuovamente i percorsi formativi e di riqualificazione che si riveleranno via via utili alla bisogna.
Secondo Covatta: «si tratta di adeguare il nostro welfare ad una società più complessa di quella che c'era nei "trent'anni gloriosi" seguiti alla seconda guerra mondiale: una società, la nostra, in cui non tutti i bisogni sono riconducibili alla dialettica capitale-lavoro, ed esigono quindi non solo risposte amministrative, come quelle meritoriamente messe in opera nel secolo scorso. Non solo, perciò, servizio sanitario universale (che Dio ce lo conservi): anche, appunto, servizio civile universale, meglio in grado di intercettare i bisogni dei "nuovi poveri"».
E opportunamente, in questo contesto, Covatta pone in rilievo l'appello con cui un folto numero di personalità (fra i quali economisti come Michele Salvati, Stefano Zamagni, Luigino Bruni, e sociologi e politologi come Luca Ricolfi, Marco Santambrogio, Simona Colarizi, Grazia Francescato, Bianca Beccalli, Marisa Malagoli Togliatti, Lorenzo Strik Lievers) ha chiesto al governo di istituire finalmente quel Servizio civile universale che a suo tempo avrebbe dovuto sostituire il servizio militare di leva (Cost. 52).