lunedì 25 gennaio 2010

"UNO CHE NON CI HA MAI ABBANDONATO"

La figura e l'opera di Pietro Nenni verrà rievocata al Senato della Repubblica il 27 gennaio prossimo da Mauro Ferri, Riccardo Nencini, Giovanni Pieraccini e Sergio Zavoli.

di Andrea Ermano

Di Pietro Nenni, morto a Roma il primo gennaio del 1980, è ancora ben vivo un ricordo di grande umanità e dell'azione svolta come leader del Psi e come statista. Noi lo ricordiamo anche e non da ultimo come un esponente autorevolissimo dell'emigrazione socialista -- insieme a Filippo Turati, Giuseppe Saragat e Sandro Pertini . La sua leadership crebbe e si temprò negli anni dell'esilio, della Guerra di Spagna e della Seconda guerra mondiale.

    In quegli anni Nenni fu a lungo direttore dell'Avanti-ADL. L'organo del Psi veniva redatto a Parigi e stampato a Zurigo in coedizione con la nostra testata. L'ADL era "tollerato" in Svizzera grazie alla direzione responsabile di Pietro Bianchi. Il quale Bianchi rivendicava per altro di non aver scritto mai, in tutta la sua vita, un solo rigo di piombo. L'editore del futuro ministro degli esteri socialista si definiva con grande orgoglio "operaio edile sindacalizzato". Aveva accettato controvoglia quella funzione pro forma, affidatagli da Modigliani a nome del partito. Avevano prescelto Bianchi in quanto, fidatissimo, si era naturalizzato qualche anno prima e la cittadinanza elvetica acquisita lo avrebbe preservato da un'estradizione "nelle patrie galere".

   Bianchi detestava i preti "dall'età di dieci anni", e non risparmiava affilatissime ironie alla boria intellettuale, ma aveva una venerazione per Nenni. E per parte sua Nenni, dopo la guerra, confesserà: “Io non mi sento né uomo di Parlamento né uomo di governo né, ancora meno, uomo di Stato, ma un militante della classe operaia; con una sola speranza: che il giorno in cui morirò gli operai possano dire: è morto uno dei nostri, uno che si sentiva come noi, che lottava con noi, che non ci ha mai abbandonato”.

    Sentimenti forse incomprensibili oggi, in un'epoca dominata dal potere finanziario e dall'influenza abnorme che esso esercita su di noi tramite i mass media. La neolingua ha derubricato "operaio": una non-parola. Quando nel 1998 la direzione di MondOperaio, rivista politico-culturale fondata mezzo secolo prima da Pietro Nenni, venne affidata a Claudio Martelli, questi fu preso forse dall'imbarazzo per quella dicitura così poco trendy (Mondo? Operaio?) e pensò bene di segmentarla in tre elementi lessicali: "Mondo-Opera-Io". Con l'Io s'intendevano esaltate le "nuove soggettività".

* * *

Mondo-Opera-Io?! Era ancora l'epoca del "Nuovo che avanza" (e delle privatizzazioni di banche pubbliche un tanto al chilo). Gli ex quadri intermedi e dirigenti del Psi ti spiegavano di essersi dovuti accasare a destra perché il brand "socialismo" non tirava più. Per non parlare degli ex quadri intermedi e dirigenti del Pci che vaneggiavano di partiti liquidi e altre amenità, passando dal Cremlino a Wall Street senza fermate intermedie, di tutta furia, tanto per non arrivare in ritardo alla catastrofe finanziaria globale, dopo aver atteso così a lungo che il Muro di Berlino gli cascasse su quella zucca da primi della classe.

    Mondo-Opera-Io?! A dire il vero anche noi ci interrogavamo in quegli anni se una denominazione come L'Avvenire dei lavoratori non andasse in qualche modo "superata". Per il poco che può interessare, confesso che le mie remore furono sulle prime di carattere meramente storico e filologico.

    Mondo-Opera-Io?! Certo è che parole come "operaio" e "lavoratori" sono terribilmente demodé. Qualsiasi vip fa più notizia dei 41 morti sul lavoro, dei 1'042 invalidi sul lavoro e dei 41'702 infortuni sul lavoro registrati in Italia dal 1° al 15 gennaio 2010.

    Mondo-Opera-Io?! Intanto il numero degli operai nel mondo ha continuato a crescere. La verità è che non ce n'è mai stati così tanti, di operai, da quando esiste l'uomo su questo pianeta. Senza contare una "nuova" soggettività molto speciale, il lavoratore-schiavo, un tipo di produttore umano dotato di dignità personale in corso di azzeramento. Insomma, le cose non è che vadano bene. Ma d'altronde, diceva Keynes: "Quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un Casinò, è probabile che le cose vadano male."

    Mondo-Opera-Io?! Il punto di minima è stato raggiunto con il dibattito sull'Art. 1 della Costituzione repubblicana, che recita così: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro". C'è chi asserisce che la menzione al lavoro andrebbe tolta in quanto non ha trovato applicazione pratica. Il solito sofisma. Si confonde il fatto con il diritto. Nelle parole "fondata sul lavoro" i padri costituenti collocarono la Repubblica sul basamento del lavoro, escludendo cioè che essa "possa essere fondata sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui". In realtà, l'elusione del primo caposaldo costituzionale e ancor più la proposta abrogativa rappresentano un evidente atto di auto-accusa dell'establishment. La molla è un forte imbarazzo: comprensibile. Ma allora non serve sfondare il fondamento della Repubblica né deturparne la Costituzione. Meglio sarebbe mettersi una mano sulla coscienza.

    Chissà che cosa avrebbe pensato Pietro Nenni di tutti noi e di tutto ciò?

* * *

Dopo la Seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, Nenni fu il principale fautore del referendum istituzionale tenutosi nel 1946. Da esso nacque la Repubblica Italiana. Il leader socialista appartiene perciò al novero dei grandi padri costituenti, in posizione del tutto preminente. "Un uomo politico che può essere indicato a modello per la rinascita della nostra società dalla grave crisi etica e politica in cui essa si trova", ha scritto di recente lo storico Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. 

    E proprio la Fondazione Nenni insieme alla rivista MondOperaio ha promosso un  convegno dedicato al leader socialista, affidando a Mauro Ferri, Riccardo Nencini, Giovanni Pieraccini e Sergio Zavoli il compito di ricordarlo.

    L'incontro avrà luogo nella Sala Zuccari del Senato della Repubblica (Palazzo Giustiniani) il 27 gennaio prossimo a partire dalle ore 17.00.

    Parlare di Nenni il 27 gennaio, cioè nel "Giorno della Memoria" vale a ricordo anche della figlia, Vittoria, che fu deportata e morì ad Auschwitz, rea di avere preso parte all'attività di propaganda clandestina contro il nazi-fascismo.

    All'appuntamento in Senato verrà presentato il numero di dicembre di MondOperaio dedicato a "Nenni, trent'anni dopo". La rivista è attualmente diretta da Luigi Covatta. Il numero speciale "Nenni, trent'anni dopo" contiene contributi di: Nencini, Tamburrano, Aleksandrov, Zavoli, Usai, Emiliani, Sassano, Gervasoni, Iacono, Granati, Isinelli, Salvitti, Sabbatucci, Colarizi, Strinati, Scirocco, Cafagna, Finetti, Intini, Macaluso, Galloni, Ferri, Pieraccini, Paolicchi, Formica, Colucci, Acquaviva, Fontana Nenni e Benzoni. 

lunedì 18 gennaio 2010

Ics anni dopo - Fu vera gloria? O non anche infamia?

Questo, in breve, il dilemma Craxi a dieci anni dalla scomparsa.

di Andrea Ermano

Le sue ossa stanno sepolte in Tunisia, nel luogo dell'autoesilio con cui egli reagì alle inchieste di Tangentopoli. Quando morì, per il suo rango istituzionale d'ex premier, Palazzo Chigi propose i funerali di Stato. L'offerta venne respinta dalla famiglia, con sdegno analogo a quello manifestato anni prima dai congiunti di Aldo Moro.

    Fu vera gloria, quella di Bettino Craxi?
    Un uomo di cui si dibatte accesamente a dieci anni dalla morte, e ognuno dice la sua, ognuno ha un sentimento un risentimento un odio un affetto... È sotto gli occhi di tutti il suo trionfo postumo nella memoria e nel sentimento del popolo garibaldino.

    Ma fu anche infamia, la sua?
    Senz'alcun dubbio Craxi, grande premier, non rappresentò la miglior leadership che la storia del socialismo italiano tramandi. L'uso delle mazzette, non solo come strumento di competizione verso Dc e Pci, ma anche come fattore strutturale nella lotta interna al Psi, finì per mutare quel vecchio e glorioso baluardo d'umanità scapigliata in qualcosa di molto differente.

    Ma, si sa, il partito per i socialisti è strumento, non fine. E Craxi di quello strumento aveva bisogno per un suo disegno d'innovazione. Amava l'Italia. L'amava molto, moltissimo, troppo. Quando la prese in consegna, primo presidente del Consiglio socialista, l'Italia versava in uno stato pietoso, avvilita da una profonda crisi economica e attraversata da terroristi assassini. La trasformò in un paese meno violento, meno depresso e più contento delle proprie capacità.

    Amava l'Italia. Avrebbe voluto riformarla. Capiva l'urgenza delle riforme. Detestava l'ipocrisia gattopardesca dei dollari e dei rubli. Voleva portare al governo una vera classe dirigente. E di fronte ai briganti decise di far "brigante e mezzo", come dice Marco Pannella, vecchio sodale di Craxi fin dai tempi dell'università.

    Primum vivere deinde philosophari, sentenziò una volta Ghino di Tacco. E imbarcò nel Psi un esercito di mercenari, sbarcando del pari quel coeacervo di correnti litigiose che gli parvero votate a soccombere nella morsa tra l'ortodossia comunista e l'unità politica dei cattolici.

    Dimentico dell'insegnamento di Machiavelli sui mercenari – onerosi in tempo di pace, infami in tempo di guerra – finì travolto non dalle correnti e in fondo nemmeno da Tangentopoli (non s'offendano gli onorevoli giudici), ma da una fisima tutta craxiana e assurda: riformare la patria della Controriforma.

    Così, quando l'establishment se lo ritrovò tra le mani o quasi, non vide l'ora di poterlo sottoporre allo scannamento rituale (una sorte oggettivamente diversa rispetto a quella toccata ad altri leader europei come Kohl o Chirac). E allora Bettino risolse: "Non tornerò in Italia né da vivo né da morto".

 * * *

La scomparsa di Craxi è coincisa con il collasso del progetto diessino. Amato e D'Alema volevano restituirci (ricordate?) "una grande forza socialista democratica di stampo europeo capace di concorrere al governo del Paese". Poi la doppia virata veltroniana ha condotto i DS dentro al PD, Prodi fuori dal governo e la sinistra, tutta, al naufragio.

    Ora che Bersani è al timone del partito nuovo, Bobo Craxi giudica "evidente che il centrosinistra va sempre più verso la formazione di un soggetto socialdemocratico". Speriamo. Sarebbe soltanto che ora.

    Ciò detto a proposito della situazione in Italia sia consentito aggiungere qui alcune poche parole sul socialismo d'emigrazione.

    "Socialismo d'emigrazione" è il filo di una continuità politico-organizzativa che finora ha retto alla lunga durata sfidando il tempo e l'arroganza del potere. Nel nostro Paese, infatti, l'esistenza stessa di una formazione politica socialista viene messa in forse ripetutamente e periodicamente. È successo varie volte durante il secolo trascorso. Eppure la nostra più antica tradizione politico-organizzativa batte bandiera rossa, grazie al socialismo d'emigrazione.

    È stato Craxi, nel centenario del Psi, a mettere in luce questa funzione di continuità del socialismo d'emigrazione. Lo ha fatto pubblicando la raccolta de L'Avvenire dei lavoratori a direzione siloniana. Silone aveva assunto la guida del Centro Estero socialista dopo l'invasione nazista della Francia dove aveva sede la direzione del Psi in esilio. Il passaggio delle consegne avvenne nel 1941 e Silone mantenne la leadership fino alla "ricostruzione in Italia di un forte Partito Socialista", resa possibile grazie al lavoro clandestino ed eroico di Colorni.

    Nelle Avventure di Tonio Zappa Silone narra di un cafone abruzzese che prende la valigia e vaga per l'Europa, risucchiato in una ridda di miseria, di emarginazione e di lotta di classe (dall'alto) che egli subisce, fin dentro la galera: "Non ti basta che migliaia d'operai si spostino da un carcere d'Europa all'altro?", chiede Tonio a fine racconto.

    Sono gli anni della grande crisi, quando l'America vara il new deal mentre l'Europa scivola nel nazi-fascismo: “Migliaia di Tonio Zappa si spostavano da un paese all’altro in cerca di pane. Ma il pane sfuggiva loro. Peregrinavano di paese in paese, ma la crisi li precedeva”.

    Ogni riferimento alla condizione migrante nel nostro Paese è puramente intenzionale.
    Il socialismo d'emigrazione nasce a fine Ottocento, in un'epoca di sanguinose persecuzioni anti-italiane: quattro operai ammazzati e ottanta feriti all'imbocco della galleria del Gottardo. Protestavano contro condizioni inumane (ma, a ben vedere, non peggiori di quelle in cui versano certi immigrati nell'Italia di oggi).

    La caccia all'italiano culmina a Zurigo nei violentissimi Krawalle, che perdurano diversi giorni: "Anche i nostri nonni furono portati in salvo come i neri di Rosarno", ci ricorda Gian Antonio Stella dalle colonne del Corriere della Sera: "Le autorità furono costrette a organizzare dei treni speciali per sottrarli nel 1896 al pogrom razzista scatenato dai bravi cittadini di Zurigo".

    Queste, dunque, le radici del socialismo d'emigrazione, quello della continuità politico-organizzativa, stessa faccia e stessa razza degli schiavi di Rosarno.

    Ciò detto, care e cari, andate. Planate pure sull'altra sponda del mare, tra le dune magrebine, con le vostre telecamere per grazia ricevuta. Ma, giunti a quella lapide, appoggiate tutto sulla sabbia. E portate anche il nostro saluto, per favore, unitamente a quello dei nostri fratelli schiavi d'Italia.

    O vi si sfaccia la casa,
    La malattia vi impedisca,
    I vostri nati torcano il viso da voi.