venerdì 30 ottobre 2009

Tornate ai vostri posti di lavoro!

La leadership di Pier Luigi Bersani, uscita vincente dalle primarie di domenica  scorsa, pone la parola "fine" alla lunga e contrastata transizione del Pci.

di Andrea Ermano

Avete presente certe storie di cattedra? Iniziano con un barone universitario che teme chi, tra i propri giovani assistenti, gli potrebbe far ombra. Perciò passa il testimone a un discepolo un po' ottuso. Il quale, giunto il suo turno, fa lo stesso. E così il suo successore. Finché non si arriva al successore di un successore che non si rende conto d'aver designato a succedergli un assistente intelligente. E il ciclo della vita intellettuale ricomincia.

    Modalità analoghe possono valere per alcune vicende della Seconda Repubblica, dove tattiche e dirigenti si succedevano uguali a se stessi con moto decadente uniforme, a causa di comportamenti politici non nuovi e non belli. L'acclamazione cammellata. Il plebiscito buonista. E così via in un'interminabile deriva costituzionale. Alla lunga, però, i bolognini e i predellini non stanno bene nelle mani dei bambini. E così venne il giorno in cui i cammelli, per un colpo gobbo dell'inconscio freudiano insorto, acclamarono come un sol uomo il nuovo statuto del Pci-Pds-Ds-Pd. Vi si sanciva il principio della "leadership contendibile", principio misterioso quant'altri mai, cui allora nessuno badò. Ma adesso la situazione è che Pier Luigi Bersani ha conquistato la segreteria nazionale del partito.

    Chiusi i gazebo delle primarie – quelle "vere", cioè molto diverse dalle due precedenti che erano state "primarie per" – adesso lo possiamo dire: la vittoria di Bersani non appariva per nulla scontata. Nel confronto tra apparato postcomunista e buonismo parrocchiale poteva tranquillamente anche accadere che prevalesse quest'ultimo. Forse ci aveva fatto un pensierino Rutelli, e chissà quali esiti avrebbe assunto la competition tra DS e Margherita se l'ex sindaco di Roma nella sua seconda corsa al Campidoglio non fosse platealmente capitombolato. Da ultimo, però, sulla netta vittoria di Bersani hanno influito tre fattori, abbastanza imprevedibili, che di seguito riassumiamo.

    In primo luogo si è attivato il "Fattore D" (D come D'Alema): l'ex premier e attuale vice-presidente dell'Internazionale si è gettato a capofitto con tutto il peso della sua persona e della Fondazione Italianieuropei nella rossa carlinga del vecchio apparato. In secondo luogo è sopraggiunto il "Fattore B" (B come Base): i tre milioni delle primarie hanno raccolto il messaggio mettendo a segno un'ultima e definitiva zampata di compattezza attorno al candidato emiliano Docg, senza cedere più di tanto al fascino del pur simpatico Franceschini. Infine, s'è aggiunto un "Fattore DC" (DC come Democristiani): molti morotei, zaccagniniani e prodiani hanno preferito porsi sotto l'egida del socialismo europeo, tanto meglio se ammaccato dall'attuale flessione di consensi, che comunque passerà.

    A questi tre fattori, inattesi, se ne combina un quarto ben noto e anzi evidente: il pacioso Bersani stesso, che ha saputo rassicurare più o meno tutti. Domanda: quanti guai si sarebbe risparmiata la Repubblica se nell'anno 1989, quando cadde il Muro di Berlino, avessimo avuto questo neo-segretario democrat al timone del vecchio Pci? Dopo quattro lustri nei quali il peso del lavoro e del sindacato, del parlamento e della lotta tra le idee nella vita politica nazionale è giunto ai minimi termini, dopo tutto ciò lasciateci ora sperare almeno che la parola "società civile" cessi di essere assurdamente reinterpretata come una categoria fondamentale dell'anti-politica.

    Quale suo primo atto in veste di neo-segretario, Pier Luigi Bersani ha fatto visita lunedì ai lavoratori di Prato, per iniziare a picconare "il muro di gomma che c'è tra discussione politica, istituzionale, mediatica e la realtà sociale del Paese". Il nuovo leader del Pd si prefigge una correzione di rotta rispetto alla logica del consenso mediatico-plebiscitario. Come? Collocando l'accento programmatico sul concetto di alternativa che è l'orizzonte proprio di un'opposizione "capace di mandarlo a casa". Poi archiviando la logica bipartitica dell'autosufficienza. Ma anche rammemorando ai giovani "il senso della storia". E soprattutto reinsediando il partito "né liquido né gassoso" tra i ceti popolari. Bersani vuole un Pd che stia vicino alla gente normale: "I vecchi socialisti dicevano ai loro dirigenti appena eletti: tornate ai vostri posti di lavoro".

    Sulla tolda della nave ammiraglia del centro-sinistra italiano c'è dunque un "socialdemocratico", come spregiativamente l'hanno definito taluni suoi avversari? In teoria sì, perché lo stile non personalistico ("Dentro la vittoria di tutti, c'è anche la mia"), l'ossatura dalemiana dell'organizzazione e le alleanze internazionali del Pd a partire dall'eurogruppo nel parlamento di Strasburgo, confermerebbero quest'infamante accusa. In realtà, non sappiamo che tipo di leadership sarà quella uscita vincente dalle primarie di domenica scorsa. Certo è che essa pone la parola "fine" alla lunga e contrastata transizione del Pci. E questa è una buona notizia per tutti.

venerdì 23 ottobre 2009

Prossimamente

Qualcosa finirà per nascere, in Italia. O inizierà a finire.
di Andrea Ermano

Separazione delle carriere in magistratura, superamento del "bicameralismo perfetto", rafforzamento delle funzioni esecutive ecc. ecc. Prossimamente qualcosa finirà per nascere, in Italia. O inizierà a finire. Sarà la "grande riforma"? La "rivoluzione liberale"? Riuscirà, l'attuale premier ad avviare, ancora una volta per la prima volta, i suoi "vasti programmi"? Finora, nella lunga storia nazionale, l'unica "grande riforma" è stata la Controriforma, e la "rivoluzione liberale" un'opera generosa di Piero Gobetti, rimasta lettera morta.

    Nel caso specifico, occorre considerare attentamente i termini cronologici in cui il tragitto riformatore dovrebbe compiersi. Circa trenta mesi ci separerebbero dal traguardo, soprattutto se la "grande riforma" venisse condotta a colpi di maggioranza, come il premier ha già dichiarato di avere in mente. In tal caso, un paio d'anni di lavoro parlamentare sono il minimo sindacale, sempreché le modifiche costituzionali prospettate in questi giorni superino la "doppia lettura" presso entrambe le Camere nonché il fuoco di sbarramento dell'opposizione.

    Seguirebbe il ricorso obbligatorio al referendum confermativo. Il quale referendum può anche avere esito negativo. È già successo pochi anni or sono che una revisione costituzionale berlusconiana sia stata bocciata dalle urne (con il 38,68% di "Sì" contro il 61,32% di "No"). Come farà il premier a concludere in trenta mesi una via che in quindici anni non ha mai saputo percorrere fino in fondo? Il rischio di fallimento è evidente.

    Non sarebbe più semplice, per il centrodestra, cercarsi un leader meno carico di conflitti d'interesse e di contenziosi con la giustizia? Due o tre anni bastano appena per una riscrittura della Carta costituzionale, ma sono tanti e troppi per chi deve sopravvivere politicamente ai sondaggi, ai processi e anche alla conflittualità sociale che appare fisiologicamente destinata a manifestarsi. I talk show sul Posto Fisso non imbandiscono il desco a nessuno, ma semmai riflettono le fibrillazioni interne alla compagine di governo.

    In una triennale prospettiva di "grande riforma" non ci sono buone possibilità di tenuta per questa maggioranza. Ed è perciò che rispunta l'arma spuntata di (eventuali, ma improbabili) elezioni anticipate. Qualcuno a destra pensa di chiudere i conti interni? Per farlo, gli occorrerebbe una compattezza che, se ci fosse, renderebbe inutile l'operazione. Dopodiché non sta scritto da nessuna parte che l'attuale maggioranza, nel ricorso alle urne, vincerebbe la sfida. Insomma, è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un Caimano superare un Gattopardo nei sessanta metri a ostacoli. E così sia.

    Però, resta un fatto. Il Paese ha bisogno delle riforme. Ne ha moltissimo bisogno, anche se l'attuale premiership non sembra proporzionata alle sfide dell'epoca in cui viviamo.   

lunedì 12 ottobre 2009

Libero mandato in libero Stato

Può il Parlamento italiano consentire che si vada avanti così?

Un grande avvocato di parte governativa, nel difendere il "Lodo Alfano" di fronte all'Alta Corte, si è richiamato ai simboli elettorali delle ultime elezioni politiche. In essi, come si sa, era stato introdotto il nome del "candidato premier". Da tale norma "tipografica" il principe del foro ha voluto dedurre un'inedita figura del premier, riformata in via di fatto dalla legittimazione popolare diretta. E questa legittimazione reclamava, secondo il rappresentante legale del Governo, l'immunità prevista dal Lodo.

    Respingendo l'argomento di cui sopra, i giudici hanno stabilito che eventuali deroghe immunitarie al principio costituzionale di eguaglianza di fronte alla legge (Art. 3) possano essere introdotte non tramite schede elettorali di nuovo conio, ma solo dal Parlamento in via di diritto e quindi secondo tutte le laboriose procedure e verifiche previste dall'Art. 138 in materia di revisione costituzionale.

    Il premier ha reagito malamente alla bocciatura, attaccando diverse istituzioni della democrazia italiana, al grido di guerra: "Queste cose qua, a me mi caricano, agli italiani li caricano: viva l'Italia, viva Berlusconi". Insomma, a Berlusconi per governare l'Italia occorre: 1) poter legiferare anche ad personam, 2) anche seguendo procedure ordinarie su materie di attinenza costituzionale, 3) anche senza disporre di una maggioranza qualificata in Parlamento e ovviamente 4) anche senza doversi sottoporre al successivo giudizio referendario.

    Come dire che ogni istituto costituzionale è assorbito dal plebiscito a favore del premier, inteso come incarnazione della volontà popolare: "Viva l'Italia, viva Berlusconi".

    La   realtà supera la fantasia di un Nanni Moretti e di una Sabina Guzzanti: una deriva post-democratica che rischia ormai di condurre allo scontro di tutti contro tutti. Mentre sui teleschermi di mezzo mondo va in onda un premier italiano inquisito dai tribunali del suo paese e "sputtanato" dalle redazioni straniere.

    Le donne e gli uomini di buona volontà, impegnati a evitare lo strapiombo cui sembra avviata la "seconda repubblica" sanno tutti, ma proprio tutti, che la decisione ultima sul futuro dell'attuale premier e del suo esecutivo non spetta al momento né ai tribunali né alle piazze né alle banche né ai mass media né alla Curia vaticana e nemmeno agli altri governi amici. Per adesso l'arbitrato sul Governo e sul Presidente del Consiglio è anzitutto nelle mani del Parlamento italiano.

    Perché, se le regole valgono ancora, allora il Governo, premier incluso, "deve avere la fiducia delle due Camere". Perché in Italia la principale espressione politica della sovranità popolare è il Parlamento. E perché i parlamentari hanno il dovere costituzionale di esercitare le loro funzioni "senza vincolo di mandato". In modo particolare, la libertà del mandato parlamentare vale pienamente, anche se il premier ha inscritto il proprio nome e cognome nei simboli elettorali. Essa vige, anche se, nel contesto del cosiddetto porcellum, il premier ha "nominato" molti degli eletti. Vale e vige, anche se il premier abusa della decretazione, del voto di fiducia, di macro-emendamenti mostruosi e quant'altro. Vige e vale, anche se dall'Olimpo piovessero fulmini e saette, minacce d'elezioni anticipate, mobilitazioni di piazza e chissà quali altri sfracelli ("gli Italiani vedranno di che pasta son fatto!").

    La legge fondamentale della Repubblica affida il mandato parlamentare solo ed esclusivamente alla coscienza di ogni singolo deputato e senatore: "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione".      

martedì 6 ottobre 2009

Viaggetto da Atene a Roma senza pretese retoriche

Ad Atene il presidente dell'Internazionale Socialista, Georges Papandreu, ha vinto nettamente le elezioni anticipate, conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. Questo avviene a una settimana dalla vittoria del premier socialista portoghese José Sócrates. Per molti commentatori queste sono notizie di terzo piano. Ma secondo noi sbagliano. Ed ecco perché.

di Andrea Ermano

Gli avversari del socialismo in Italia ripetono in questi giorni che con la débacle della SPD si chiude "l'era socialdemocratica", definitivamente, irrevocabilmente. Forse perciò è stata considerata per lo più irrilevante, una settimana fa, la vittoria del premier socialista portoghese José Sócrates.

    Ieri, però, Georges Papandreu (per inciso, presidente dell'Internazionale Socialista) ha vinto nettamente le elezioni in Grecia, conquistando al suo PASOK la maggioranza assoluta dei seggi nel nobile parlamento in Atene. Notizia anch'essa secondaria, ribatteranno i nostri avversari, perché il dato determinante resta la crisi della SPD in Germania.

    Orbene, in Germania, un notevole passo in avanti, l'hanno realizzato i liberali di Guido Westerwelle, esponente del popolo omosessuale ed ora probabile ministro degli Esteri tedesco. Ma nella cattolicissima Baviera le cose non sono andate bene per i cristiano-sociali. Quindi, nella nuova maggioranza tedesca, si può anzitutto parlare di uno spostamento del baricentro, da posizioni prima un po' più tradizionaliste a posizioni ora un po' più libertarie.

    Inoltre, nel nord del paese, la CDU di Angela Merkel si è salvata grazie al bonus di credibilità personale dalla Cancelliera (luterana). E quindi anche gli equilibri confessionali all'interno dell'Unione (tra CDU bavarese e CSU) si traslano in senso un po' più laico.

    Infine, a sinistra, i Verdi e la Linke hanno parzialmente compensato le perdite della SPD, il cui gruppo dirigente è disarcionato da Oskar Lafontaine. Il Bundestag che ne esce, risulta così articolato in un'esigua maggioranza di centro-destra e una forte opposizione di centro-sinistra. E il secondo governo Merkel, che sul piano parlamentare è ovviamente più debole della  Grosse Koalition, si troverà adesso a dover fronteggiare una più intensa combattività sindacale ed ecologista, senza l'argine dell'ex alleato socialdemocratico, a sua volta all'opposizione.

    Posto che la SPD non cambi nome, ma gruppo dirigente, è prevedibile che si sviluppino nel tempo forme di collaborazione, oltre che con i Verdi, anche con la Linke di Lafontaine.

    Se salterà il preambolo ad excludendum contro la sinistra e acquisirà plausibilità una nuova alleanza Rosso-Rosso-Verde, questa potrà concorrere al governo del paese con serie probabilità di vittoria tra quattro anni.

    Duque, a ben vedere, quelle che giungono dalla Germania non sono propriamente delle buone notizie per quanti in Italia avevano sognato di portare a termine la deriva moderata del centro-sinistra.

    Si può capire che taluni commentatori puntino ora a presentarci Lafontaine come una sorta di piccolo demagogo post-comunista. Ma non è così. Stiamo parlando dell'ex governatore della Saarland, dell'ex presidente centrale della SPD, del candidato socialdemocratico che si batté contro Helmut Kohl nel 1990 (in piena unificazione tedesca) e che infine guidò la SPD alla riconquista della Cancelleria, portando Gerhard Schroeder al governo federale nel 1998.

    In realtà, Lafontaine è un socialdemocratico di sinistra da sempre. Ha coordinato la stesura del programma del partito negli anni Novanta. È stato ministro delle Finanze. Ed è uscito dall'esecutivo perché non condivideva il moderatismo del nuovo Centro socialdemocratico (così si chiamava la "Terza via" in Germania).

    Contro questa credenza (tuttora diffusa nostro Paese) secondo cui le battaglie elettorali si vincerebbero al centro, Oskar Lafontaine ha fondato nel 2005 una formazione, esplicitamente "di sinistra", che di lì a poco si chiamerà Linke (espressione tedesca che significa appunto "sinistra"). Dopodiché la Linke ha inglobato i post-comunisti di Gysi infilando in rapida sequenza un successo elettorale dietro l'altro, non solo nei Laender dell'Est, ma anche a Ovest.

     Dite quel che volete, ma da tutto questo traspare una notevole capacità di giudizio, coniugata a un'abilità tattica non del tutto trascurabile. Non accade spesso, infatti, che un ministro si dimetta perché dissenziente (e nel caso specifico il dissenso si riferiva alla linea neo-liberista, rivelatasi poi perdente). Né è da tutti riuscire a portare in quattro anni una formazione come la Linke al rango di quarta forza politica della terza potenza mondiale. Quindi, forse, non aveva completamente torto Willy Brandt nello stimare Oskar Lafontaine a tal punto da aver pubblicamente indicato in lui il proprio successore.

    Dopodiché, nei salotti televisivi di Berlino, dopo quanto successo in Grecia (dove la protesta giovanile ha provocato la crisi del governo conservatore e aperto la strada al ritorno dei socialisti di Papandreu), si discute, non senza preoccupazione, su come conservare "la pace sociale", così preziosa in Germania, a fronte della grave crisi economica in atto.

    Può la Germania imboccare la via della repressione sociale violenta? O procederà a una redistribuzione più giusta delle ricchezze? In effetti, la stessa domanda si pone in tutto il continente europeo, e anche fuor di esso.

    La posizione dei socialisti su questo punto è ben nota: a Madrid come a Berlino, a Parigi come a Londra, a Lisbona come ad Atene e nella maggior parte dei paesi liberi. Questi i fatti, a voi Roma.       

giovedì 1 ottobre 2009

Un bellissimo ricordo?!

La formazione socialista-ecologista "Sinistra e Libertà" si propone di restituire una adeguata rappresentanza politica al popolo progressista.

"La sinistra italiana è un bellissimo ricordo" – queste parole sarebbero state pronunciate da Daniel Cohn-Bendit a margine dell'assemblea nazionale di "Sinistra e Libertà" tenutasi recentemente a Napoli. Il giudizio dell'europarlamentare ecologista, per quanto adegua-tamente severo, non toglie nulla alla domanda di rappresentanza che pur persiste nel Pae-se, presso ampi settori di popolazione (in stato di auto-esilio interiore).

A Napoli una risposta a questa domanda di rappresentanza è stata ora imbastita da quel che resta delle organizzazioni socialiste, post-comuniste ed ambientaliste miracolosamen-te scampate al gran sisma veltrusconiano di due primavere or sono.

"Sinistra e Libertà" ha inaugurato un processo costituente che dovrebbe sfociare nella fondazione di un partito unitario -- del lavoro, dell'ambiente e della laicità. Fava, Nencini, Grazia Francescato e Vendola -- in rappresentanza di SD, PS, Verdi ed ex-PRC -- hanno convenuto di unire le forze. Chissà che a loro non riesca di doppiare quel "Passaggio a nord-ovest" finora bloccato da ghiacci che però, ha detto Mussi, "prima o poi dovranno rompersi".

Finora tutte le operazioni analoghe sono fallite, risolvendosi (come nel caso, plateale, del PD) in altrettante "fusioni a freddo". Ma stavolta c'è un'anima socialista-ecologista nel progetto che mostra una sua intrinseca plausibilità, non fosse altro che in relazione alla crisi economica globale e all'emergenza climatica. A ciò s'aggiunga la drammatica eclisse civile italiana… Potrebbe dar innesco a un Ricominciamento.

Per quel che concerne i socialisti, su cui qui ci soffermiamo per ovvie ragioni, Riccardo Nencini, pur rivendicando con molto orgoglio le sue nobili ascendenze politiche, si dichi-ara in linea di principio disposto confluire in "Sinistra e Libertà", con il PS al pari delle altre componenti cui accennavamo.

Questa "cessione di sovranità", nel "bi-porcellum" stile Terza repubblica, è probabil-mente senza alternative. Ma può rivelarsi una scelta persino lungimirante, se a livello con-tinentale si rafforzasse (come noi auspichiamo) un'alleanza tra ecologisti e socialisti delle varie tendenze… E tra le varie tendenze socialiste ci si consenta d'includere anche forma-zioni come la Linke tedesca: non che si debba convenire su ogni singolo contenuto, per carità. Ma appare ormai abbastanza evidente che un riposizionamento "più a sinistra" dell'intera socialdemocrazia europea è davvero necessario, a partire proprio dalla SPD, che ieri ha subito la più amara sconfitta del Dopoguerra a causa del suo eccessivo mode-ratismo sociale. Nei prossimi giorni le dimissioni del presidente Münterfering chiuderan-no l'ormai decennale tenzone con Lafontaine inaugurando una nuova fase dei rapporti tra SPD e Linke.

Si parva licet, Nencini sembra aver afferrato il nervo epocale (il che è ovviamente più facile per una formazione politica di dimensioni assai modeste), ha lasciato che De Mi-chelis seguisse il suo ormai consueto pendolariato governativo, approntandosi senza ec-cessivi traumi ad inalveare il PS nel nuovo soggetto unitario. Il che significa, però, sia pure tra mille clausole e subordinate, che si staglia ormai all'orizzonte l'auto-scioglimento del partito.

Non sarebbe la prima volta che in Italia viene meno una presenza dichiaratamente soci-alista, organizzata in modo autonomo, organicamente collegata alla grande famiglia del socialismo internazionale. Il Partito Socialista Italiano "quattro volte parve stroncato dai nemici suoi, dai nemici della classe lavoratrice – nel 1894, nel 1898, nel 1915 e nel 1925", scriveva Faravelli sulla "Critica Sociale" qualche tempo dopo la Liberazione.

Come a dire che non siamo al trionfo postumo del fusionismo nenniano prima maniera, che il socialismo italiano è sempre rinato e che insomma bisogna aver fiducia nelle proprie idee. La preoccupazione semmai è altra. Perché l'esperienza storica ci segnala che queste costellazioni di discontinuità politico-organizzativa dello schieramento socialista finora non sono state di buon auspicio per il Paese. Quei quattro anni horribiles cui rinvi-ava Faravelli si contraddistinguono per ragioni che sono presto dette: stato d'assedio, stato di guerra, dittatura.

Crispi nel 1894 proclama in Sicilia lo stato d'assedio contro un movimento popolare che chiede alcune riforme sociali e fiscali che oggi noi considereremmo ovvie e scontate. Morti, feriti, arresti e processi.

Nel 1898 lo stato d'assedio viene invece proclamato a Milano contro la protesta popola-re per l'aumento del pane. Il generale Bava Beccaris prende a cannonate la folla, ammaz-zando ottanta manifestanti e ferendone un mezzo migliaio.

Lo stato di guerra entra in vigore nel 1915 nell'illegalità costituzionale. Il Parlamento, maggioritariamente contrario alla belligeranza, viene esautorato dal governo e da Vittorio Emanuele III, che con accenti pre-totalitari proclama: "Cittadini e soldati, siate un esercito solo! Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradi-mento". Seicentocinquantamila morti. Seicentomila dispersi. Novecentoquarantasettemi-la feriti. E poi il fascismo.

Nel 1925 risuona sotto l'Arco di Tito uno tra i più famigerati discorsi della non breve storia italiana. Il Duce, pubblicamente, esplicitamente, avoca a sé ogni responsabilità "storica, morale e politica" dell'assassinio di un parlamentare in carica, il leader dei socia-listi riformisti Giacomo Matteotti, barbaramente ammazzato a coltellate dopo inenarrabili sevizie.

Inizia così, in tutta ufficialità, la dittatura mussoliniana. Dopodiché il fascismo si dif-fonde nel Vecchio continente, grazie anche all'abilissimo sostegno della diplomazia vati-cana. Le armate della rivoluzione conservatrice si mettono in marcia per restaurare il "Sacro Romano Impero". Poi fanno quel che fanno. Guerra di Spagna. Leggi Razziali. Seconda guerra mondiale. Shoah.

Per nostra postera fortuna, quei tempi remoti di disumanizzazione assoluta sono oggi "soltanto" l'orrido oggetto di una memoria che non può né deve passare. Ma non è che, in tutta sincerità, possiamo dirci completamente tranquilli. Perciò spezziamo decisamente una lancia a favore dell'impegno politico e del coraggio civile. Avanti, compagni!


L'Avvenire dei lavoratori

Prima dell'imminente pausa estiva, che abbiamo posticipato a causa di una panne informatica, vorrei misurarmi con un compito facile in apparenza. Vorrei interrogarmi sui tempi in cui viviamo.

Importanti scuole di pensiero disputano circa la possibilità di conoscere i "tempi", non da ultimo perché questi ci si muovono sotto il naso, continuamente. E si tratta di un movimento magico, a ben vedere, dato che la dinamica dei "tempi" evolve in funzione dei pensieri che produciamo, e delle loro conseguenze.

Per una magia (una grande magia, l'unica vera a me nota) sembra che noi influenziamo i tempi in cui viviamo, e viceversa.

Noi stiamo di fronte ai nostri tempi come dinanzi a uno specchio vertiginoso, nel quale troviamo riflesso il nostro Esserci. E d'altronde, se la parola "tempo" è un altro nome per "esistenza", pare fin quasi ovvio che i tempi in cui viviamo ci rimandino a noi stessi. Il che potrebbe facilitare le cose; se non le complicasse. A ragione, infatti, gli studiosi dell'animo umano ci ammoniscono sull'opacità dell'Io, che nel caso specifico è l'opacità di tutti noi rispetto a noi stessi.

Non è dunque facile districare i termini della questione. Ma anche se lo fosse, e se il tempo e la vita e noi medesimi ce ne stessimo immobili, come le belle statuine, a recitare un fermo immagine assolutamente chiaro e nitidissimo, beh, anche in tale ipotesi assurda, chi mai potrebbe dire qual razza di epoca è quella in cui siamo capitati?!

Per esempio, negli ultimi venticinque anni un’intera generazione, proclamatasi libertaria nella sua rivolta tardo-adolescenziale meglio nota sotto il nome di "Sessantotto", si è convertita in massa, o quasi, al liberismo selvaggio: ora va in quiescenza tra le molte macerie, inscritte in una trista parabola dominata dall'avidità. Persino a sinistra (o, se si preferisce, nel centrosinistra) il ben noto entusiasmo dei neofiti ha scatenato un'onda di nuovismo cinico. Questo è accaduto, non solo in Italia, ma in mezzo mondo.

Ieri burocrati moscoviti, oggi boss multimiliardari: ecco la Russia post-comunista. Dall'altra parte dello stretto di Bering il far west dell'edonismo finanziario è giunto allo strapiombo: ecco l'America para-liberale. E intanto nella Commissione di Bruxelles (a egemonia para-socialista e a guida prodiana, ahinoi) si puntava sul lucroso allargamento a est, suicidando la costituzione europea.

Macerie su macerie.
Mentre nell’ultimo quarto di secolo assistevamo attoniti a questo spettacolo, i problemi demografici, ecologici, sociali, economici, politici e strategici seguivano il loro corso. Siamo così capitati in questi nostri tempi di grandi aumenti. Aumenta la popolazione terrestre, aumenta la temperatura globale, aumentano le ricchezze dei ricchi e il numero degli affamati, aumentano qua e là i timori, le paure, le tensioni, i conflitti. Aumenta anche lo stupore verso la generazione di Woodstock, e mi ci metto dentro anch'io, che gestisce decine e decine di interventi militari ovunque nel mondo. Quante floride occasioni di profitto per la mafia delle armi, della droga e dei clandestini!

Insomma, le risorse morali e naturali sono quel che sono, per lo meno nel cosiddetto Occidente, sia esso di vecchio o di nuovo conio. Dobbiamo confessarlo con un granello di sincerità: le nostre prospettive non paiono propriamente rosee. Ma tant'è, cosiffatta si presenta la situazione dei tempi in cui viviamo. Fino a prova contraria.

Va da sé che sarebbe consigliabile uscire da questa situazione, e in fretta. Non è facile, ma almeno un’epoca del consenso ipnotico, dominata dal liberismo selvaggio, è finita (con la nazionalizzazione delle banche, quelle non fallite), mentre affondava nell'ignominia l'Armada Invencible di pennivendoli che ci hanno ripetuto fin oltre la nausea che il "libero" mercato si regola benissimo da sé... quanto meno fino a quando non servono le montagne di pubblico danaro per riempire spaventose voragini speculative.

Quanto tempo sprecato!
Beninteso, il mercato non può essere facilmente regolato, nemmeno a volerlo, perché il sistema d’interscambi ha carattere mondiale mentre i possibili meccanismi di controllo raggiungono (al più) il livello continentale. Ma si sa da un bel po' che l'anarchia capitalista agisce come una variabile impazzita, protesa a saccheggiare le risorse planetarie (di tutti) trasformandole nella ricchezza (di pochissimi).

Dunque, la necessità di un'istanza capace di regolare il "libero" mercato, prima che esso ci ammazzi tutti, si riassume nel "problema cosmopolitico": articolare una governance del mondo globalizzato. Vogliamo ricominciare a parlarne?

Ci fu un'Età dei Lumi nella quale il sommo Kant arditamente teorizzava una federazione cosmopolita delle nazioni a tutela della pace. Oggi la necessità di rafforzare l'ONU si direbbe un'evidenza piuttosto diffusa. In questo senso la costruzione europea potrebbe rivelarsi una miniera di tecnologie istituzionali assai utili alla Cosmopolis. E chissà che un asse USA-Cina non possa svolgere nel mondo un ruolo propulsivo analogo a quello franco-tedesco nell'Europa del Dopoguerra. Auguriamoci che i due giganti del Pacifico si accordino per contenere le emissioni di gas serra. Perché il tempo vola.

Sul sito di Radio Radicale ), è disponibile la registrazione del discorso tenuto da Carlo d'Inghilterra a Monte Citorio circa l'urgenza di evitare l’irreversibilità del surriscaldamento climatico. Nel discorso (durato non più di mezz'ora) viene sottolineato che restano circa novanta mesi per agire: novanta mesi votati (comunque) a cambiare il mondo.

Una delle possibili misure riparatorie sta verosimilmente nella produzione di energia tramite impianti solari da costruire nei deserti. Un'altra tecnica potrebbe venire dall'immissione nell'atmosfera di scudi nuvolosi capaci di schermare parte dell'irradiazione termica. Alcuni studiosi propongono poi una massiccia coltivazione di alghe marine atte ad assorbire grandi quantità di anidride carbonica. La lista delle tecniche finalizzate a contenere il surriscaldamento è destinata ad allungarsi, ma il primo posto in classifica rimarrà saldamente riservato a una techne molto speciale, che gli antichi chiamavano politikè.

Ricordiamolo: l'arte della politica è rimasta al centro della polis – prima, durante e dopo la lunga transizione storica dalla città-stato allo stato nazionale. E così sarà anche nella Cosmopolis, se Cosmopolis sarà.

Arte politica – o per meglio dire: cosmopolitica –significa capacità, necessariamente collettiva, di costruire una grandissima rete che però non si smaglia: capacità cioè di sviluppare un ragionevole grado di coordinazione generale umana, nel rispetto delle realtà locali e della pluralità culturale, pena il conflitto e quindi la catastrofe (perché il tempo fugge).

"Noi, il genere umano, siamo giunti ad un momento decisivo", diceva qualche tempo fa Al Gore, già vice presidente degli USA e premio Nobel per la pace: "È inaudito, e fa perfino ridere, pensare di poter davvero compiere delle scelte in quanto specie, ma è proprio questa la sfida che ci troviamo davanti".

E allora la domanda che, per concludere, ci poniamo riguarda la soggettività di questo grande discorso (e percorso) di scelte collettive a venire. Si dirà che il soggetto è qui il genere umano, il quale però non entra in scena come un soggetto "già dato". L'Umanità è il fine, la sfida, il compito. L'Umanità come soggetto politico si compie con il costituirsi della Cosmopolis. Ma lì bisogna prima arrivarci.

E dunque domandiamocelo: quali soggetti avrebbero la capacità di sostenere questo cammino verso l'Umanità? Poiché stiamo parlando di soggetti a dimensione internazionale, potremmo elencare: la comunità economico-finanziaria, le grandi religioni e la comunità scientifica. Tuttavia, queste comunità non s'intendono propriamente come soggetti politici.

Al più tardi a questo punto, constatiamo che è del tutto impossibile rimuovere dal video il maggior raggruppamento umano organizzato, la cui soggettività nacque un secolo e mezzo fa con chiara vocazione politica globale: Workers of all countries unite! – "Lavoratori di tutto il mondo unitevi!".

Girate pure la scacchiera come vi pare, il soggetto centrale della Cosmopolis sono le lavoratrici e i lavoratori con le loro organizzazioni. Oggi più che mai. Questa tesi sorprende anche me, tanto sembra polverosa. E mi rendo ben conto che non può destare l'entusiasmo né del sistema mediatico-pubblicitario-finanziario né delle varie caste sacerdotali di cui abbondiamo ovunque nel mondo. E però così è. Fino a prova contraria.

Molte esperienze storiche, esaltanti e terribili, si sono susseguite nell'alveo dell'Associazione Internazionale dei lavoratori sorta nel 1864 a Londra per iniziativa di Karl Marx. Quella soggettività si articola oggi in una vastissima rete globale di sindacati operai, partiti socialisti e democratici, movimenti cooperativi, fondazioni politico-culturali e mille altre istituzioni.

Folle sarebbe pensare che la Cosmopolis possa costituirsi senza le lavoratrici e i lavoratori di tutto il mondo. Perché il tempo incalza.