giovedì 27 maggio 2010

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mercoledì 26 maggio 2010

Dirigente sempre, comunista mai ?

Considerate i celebri versi iniziali dell’Inferno dantesco: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”. Confrontateli con l’apertura del Purgatorio: “Per correr migliori acque alza le vele / ormai la navicella del mio ingegno”.

Se a degli esami (i quali, come diceva Eduardo, non finiscono mai) vi chiedessero a chi associate questa giustapposizione poetica, non escluderemmo che vi venga in mente un giornalista, scrittore e uomo politico italiano che non è mai stato comunista, noto al secolo con il nome di Walter Veltroni.

Noi qui lo chiameremo più brevemente “il Veltro”.
Or dunque, il Veltro, già dirigente della Fgci, del Pci, del Pds e dei Ds (fino alla carica di segretario nazionale), ma anche vicepremier di Prodi e sindaco di Roma dopo Rutelli, assumeva trionfalmente la segreteria nazionale del Pd nel 2007 presentandosi come candidato premier alle elezioni politiche del 2008, quando decideva di correre “da solo”, in pacata competizione con “il maggior esponente dello schieramento avverso”, che lo sconfiggeva due volte inducendolo a dimettersi da ogni responsabilità e a chiedere “scusa” ai suoi sostenitori ed elettori in una celebre conferenza stampa che si teneva il 17 febbraio di un anno fa.

È tornato alla ribalta, nell’assemblea di Area democratica tenutasi questa settimana a Cortona. E in quanto ex leader del Pci-Pds-Ds-Pd ha di fatto preannunciato la propria aspirazione a una seconda nomination come candidato premier del centro-sinistra alle prossime elezioni politiche. Queste dovrebbero tenersi fra tre anni, ma potrebbero venire anticipate nel caso in cui lo scontro Fini-Berlusconi si combinasse con il crollo del Governo, che poggia su molte faglie destinate probabilmente a lacerarsi.

Stefano Menichini, direttore del quotidiano “Europa”, che è uno dei due organi del Pd, ha osservato come il principale ostacolo per un rilancio di codesta leadership stia nella “diffidenza del suo stesso partito”, all’interno del quale pesano ancora, e non poco, le conseguenze di un tragico abbaglio, “l’errore di aver troppo legato un’avventura collettiva a una singola persona, alle sue sorti, ai suoi limiti”.

Quali limiti ha, il Veltro?
A nostro modesto parere, uno dei suoi difetti più gravi sta nel non essere mai stato comunista. Noi riteniamo il non-comunismo assai più grave del ben noto antisocialismo, che ci appare in qualche modo secondario e comunque ovvio. È ovvio, infatti, che il Veltro debba continuare a proclamare morto e ri-morto il socialismo europeo. Soltanto in tal caso il Pd potrà continuare ad apparirci indispensabile. Ed è indispensabile che il popolo di centro-sinistra pensi di avere avuto assolutamente bisogno del Pd, perché altrimenti la spallata al Governo Prodi, la sconfitta alle politiche, la perdita del Comune di Roma, della Regione Sardegna e tutto il resto apparirebbero un’assurdità totale, un prezzo pazzesco pagato per realizzare l’astrazione ideologica più dirompente e suicida che la storia della sinistra italiana ricordi dall’Aventino ai giorni nostri.

Perciò, noi capiamo il Veltro quando impiega parte importante dei suoi magistrali discorsi allo scopo di dimostrare ancora una volta per la prima volta il decesso irreversibile e definitivo di ogni socialismo europeo, decesso che stavolta deriverebbe dalla sconfitta di Gordon Brown. Certo, Brown ha lasciato Downing Street, per inciso sorridendo ai fotografi, la moglie e i bambini al fianco, tra due ali di folla, accompagnato da una solenne copertura mediatica intercontinentale. Crollo strutturale finale totale della socialdemocrazia europea? Non si direbbe. Parrebbe piuttosto la dignitosa, e ordinata, uscita di scena di un importante leader politico occidentale che seppe dire al mondo in quale maniera affrontare lo tsunami finanziario di due estati fa.

Poco ne cala qui se il Labour ha stravinto le elezioni comunali britanniche, tenutesi in parallelo alle politiche. E poco ne cala che i conservatori abbiano mietuto a Buckingham Palace la classica vittoria di Pirro. Tutti, comunque, sanno che il Labour prima o poi tornerà a governare. E così la SPD: ogni tanto viene sconfitta, ma dopo qualche anno ritorna a vincere. Lo stesso vale per il PSF, il PASOK, il PSOE, il PSP e le altre formazioni storiche del socialismo europeo, che è sopravvissuto a un secolo e mezzo di requiem praticamente quotidiani, superando le inevitabili eclissi della storia, ma dimostrando sempre di saper navigare in quelle “migliori acque” del Purgatorio da cui siamo partiti.

Tra l’Inferno e il Purgatorio Dante pone una fondamentale differenza che, notoriamente, non sta nel “dolore” (il dolore pervade entrambe le cantiche senza risparmio), ma piuttosto nella “speranza”, che illumina il Purgatorio e che invece manca totalmente nella selva oscura.

Fuor di metafora, il rischio dissoluzione politico-organizzativa non sembra incombere tanto sul socialismo europeo, quanto sul Pd italiano. Rischio esplicitamente evocato dall'ing. De Benedetti, editore di riferimento e "tessera n° 1" del partito; rischio rilanciato a Cortona dal capo della minoranza, Franceschini. Tant’è che l’ex leader del Pci-Pds-Ds-Pd, con la buona volontà a lui propria, ha dovuto respingere più volte l’ipotesi di una “scissione”. Apprezziamo l’etica della buona volontà, ma ci chiediamo se possa bastare.

Ora, a parte che per le sue competenze economiche l’attuale leader del Pd, Pierluigi Bersani, parrebbe essere miglior candidato a governare l’Italia, in contrapposizione a Tremonti, nell’eventuale crisi del berlusconismo, a parte questo, non sapremmo però davvero come definire una minaccia di scissione di fatto reinvestita nelle trattative per la leadership di una coalizione distrutta da un giornalista, scrittore e uomo politico italiano che non è mai stato comunista.

Beninteso, avrà straordinarie virtù e talenti, e sarà pure un’amabilissima persona, e magari verrà financo il giorno in cui egli libererà l’Italia dai suoi antichi mali, realizzando la profezia dantesca, ma anche sorprendendoci un po', il Veltro, “e sua nazion sarà tra feltro e feltro”.

Ma se sei la sinistra italiana, perché mai ti dovresti fidare di un leader che non è mai stato comunista?
Quasi tutti gli italiani di sinistra, nel dopoguerra, lo sono stati, almeno per un istante, almeno da ragazzi. Lui no. Non lui, che pure fu un dirigente del Pci.

Dirigente sempre, comunista mai?

lunedì 10 maggio 2010

Impossibile da smarrire

In questi mesi mi torna spesso in mente il mio vecchio amico Erdoes, che credeva a un Principio Speranza impossibile da smarrire.

di Andrea Ermano
"Non sono mai stati così scatenati", mi disse una volta il mio vecchio amico, Ernst Erdoes, ammiccando ai piani alti delle banche con un guizzo negli occhi.

Girando per Zurigo durante la pausa di mezzogiorno, eravamo finiti a Paradeplatz, la piazzetta affari della capitale economica elvetica, piazzetta lastricata, sotto il porfido, d'immani forzieri.

Sarà stato l'inizio dell'estate del 1993 e fu quello l'unico guizzo negli occhi di Ernst Erdoes che io ricordi. Del Novecento europeo aveva visto, nel bene e nel male, quel che c'era da vedere. Era cugino del grande matematico Paul Erdoes. Era discepolo del filosofo spartachista Karl Korsch. Era nato a Vienna nel 1919. Era riparato in Svizzera nel 1938 dopo l'annessione hitleriana dell'Austria. Nel 1944 la madre Olga, rimasta a Vienna, era stata deportata ad Auschwitz, e lì gassata. Lui aveva 25 anni.

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Non ricordo alcuna questione politica, storica, letteraria o scientifica di un certo rilievo, cui Ernst Erdoes non si fosse dedicato in modo men che approfondito.

Le nostre ricerche di allora vertevano spesso intorno al concetto di "schiavitù" in Aristotele. E persino in quell'ambito, di cui io mi occupavo in modo specialistico, lui dimostrava conoscenze fuori dal comune.

"Non sono mai stati così scatenati", sottolineò con forza, sempre riferendosi ai ragazzi della finanza che nel frattempo avevano iniziato ad affollare la piazzetta degli affari con le loro giacche firmate e le facce ancora "acqua e sapone", ma già un poco improsciuttite.

Alle mie rimostranze lui si oppose fermamente. E disse parole perentorie, parole che, dopo il crollo del comunismo sovietico, assumevano per me un sapore d'inattualità totale. Roba da "giovani turchi" psiuppini degli ultimi anni Quaranta, pensavo. O giù di lì.

Per trovare un acquietamento sul tema e poter riprendere il filo del nostro discorso aristotelico, tentai pazientemente di spiegargli che, dopo la caduta del Muro, un ridispiegamento della sinistra democratica europea poteva ormai avere luogo soltanto su posizioni "liberal soft" (oggi si direbbe "democratico-moderate").

No!
Fu inesorabile, inamovibile, tetragono. Mi si piazzò lì, immobile come un mulo del quarto reggimento alpini, davanti a una delle maggiori cattedrali creditizie svizzere. E con sguardo iniettato di autentica incazzatura ebraico-socialista-mitteleuropea, scandì, lento, a voce bassa, in tono definitivo: "Mi creda, non sono mai stati così scatenati".

Fissazione narcisista di un vecchio bastian contrario? O prime avvisaglie di arteriosclerosi?

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Qualche anno dopo, il 6 marzo del 1998, Ernst Erdoes si spense quasi ottuagenario, a causa di una crisi cardiaca. Se ne andò nel sonno e senza sofferenze, dissero i medici. Pochi giorni prima aveva finito di scrivere la sua dissertazione dottorale, che apparirà negli Scritti postumi ("Schriften aus dem Nachlass") raccolti e pubblicati da Leopold Kohn e Peter A. Schmid con una prefazione di Helmut Holzhey.

Il volume è uscito a Basilea nel 2004, e contiene alcuni saggi preziosi e molto intriganti (per i cultori di filosofia eccone i temi: la proprietà e il lavoro nel pensiero illuminista e in Kant, la filosofia hegeliana del diritto, la schiavitù e la democrazia in Aristotele, l'ebraismo in Spinoza, la questione del male radicale nel giudaismo e nella gnosi, la kabbalah secondo Gerschom Scholem).

Leopold Kohn, in epigrafe al suo Ernst Erdoes - un breve compendio biografico, ha avuto la bontà di citare uno spezzone di colloquio tra Ernst e me apparso da qualche parte all'epoca dei discorsi di cui dicevo sopra.

Sul Principio Speranza Erdoes aveva detto: "Il principio soggettivo della Speranza sta nella coscienza morale dell'uomo per cui la sua destinazione non è lasciarsi prendere a calci. Un principio impossibile da smarrire".

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Penso molto a Ernst Erdoes in questi mesi. C'era e c'è effettivamente molto scatenamento sotto il sole, come dimostra l'atteggiamento cinico secondo cui alcuni paesi mediterranei a rischio d'insolvenza finanziaria possono essere spinti alla bancarotta.

A questi paesi mediterranei (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) i brockers si riferiscono con l'acronimo "P.I.G.S.", che in inglese significa "porci" o "maiali". L'espressione vi sembra arrogante? Ma via. Si tratta della parola d'ordine di una operazione speculativa, ad alta energia criminale secondo alcuni, perfettamente legittima secondo altri.

Essa consisterebbe nel giocare sui mercati finanziari internazionali contro i predetti paesi. Che non stanno peggio di tanti altri, ma vengono azzannati allo scopo di indurne il crac, nell'intendimento abbastanza esplicito di provocare un "effetto domino" e quindi in ultima analisi il crollo della moneta unica. Cioè la fine dell'Eurozona. Ossia una crisi geopolitica di vastissime proporzioni.

Inutile dire che, dal caos preannunciato in seguito a tutto ciò, qualcuno si attende di lucrare enormi guadagni in termini sia di danaro sia di potere.

Sui giornali, taluni commentatori economici condannano un tanto al chilo "l'ipocrisia" di chi si lamenta del pensiero unico capitalistico o dell'arroganza di certe oligarchie finanziarie. Non sia mai detto... la colpa è sempre degli altri, e in questo caso ricade su intere popolazioni che sarebbero dedite al vizio, Pigre, Indolenti, Gaudenti, Spendaccione: P.I.G.S.

Allucinante?
Il mio vecchio amico Ernst Erdoes aveva già visto cose analoghe negli anni Trenta.
E me lo disse pure.
Mi disse che con i nostri flebili riformismi democratico-moderati non saremmo arrivati da nessuna parte. E infatti, in vent'anni di "Weimar al rallentatore", siamo approdati al nulla virgola zero.

Secondo il mio vecchio amico Ernst Erdoes ci voleva invece un riformismo rivoluzionario, ci sarebbe voluto quel socialismo che il gran padre Turati definiva "rivoluzionario perché riformista e riformista perché rivoluzionario".


lunedì 3 maggio 2010

La bolla secessionista e il vantaggio competitivo

L’unità del Paese rappresenta un dato e un valore irrinunciabili, soprattutto in un'epoca nella quale le dinamiche europee e globali ridiventano radicalmente incalcolabili.


Un convergere passeggero dei fari, o un lampeggiamento trattenuto, evidenzia in scena la presenza di una maschera della quale avevamo sentito bisbigliare fin dall’inizio della rappresentazione, in un crescendo di suspense, senz’averne tuttavia potuto scorgere i veri tratti. Adesso, invece, dopo tanto parlarne, eccola lì, la figura misteriosa, un po’ discosta dalla ribalta, ma ben visibile in platea per un lungo istante, prima che si dilegui tra i fondali.

 

Ieri sul Corriere il professor Giavazzi ha avvertito che “Atene non rimborserà i propri debiti anche se un aiuto europeo potrebbe spostare in là il default”. Gli speculatori di tutto il mondo l’avevano compresa da tempo, questa situazione, come notava il giorno prima sulla Repubblica Massimo Giannini: “Azzannano come una muta di cani gli esemplari più deboli”. Ma se e quando la muta affamata raggiungesse Roma e Madrid aggredendo cioè la terza e la quarta economia europea, allora la geo-politica del continente, l’Eurozona come lo conosciamo dal 1998, apparterrebbe al passato.

 

"Se non ci sarà un’azione estremamente forte e immediata, l’anno prossimo l’euro non esisterà più”, ha fatto presente ieri l’economista francese Jacques Attali, rientrando dagli Stati Uniti. Qualche ora dopo le agenzie battevano la notizia di un importante colloquio telefonico tra Angela Merkel e il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che pare sia riuscito a vincere le resistenze di Berlino circa il salvataggio della Grecia, se salvataggio sarà.

 

Resta l’impressione che il nord dell’Europa si senta ormai attratto da un’idea “altra” dell’Eurozona: “Non più un’Unione allargata a 16 Paesi”, chiosava Giannini, “ma un’Unione ristretta solo a quei Paesi che accettano norme comuni sul rigore contabile e il controllo dell’inflazione”. Ne conseguirebbe la divisione dell’Eurozona in due parti, l’una di serie A, l’altra di serie B: “Inutile dire”, conclude Giannini, “dove finirebbe l’Italia, a sua volta spaccata tra una ricca Padania e un depresso Mezzogiorno”.

 

Eccolo lì, dunque, tra sciabolate di luce protese a scandagliare un teatro di macerie, eccolo il rischio secessione, che come un carro armato arranca minacciosamente da dietro l’orizzonte del proscenio, verso un epilogo, ormai dato per imminente. E il deus ex machina tarda a calarsi dalla gru.

Forse però stavolta l’irruzione sulla scena della parola “secessione”, benché addobbata di una sua logica epocale, non significa veramente “secessione”, ma solo che è finita ogni scorta di soluzioni dilatorie indolori. E la secessione stessa non parrebbe prospettarsi né come una soluzione né come una cosa indolore. Ma tant’è, tramite questo dolore i secessionisti sognano di poter raddrizzare le sorti economiche padane.

 

La preoccupazione più grande degli economisti è la mancanza di crescita, “perché senza crescita è impossibile ripagare i debiti”. Lo ha scritto il professor Giavazzi, ma non è certo il solo a pensarla così, chiedendosi che cosa si debba fare per rilanciare, appunto, la crescita. “La risposta è semplice: non andare in pensione a 60 anni, non proteggere le rendite di qualche corporazione potente che opprime i cittadini, aprire i mercati alla concorrenza”, eccetera, eccetera.

Risposta semplice, a parole. Prendiamo per esempio i lavoratori dell’edilizia, che arrivano all’età pensionabile dopo le decimazioni per infortunio sui cantieri. Possono essere collocati sullo stesso piano di “qualche corporazione potente”? Prima di far questo, si dovrebbero almeno chiamare le corporazioni potenti con il loro nome e se ne dovrebbero colpire i privilegi non solo a prole. Ma nulla di tutto ciò sarebbe indolore.

 

Nessuna terapia sarà indolore. Ma la terapia più inutilmente dolorosa di tutte ci sembra proprio quella della “crescita”. In assenza di massicce fonti energetiche alternative, l’unica “crescita” alla nostra portata sarebbe quella del buon senso. E buon senso vorrebbe che l’agenda politica sia dettata dalla politica, dall’interesse generale cioè, e non da orde di giovani brokers elegantemente assatanati.

 

"Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni”, ammonì una volta il grande John Maynard Keynes, avvertendo per altro che “quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un Casinò, è probabile che le cose vadano male." Ormai, l’accumulazione di bolle immaginarie, puramente speculative, è divenuta un multiplo del prodotto globale lordo.

 

Paul McCulley, uno tra i massimi esperti mondiali di fondi d’investimento, ha descritto la “tempesta perfetta” del 2008 come l’esito esplosivo di “un gigantesco party alcolico senza regole”, un Botellón straripante di minorenni ubriachi “fatti entrare dalle agenzie di rating che all’ingresso distribuivano carte d'identità false”. Vedete voi l’autogoverno del mercato se le agenzie di rating (come ricorda oggi Massimo Gaggi sul Corriere) possono continuare a dare voti sull’affidabilità dei soggetti economici, e persino degli stati, avendo sbagliato regolarmente e continuando a sbagliare ogni valutazione, anche dopo avere portato l’intero sistema creditizio globale sull’orlo del crac. In realtà, le agenzie di rating sono delle aziende dedite come altre aziende alla massimizzazione del profitto, e proprio perciò implicate in un inestricabile conflitto d’interessi.

 

Se questo è il sistema globale, allora forse non ha tutti i torti Serge Latouche, studioso emerito di antropologia economica dell’Università di Parigi, quando ritiene che l’umanità, tutt’intera, sia affetta da una gigantesca forma di tossicodipendenza economico-energetico-finanziaria.

Quale crescita, dunque? C’è chi pensa, per esempio nel Belpaese, che si possa realizzare in tempi ragionevoli un forte incremento produttivo, e magari mietere anche un’ondata entusiastica di aumento della domanda di made in Italy? Gli anni Cinquanta sono passati da un po’, e noi viviamo in un mondo in cui occorrerebbe ridurre sensibilmente le emissioni di carbonio, con tutto quel che ne consegue in termini di decrescita.

 

Per concludere, dato che la voga secessionista è stata concomitante per un intero ventennio con la

voga neoliberista, vale la pena aggiungere che un secessionismo determinato dalla “crescita” sarebbe probabilmente tanto stupido quanto una rottura padana dell'Unità nazionale volta stare in Europa con l’Austria invece che con l’Abruzzo. E questo perché sia la crescita che l'Europa o sono grandezze solidali o non sono.

 

Un popolo maturo può ben comprendere che, giunti al punto in cui siamo, l’unità del Paese rappresenta un dato e un valore irrinunciabili, anche e soprattutto perché occorre mettere in preventivo un periodo di vacche magre nel quale le dinamiche europee e globali ridiventano radicalmente imprevedibili.

Comprenderlo sarebbe, questo sì, un bel vantaggio competitivo.

 

 

domenica 2 maggio 2010

Ma che cos’è quest’Italia ?

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di Andrea Ermano

Dopo Marx, aprile, si diceva una volta. Quest'anno il mese d’aprile sembra dominato da una ricapitolazione vertiginosa del nostro Novecento nazionale.

    Le giornate della politica italiana sono scandite dai fantasmi di Giolitti, Mussolini e Alberto Sordi. La cosiddetta seconda repubblica si configura ormai come un mix di notabili (in sostituzione di correnti e partiti), di gesti arbitrari (in sostituzione di regole e procedure) e di auto-parodie (di chiara marca sordiana, appunto).

    C’era una volta (qualche giorno fa) una Costituzione che non permetteva al premier di governare, risolvere i problemi della gente, guarire le malattie.

    E allora il premier ordinò a Calderoli (sempre qualche giorno fa) di fare le riforme, assolutamente, anche a colpi di maggioranza.

    Ma fin dalle prime interlocuzioni un gran dissidio scoppiò tra il premier stesso e il Presidente della Camera, perché a quest'ultimo non è chiaro se l'unità nazionale rientra o meno nelle aspettative di vincita del Paese mentre per il premier non è chiaro se il Paese sia compatibile con le leggi ad personam.

    Prontamente, il premier ha ripreso a minacciare e vellicare il presidente dissidente, ma avendo contemporaneamente cura di raccontare delle simpatiche barzellette al pubblico. Il senso politico è stato esplicato così: le riforme non sono poi così importanti; l’importante è lasciare che il governo governi.

    Un popolo, a questo punto, sarebbe portato a concludere che governare si può, si poteva e si sarebbe potuto.

    Stacco musicale.

    Fiumi azzurri e colline e praterie. Dove scorrono dolcissime le mie malinconie. L'universo trova spazio dentro me. Che anno è, che giorno è? 

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"Il pubblico ludibrio di un bipolarismo in fase terminale", titola un quotidiano oggi. E Massimo Cacciari avrà le sue buone ragioni giolittiane nell’augurarsi che adesso Berlusconi non precipiti troppo precipitevolmente, perché allora sì che il marasma sarebbe totale.

    Dobbiamo per questo rallegrarci del forte sostegno vaticano a Tremonti e, persino, allo spirito della Lega, nel nome del padre e del figlio? Mentre i “sacri palazzi” ospitano una vera e propria ridda di udienze e incontri, in parte segreti, in parte riservati, in parte sbandierati, sul versante legislativo il presidente della Camera, Gianfranco Fini, descrive gli effetti del debordare leghista sul centrodestra, il Governo e il Paese.

    “Si dà corso, per compiacere alla Lega, a ipotesi secondo cui il bambino che è figlio di un immigrato che perde il posto di lavoro, e che quindi diventa ‘clandestino’, è cacciato dalle scuole esattamente come se si trattasse di un bambino di serie B. Il rispetto per la dignità della persona! E non potete dire che non è vero!”, ha denunciato ieri il Presidente della Camera in un mirabile discorso politico di fronte alla direzione del suo partito: “Sento dire che bisogna che i medici facciano la spia e, se un immigrato clandestino va in un ospedale, bisogna che i medici lo denuncino!”.

   Sì, dov'è rimasta la dignità della persona se il Vaticano benedice la Lega?

    Be’ certo, come potrebbe il Santo Padre rinunziare al suo “cortile di casa”? E certo l'Italia val bene un po' di acqua santa per quell’ottusa trota che odia tutti i “centocinquantatré grossi pesci” di cui parla il Vangelo.

    Ne viene fuori una bella dose d’ironia della storia. L’ex leader del MSI è oggi il maggior campione della resistenza istituzionale alla xenofobia, mentre sul pontefice tedesco, che benedice Bossi e Berlusconi per motivi non puri e non belli, aleggia la smorfia dell’Albertone nazionale, il più sgangherato auto-sghignazzo che il genio italico sia riuscito a produrre nella seconda metà del secolo scorso.

    Ma, poi, che cos’è quest’Italia, che ai clerical-padani mai piacque, se non un’equazione geo-politica con troppe, troppe, troppe incognite, formulata per celia, in modo inestricabilmente enigmatico, da una qualche arcaico dio pitagorico, priva di soluzioni reali?

    Chissà. Ora vedremo se l’Italia è ancora un paese capace di virtù repubblicane, e se magari ci siano donne e uomini che -- attivi nel mondo delle istituzioni, del lavoro, dell'economia e delle idee -- si preoccupano dell’interesse generale, prima che sia troppo tardi, senza lasciarsi vellicare dagli allettamenti del potere, senza lasciarsi impressionare da ricatti e minacce. Questo è il nostro augurio più fervido e sincero.