di Andrea Ermano
Il compagno "Vanni" (Giovanni Padoan, 1909–2007), era stato un combattente valoroso della Guerra di Liberazione, insignito della medaglia d'argento al valor militare. Ma per la strage di Porzûs gli diedero trent'anni. Ottenne asilo in Cecoslovacchia, mi pare. Rientrò in Italia verso l'inizio degli anni Settanta, per atto di grazia del Capo dello Stato, il socialdemocratico Giuseppe Saragat.
Proprio in quei primi anni Settanta il presidente Saragat aveva ricevuto assicurazione sovietica che, in caso di golpe, avrebbe potuto contare sul sostegno di Mosca. È arduo immaginarsi che in quel caso, non ipotetico, il presidente Saragat sarebbe riparato a Praga, come il suo graziato "Vanni, ma l'episodio ci aiuta a rammemorare quell'epoca.
In Grecia, in Spagna e in Portogallo c'era il fascismo; in Jugoslavia e Albania il comunismo; nei paesi del Maghreb dominavano le semi-dittature del nazionalismo arabo. Sulle sponde del Mediterraneo si affacciavano in tutto tre stati democratici, Italia inclusa.
Durante la prima metà degli anni Settanta io vivevo a Tolmezzo, la cittadina in cui sono nato. Frequentavo il Liceo Pio Paschini con scarsissimo profitto, in spregio alla scuola borghese che si abbatte e non si cambia. Preferivo lavorare insieme a Tony Capuozzo nei "Proletari in Divisa", un'organizzazione di giovani soldati molto di sinistra che lottava per migliorare le condizioni di vita dei militari di leva, ma anche per prevenire un eventuale putsch militare.
A Tolmezzo c'era una polveriera dell'esercito. Ricordo ancora la faccia di un giovane ufficiale di leva che mi raccontò, bianco in volto, di un'importante consegna di esplosivo ad alto potenziale cui egli aveva dovuto attendere: "Queste casse qui, non registrarle sul libro mastro", gli aveva ordinato un alto ufficiale. Era ovviamente vietatissimo stivare senza registrare. Ma tant'è: certe quantità di tritolo venivano trasferite dalle polveriere dell'Esercito Italiano ai depositi "Gladio", struttura segreta della Nato incaricata di organizzare la lotta clandestina in caso d'invasione comunista. Un po' di tritolo targato "Gladio" può essere stato poi anche trafugato dai depositi segreti e utilizzato per compiere delle stragi mai chiarite. Ma io questo non lo so e non l'ho mai detto.
Conobbi "Vanni" a Tolmezzo, provincia di Udine. Sarà stato il 1° maggio di quarant'anni fa. Gli operai e gli studenti di Tolmezzo, i vecchi sindacalisti e i giovani extraparlamentari del Manifesto e di Lotta Continua – tutti lottavano contro la chiusura del Calzaturificio Artha. Gli azionisti dell'Artha avevano fatto incetta di finanziamenti pubblici per poi cessare le attività, mettendo sul lastrico un bel po' di famiglie. Come rappresentante del movimento degli studenti medi in lotta solidale, fui invitato al pranzo offerto dal Comitato Zona del PCI presso i locali della Cooperativa Carnica.
Partigiani osovani a Porzûs
A tavola ebbi l'ardire di chiedere a "Vanni" quale senso avesse avuto Porzûs, un eccidio "per mano fraterna" di capi partigiani italiani in nome del titoismo.
Ero un ragazzo troppo borghese, troppo ben educato e soprattutto troppo giovane e masse passût (troppo sazio) per potermi raffigurare la situazione, totalmente altra, di un altro ragazzo, che invece dalla nascita aveva avuto sempre e solo fame. E poi fame. E poi ancora fame. Finché non giunse il giorno in cui imbracciò il Kalašnikov. Mi disse "Vanni".
Era quella la ratio politico-militare di Porzûs?! Una questione di fame e Kalašnikov?! Glielo domandai.
"Vanni" mi contemplò benevolmente, come un monaco giainista contemplerebbe il sentiero dal quale a ogni passo con un pennello di piume affusolato va delicatamente scostando eventuali esserini animati che altrimenti rischierebbero di finirgli sotto i calzari.
"Ecco, vedi, giovane compagno studente", mi spiegò, "questo è un problema ben esplicato da Marx nella teoria materialistica su come si forma in concreto la coscienza di classe".
Vittorio Vidali "Carlos", che aveva seguito pensoso e taciturno la conversazione, fece presente con grande pacatezza, e con tutto il peso della sua autorevolezza, che eravamo lì riuniti perché: "Noi seguiamo con vero interesse la formazione di quelle che in senso gramsciano potremmo definire le classi dirigenti del domani e che noi ci auguriamo sarete voi, studenti in lotta a fianco del movimento operaio di cui il Partito Comunista Italiano costituisce l'avanguardia organizzata". Insomma, non eravamo lì per parlare di Porzûs.
Non che l'argomento potesse considerarsi chiuso. Se ne incominciava appena a discutere con un minimo di distanza storica. Il volume di Marco Cesselli, Porzûs due volti della Resistenza, prima monografia sull'argomento, sarebbe uscito pochi anni dopo, nel 1975. E da allora se n'è riparlato tante volte. Porzûs non è una storia semplice. È la madre di tante altre storie nelle quali non possiamo qui entrare, storie di Sloveni, Serbi, Croati, Tedeschi, Italiani e Inglesi.
Un nucleo fattuale si può però reputare assodato: i capi partigiani della Brigata Osoppo, contrari all'annessione jugoslava del Friuli, vennero eliminati da un commando di gappisti legati al IX Korpus del maresciallo Tito.
Porzûs è una storia di cui si parlerà nuovamente tra qualche settimana, in concomitanza con la visita che il presidente della Repubblica Napolitano intende svolgere in Friuli e che farà tappa anche alle malghe della strage, dove stazionavano i diciassette partigiani laico-socialisti e cattolici assassinati fra il 7 e il 18 febbraio del 1945.
Taluni a coltellate, talaltri a martellate, i primi furono ammazzati all'arma bianca per non allarmare le sentinelle della guardia osovana. Altri furono uccisi per lo più a fucilate. I fuggiaschi vennero braccati per giorni in una caccia all'uomo che si svolse sotto il naso del nemico nazifascista.
Il giornale della Divisione d'Armata Osoppo Friuli
Tra gli osovani assassinati per "mano fraterna" ricorrono i nomi di Guido Pasolini "Ermes", fratello di Pier Paolo, e di Francesco De Gregori "Bolla", zio del celebre cantautore. Quindi Porzûs è entrato nell'inconscio collettivo italiano con l'intrico emozionale delle canzoni di De Gregori e soprattutto con la grande poetica pasoliniana. Pier Paolo Pasolini fu anzi confrontato due volte con uno dei protagonisti di quell'epoca tragica e lontana, Ferdinando Mautino, già secondo violinista alla Scala di Milano, quindi ufficiale dell'Esercito regio durante la guerra, divenne dopo l'otto settembre 1943 capo di stato maggiore delle Divisioni Garibaldi del Friuli. Dopo la guerra fu segretario della federazione del PCI udinese, infine corrispondente dell'Unità da Praga.
Ferdinando Mautino aveva avuto responsabilità politico-militari di primissimo piano ai tempi dell'eccidio in cui fu ucciso Guido Pasolini. E quattro anni dopo fu lo stesso Mautino a decretare l'espulsione dal PCI di Pier Paolo Pasolini per lo scandalo che nel 1949 l'aveva travolto, giovane insegnante a Casarsa.
Un "atto impuro", consumato in campagna con altri ragazzi del luogo, passò dal confessionale al tribunale e costò a Pasolini una condanna per "atti osceni in luogo pubblico", la perdita del lavoro e l'espulsione dal partito che, secondo la vulgata staliniana di allora, stigmatizzava l'omosessualità come una "degenerazione borghese".
Conobbi Mautino a Udine. Era vecchio e malato: "Il mio nome di battaglia è Carlino", esordì, "anche se ormai sarebbe meglio chiamarmi Il resto del Carlino". Aveva appena pubblicato da Feltrinelli le sue memorie, Guerra di popolo. Storia delle formazioni Garibaldine Friulane.
Tra le altre cose gli domandai di Pasolini. Dopo una breve pausa di riflessione, mi rispose che, se quel giorno del 1949 fosse venuta da lui una madre "a ringraziarci per quello che il capo della sezione di Casarsa aveva fatto con il suo figliolo, be' allora non lo avrei espulso".
Mi ha sempre colpito l'inflessibilità con cui Pier Paolo Pasolini, anche dopo "l'esilio" a Roma e la celebrità mondiale, mantenne ferma la propria adesione al PCI, nonostante l'assassinio dell'amatissimo fratello e l'espulsione dalla federazione udinese.
La storia è un coacervo infinito di contraddizioni e di macerie, di efferati delitti e di sublimi idealismi, di segreti inconfessabili, confessati nel segreto del confessionale, e destinati quindi alla massima pubblicità.
La storia è una continua lezione di filosofia della storia, che probabilmente non forma nessuna coscienza di nessun genere circa le umane difficoltà a immaginarsi quanto brutale possa diventare la brutalità della bestia umana nel combinato disposto tra fame e Kalašnikov.
E qui mi par giusto concludere, in modo adeguatamente enigmatico, rinviando all'invettiva dell'ultimo Pasolini contro il "maschio adulto occidentale". Un buon primo maggio a tutte e a tutti.