di Andrea Ermano
La fuga dalla tivù non è altrettanto precipitosa quanto l’astensionismo in politica o la restrizione del credito nella finanza, ma è un fatto che non ci si appassioni più ai talk show come ai tempi del berlusconismo ascendente.
Forse, un giorno gli storici definiranno questi nostri anni come l’epoca del berlusconismo discendente, un’epoca che potrebbe protrarsi per qualche tempo e, a occhio e croce, riservarci anche qualche brutta sorpresa. Ma non sembra più suscettibile di spettacolari vitalità.
Dopo la rovinosa causa di divorzio accompagnata al noto “gossip delle escort” si è manifestata una tendenza allo sfilacciamento del berlusconismo politico. Di essa la frattura tra finiani e Lega rappresenta solo un riflesso.
In questi ultimi giorni abbiamo assistito a una sequenza di accadimenti, tra i quali si segnala un episodio assai sintomatico: il caso della telefonata “di protesta” che Berlusconi ha fatto in diretta alla trasmissione “Ballarò” e che si è conclusa con la cornetta riappesa dal premier in malo modo. In altri tempi, sarebbe stato inimmaginabile che un presidente del Consiglio potesse chiamare una trasmissione e poi buttare giù il telefono di fronte a milioni di telespettatori. Ma così è la “diretta”.
Per quanto mi concerne, non possedendo un televisore, ho letto la notizia sui giornali. E poi, siccome anche la “diretta” è entrata nell’era della sua riproducibilità tecnica, sono andato a guardarmi l’ultima puntata del programma di Giovanni Floris su internet (vai al video).
La scortese telefonata di Silvio Berlusconi si può riassumere così: mentre in studio stanno discutendo di riforme economiche, il premier chiama e contesta sia l’attendibilità di un sondaggio secondo cui i suoi indici di gradimento sarebbero scesi, sia il benché minimo lassismo da parte sua in materia di tasse. Il vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, che aveva criticato l’etica fiscale del Cavaliere (chiamiamola così), viene accusato di "menzogna assoluta". Berlusconi si autoproclama il primo contribuente d’Italia, giura di non avere mai in alcun modo legittimato l’evasione fiscale e, con voce udibilmente indignata, stigmatizza la “televisione di Stato, pagata con i nostri soldi” al servizio della menzogna. Dopodiché buonanotte. Il telefono viene riagganciato (vai al video della telefonata).
Il conduttore replica che in una televisione di Stato si dovrebbe dialogare, cioè accettare una replica, e non buttare giù il telefono. Il sondaggista Pagnoncelli si lamenta della "accusa molto grave" e fa presente che, nei sondaggi, quote di consenso troppo elevate mal si accorderebbero con gli alti tassi di astensionismo che regolarmente registriamo all'uscita dalle urne. Giannini esorta il leader del “partito dell'amore” (in absentia) ad ascoltare democraticamente le altrui critiche, e richiama varie dichiarazioni anti-tasse pronunciate dal premier nel corso del tempo. A fine trasmissione Floris legge anche un dispaccio d’agenzia di qualche anno fa dal quale si desume che, secondo il presidente del Consiglio, ogni cittadino può sentirsi “moralmente autorizzato a evadere” se la pressione fiscale supera un certo livello.
Queste parole erano state pronunciate da Berlusconi ad esempio il 17 febbraio 2004 durante una conferenza stampa tenutasi a Palazzo Chigi: il video è disponibile su internet (vai al video). Per il nostro attuale premier le tasse, si sa, sono una specie di ladrocinio di Stato: “Noi non vogliamo mettere le mani nelle tasche degli italiani”, ha ripetuto anche in questi giorni (e da quali tasche dovrebbero provenire, allora, i danari necessari a risanare la nostra finanza pubblica? Da quelle dei guatemaltechi? Dei papuani?).
In trasmissione, il ministro Tremonti ha difeso il presidente del Consiglio dipingendolo come il propugnatore di posizioni classicamente liberali. Insomma è il popolo italiano, evidentemente, che a causa della propria incultura ha frainteso le parole del primo ministro prendendo per rozzo lassismo fiscale un discorso su secoli e secoli di pensiero economico europeo.
Ciò premesso, è tuttavia evidente che non è stato Berlusconi a inventare la frode fiscale, né è stato lui quello che (diciamo anche questa, visto che ci siamo) può aver commissionato le cosiddette “stragi di mafia”. Nel conflitto tra evasori e fisco, come in quello tra la mafia e stato, o tra pezzi di “ancien regime” e la gioiosa macchina della transizione, il Cavaliere ha voluto sempre cercare di rappresentare, almeno in cuor suo, un punto di equilibrio e d’intersezione. Con i Cavalieri della Gran Croce ma anche con la Loggia P2, insieme a Craxi ma anche ad Andreotti, con i giustizialisti ma anche con i garantisti, sostenitore di Pannella ma anche di Di Pietro (che avrebbe voluto ministro), schierato dalla parte del clericalismo cattolico ma anche della secolarizzazione più selvaggia, alleato della Lega ma anche fautore dell’unità nazionale, sinceramente preoccupato per i terremotati aquilani ma anche, non meno sinceramente, del cinico show-biz che intorno al sisma abruzzese è stato imbastito, senza contare quei gentiluomini di Palazzo che alla notizia del terremoto “ridevano” (ridevano!) pregustando grandi affari, grandi eventi ecc. ecc.
L'elencazione potrebbe continuare, ma c’è un sipario lassù che ci attende, che incombe e che va a calare, imperturbabile. Sui giusti e sugli iniqui. Perché un’altra fase della storia repubblicana è giunta a un punto d’instabilità, e questo processo ciclico si addiziona a un sistema dinamico globale il cui equilibrio è costantemente esposto al battito d'ali di una farfalla.