martedì 21 dicembre 2010

Ad agio

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 dicembre 2010

Motus in fine velocior. Non lo dico io. Lo dice l’adagio. E c’è del vero. Ricordate quell’esilarante ricostruzione che un sommo scienziato (Gerd Binnig?) fornì una volta a Scientific American circa l’accelerazione gravitazionale? La caduta di un “grave” veniva descritta in chiave parodistica come una tresca di animali selvatici in fregola nella stagione degli accoppiamenti. A conclusione della tresca, invece di accoppiarsi, il proietto, soggetto a forza di gravità, si spiaccicava per terra.

Nelle storie di catastrofi politiche, quando la memoria retrocedente s’applica a ricomporre ciò che fu, o non fu, sempre finisce per focalizzarsi un fenomeno accelerativo: “Credemmo di avere più tempo a disposizione”, dicono i reduci per descrivere la dinamica di un appuntamento, mancato, con la storia.

Per esempio? Pensate alla caduta del Muro di Berlino. Che colse quelli della mia generazione tutti impreparati. Pensammo che Gorbaciov e l’impero sovietico non potevano liquefarsi in quattro e quattr’otto.

Come invece fu.
Nacque allora la Seconda Repubblica.
Ma nacque davvero? Massimo Cacciari ci propone di espungere dal lessico quest’infausta espressione dal sapore di porcata.

L’ordinalità di una repubblica (prima, o seconda, o terza che sia) presupporrebbe qualche efficacia costituente, che restò a noi preclusa per l’inanità di un’intera classe dirigente (cioè di noi stessi).

Noi disfacemmo un sistema politico per farne un altro, e migliore. A parole. Ma poi, in realtà? Dov’è la Seconda Repubblica?

Il nostro naufragio somiglia a quella commedia musicale di Daniel Rohr, ispirata ai Pink Floyd, con quattro astronauti dispersi nello spazio.

Molto indignati.
Uno di loro, a un certo punto, mentre schizza via con una velocità di ventimila chilometri al secondo, declama con voce stentorea: “Ma devono venire a prenderci! Non possono mica lasciarci qui!”

Come no.
Qui dove?
Ammesso e non concesso che uno volesse fare la propria parte per salvare la patria nei centocinquant’anni della sua esistenza – esistenza un po’ garibaldina, un po’ brigantesca, un po’ pilatesca, ma anche un bel po’ pretesca e alquanto cannibalesca – ammesso e non concesso: fatto sta che la navicella della res publica è stata frantumata da un piccolo meteorite staccatosi dalla Costellazione del Muro nel novembre dell'Ottantanove.

Noi – vivi grazie alle nostre tute pressurizzate di fabbricazione cino-americana – stiamo sfrecciando, senza scopo né costrutto, verso l'infinito.

Ma, ecco di laggiù, nel nulla interstellare, ecco che inizia a brillare una lucina. Durante il corso della narrazione apprenderemo trattarsi dell’astronave CEI, comandata dal card. Ruini, abilissimo ammiraglio dello spazio, fermamente deciso a soccorrere la sua Italia, quella stessa Italia che aveva contribuito a radere al suolo.

Che farà?
Accudirà Berlusconi come una brava genitrice? O gli scatenerà addosso la lupa famelica?
Forse neppure Dio lo sa, sempre che esista e s’interessi del nostro Paese troppo lungo.
Verosimilmente, anche a questo giro di boa della storia, più di qualcuno avrà sbagliato i suoi calcoli. Tanto più che le dinamiche spesso non consentono di essere calcolate, e quelle politiche men che meno. Perciò, faccia ora ciascuno quel che deve. E succeda quel che può. (3.12.2010)