mercoledì 24 marzo 2010

Le riforme e la Riforma

Urgenti negli anni Sessanta, impellenti negli anni Ottanta, irrimandabili negli anni Zero. Come potrà, il nostro Paese, adattarsi ai mutamenti globali in corso, senza riforme?  Ma il problema delle riforme sta e cade con il problema della Riforma, quella con la “erre” maiuscola, che interpella, non solo le leggi da fare, mutare o abrogare, ma anche l'etica e il rigore di un popolo e la sua mentalità.

di Andrea Ermano

Se tutte le suore e tutti i preti d’Italia un giorno scioperassero, il Paese subirebbe un collasso. Questa considerazione, formulata da un giovane sacerdote, contiene forti dosi di realtà.

    Considerazioni analoghe si potrebbero svolgere intorno a quegli straordinari monumenti d’arte che sono gli edifici religiosi. Che cosa succederebbe se chiudessero i battenti? Il patrimonio culturale umano ne uscirebbe seriamente mutilato.

    Né possiamo dimenticare, sul piano della solidarietà sociale, le tantissime persone impegnate al servizio degli altri (familiari, vicini o estranei) e animate da convinzioni religiose vissute senza fronzoli e senza alibi, quotidianamente.

    L’Italia del cattolicesimo reale è anche questo: un paese ricco d’umanità e di bellezza. Un paese nel quale, come disse una volta Pietro Scoppola, il peso della Chiesa di Roma ha i tratti della “forza maggiore”. Ma proprio perciò nessuna mente ragionevole lo riterrebbe un paese normale. Perché, nonostante tutte le erogazioni di bontà e bellezza, le cose da noi non sembrano procedere per il verso giusto, tant'è che il card. Bagnasco, presidente della CEI, lancia l'ennesimo drammatico appello a "rinnovare la politica".

    Il nostro problema nazionale sta in un sistema di consenso paralizzato e incapace di sfociare in un qualche disegno di riforma.

    Ora, si dirà, è mezzo secolo che sentiamo parlare di riforme. Realizzare le riforme era stato il chiodo fisso del primo centro-sinistra, fin dagli anni Sessanta. Ma quelle riforme (le celebri "riforme di struttura", come le chiamavano per sottolinearne la valenza sistemica) non si fecero mai, e scattarono invece: il “rumore di sciabole”, la strategia della tensione, lo stragismo, il piduismo e infine il terrorismo.

    Si andò avanti a tirar la fune sanguinante fino agli anni Ottanta, quando Bettino Craxi tentò di giocare un’altra mano nel gran poker nazionale. Intanto, però, mutavano le coordinate internazionali su cui la Prima Repubblica si fondava, e anche Craxi finì "funzionalizzato" dal sistema, da cui fu infine travolto, pagando di più per le ragioni che non per i torti.

    Da allora la corruzione è dilagata ulteriormente, nella patria del cattolicesimo reale, e la lunga transizione iniziata con la nascita della Seconda Repubblica sta durando talmente tanto che le coordinate internazionali sono mutate un’altra volta.

    Il baricentro del mondo va ora verso la Cina e l’India dove vive d’altronde un terzo circa del genere umano. I due colossi asiatici, paesi di antichissima civiltà, stanno attivando sistemi economici giganteschi, travolgenti. Hanno indotto una traslazione di potere globale paragonabile solo a quella avvenuta dopo la “scoperta” dell’America. Ma i massicci cambiamenti inaugurati all’epoca di Cristoforo Colombo si dispiegarono in due secoli. I nostri sono accaduti in vent’anni o poco più.

    E, dunque, ancora niente riforme di struttura? Urgenti negli anni Sessanta, impellenti negli anni Ottanta, irrimandabili negli anni Zero. Come potrà, il nostro Paese, adattarsi ai mutamenti globali in corso, senza riforme?

    E allora occorre parlarsi con sincerità: il problema delle riforme politiche in Italia sta e cade con il problema della Riforma, quella con la “erre” maiuscola, che investe la Chiesa. Perché il destino politico-istituzionale del nostro Paese (cioè, a occhio e croce, le sue chances di tenuta unitaria) non è disgiungibile da un'evoluzione della forma culturale egemone, che (ci piaccia o meno) è il cattolicesimo italiano.

    La Chiesa è troppo forte per essere governata dall’Italia. Ed è però anche troppo debole per governare l’Italia. Con questa semplice e non nuova considerazione si spiega sostanzialmente lo stallo nazionale, alla base delle nostre ricorrenti crisi di sistema.

    Le due entità, la Chiesa e l'Italia, sono con-crete, cioè letteralmente "cresciute insieme", ma nel tempo sono divenute anche troppo eterogenee. Il problema della loro reciproca libertà passa dunque per il superamento di questa loro eterogeneità esorbitante. Perché non può esserci una libera Chiesa in un libero Stato, se la Chiesa non è libera in se stessa, cioè organizzata nel rispetto della libertà delle persone che la compongono e che dovrebbero ottenere in essa pari dignità.

    Quanto detto, a meno che non si pensi in senso opposto a un rovesciamento dell’ordine costituzionale liberal-democratico, comporta quel che segue: affinché lo stato di diritto possa dispiegarsi nel nostro Paese (e questa è la base di legalità costituzionale necessaria all'avvio di una normalità riformista) in Italia deve avere luogo una reale democratizzazione della vita politica, economica e culturale, anche dentro la Chiesa cattolica.

    Ergo, serve un'autoriforma del cattolicesimo reale proporzionata a quella dignità della persona umana che la Genesi enuncia per altro in forma solenne: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (1, 27).

    Il personalismo – punto d'equilibrio fondamentale tra umanesimo religioso e umanesimo filosofico – è inscritto dal 10 dicembre del 1948 nella “Dichiarazione universale dei diritti umani”, firmata a Parigi dopo gli orrori assoluti della Seconda guerra mondiale.

    Il costituzionalismo ha recepito questi valori. La nuova Italia repubblicana ha recepito questi valori. Ma che ne è di essi dentro alla Chiesa cattolica?

    Non sempre i diritti dell’uomo vengono riconosciuti dalla dottrina e praticati dalla gerarchia.
    È evidente per esempio che l’esclusione delle donne dal sacerdozio, o l’imposizione del celibato ai religiosi o anche una demarcazione sacramentale troppo “forte” tra il clero e il laicato costituiscono pratiche lesive della dignità delle persone.

    Il Concilio Vaticano II aveva imboccato la strada riformatrice. Ma il fallimento dell’autoriforma ecclesiastica si è scandito in perfetta sincronia con le sanguinose sconfitte dei riformisti nell’agone politico.

    Quindi, dobbiamo ormai cancellare le riforme dalle reali possibilità di vincita del Belpaese?  Dobbiamo rassegnarci ad assistere a un torbido spettacolo, di disagio antipolitico e di decadenza morale, foriero di crisi ancor più serie?

     Non è detto. L’Italia può forse ancora coltivare ottimismo e speranza. Perché intorno al principio della “dignità personale” sussiste un consenso sufficientemente vasto e profondo, ben distribuito tra credenti e non credenti, a destra quanto a sinistra, al Nord come al Sud.

    Ma l’ora è tarda. E perciò è necessario che adesso il popolo cattolico ponga anche in Italia, com’è già avvenuto negli altri paesi europei, la questione dell’autoriforma. Se non ora, quando?

    In caso contrario temiamo che la devozione popolare italiana sia destinata a seguire le amare sorti toccate già alla virtù civica comunista. I militanti del PCI furono capaci di testimoniare, spesso fino al sacrificio, la loro dedizione al partito come progetto di un’umanità nuova. E però il loro PCI venne, in fin dei conti, inghiottito dalla balena, tutt’intero. L’Italia apparteneva al blocco atlantico e l’allocazione egemonica dell’opposizione dentro alla primato del PCI, pur eroicamente conquistato, condusse di fatto e per lunghi decenni al blocco di ogni alternativa, e infine alla crisi della Prima Repubblica, madre di una transizione tuttora irrisolta.